sabato 17 marzo 2012

L'AQUILA: FORSE A FINE MESEARRIVA DAVID GROSSMAN

L'AQUILA - David Grossman, scrittore israeliano, all'Aquila. A fine mese, stando a fonti indirette ma autorevoli, il grande nome della letteratura mondiale dovrebbe arrivare in città.Non sono ancora note la data precisa e il luogo nel quale l'autore dei best e long seller Che tu sia per me il coltello, Vedi alla voce:amore, A un cerbiatto somiglia il mio amore dovrebbe incontrare il suo nutrito e differenziato pubblico; l'autore è infatti in grado di spaziare formalmente - all'interno di uno stile dalla cifra autentica e personale - dalle tematiche per bambini ( Qualcuno con cui correre, Ci sono bambini a zig zag...) a quelle per adulti all'opera saggistica ( Un popolo invisibile.I palestinesi d'Israele, ll vento giallo ...).Grande commozione destò in tutto il mondo l'orazione funebre che Grossman dedicò al figlio Uri, caduto tragicamente a 20 anni durante la seconda guerra del Libano.http://www.abruzzoweb.it/

Paola Gassman nei panni di Golda Meir

"Donna fragile e premier di ferro"

Roma, 16 marzo 2012 - "COSA ACCADE quando l’idealismo diventa potere?" chiedeva il drammaturgo William Gibson. Oltre si potrebbe dire: cosa accade quando protagonista dell’idealismo e del potere è una donna, influenzata anche dalle emozioni private? Così Maria Rosaria Omaggio ha affrontato la regia del lavoro di Gibson dedicato a una delle figure più importanti della storia del XX secolo: 'Il balcone di Golda'. Golda è la Meir, prima donna premier di Israele, quarta al mondo a ricoprire questo ruolo. Una 'Lady di ferro', paragonata alla Thatcher, "il miglior uomo al governo" diceva di lei l’ex premier Ben Gurion. "Invece era una donna, certo forte ma anche con molte fragilità", dice ora Paola Gassman che porterà in scena il lavoro di Gibson - con tremila repliche a Broadway detiene il record del cartellone più longevo per un monologo - il 20 marzo (con repliche fino al 1° aprile) al Piccolo Eliseo di Roma. Sola in scena, alle spalle le immagini della vita di Golda Meir soffuse nelle musiche firmate dal premio Oscar Luis Bacalov.Signora Gassman, che cosa le è piaciuto di Golda, scoprendola?"La dualità. I 'balconi' in effetti dovrebbero essere due: da uno ci si affaccia sulla politica internazionale, sulla storia, dall’altro balcone invece lo sguardo corre sulla sua vita privata. Complessa, difficile, che appartiene a tutte le donne. I problemi con i figli, il rapporto con il marito, gli amanti, la fragilità dei sentimenti. Di contro, il ruolo pubblico con le immani decisioni che ha dovuto prendere. Una figura molto interessante".Maria Rosaria Omaggio alla regia... una donna: è più facile o difficile?"Mi piace lavorare con un regista serio, non mi sono mai soffermata sul fatto che fosse maschio o femmina".Lei a teatro, molte altre al cinema con Meryl Streep/Thatcher in testa. E’ il momento delle donne di potere?
"Non saprei... E’ un modo, credo, per far conoscere anche ai più giovani figure importanti nella vita del secolo scorso, animato dalla forza di molte donne di potere. Nel mio caso si è voluto storicizzare il personaggio, non politicizzarlo, dare qualche strumento in più di conoscenza che possa servire anche a leggere gli avvenimenti attuali che riguardano Israele".Anche Paola Gassman è una primadonna."Ma assolutamente no. Provo orrore per il divismo. Potrà capire... all’inizio sono stata assalita dall’attenzione dei media, la mia non è proprio una famiglia che passa inosservata".A che cosa ha dovuto rinunciare per inseguire il teatro?"A qualcosa avrò rinunciato, ma non parlerei di rinunce quando si fa una scelta di vita. Magari mi dispiace non aver vissuto abbastanza i miei figli, ma credo che senza questo lavoro sarei stata una madre peggiore, come d’altronde senza la famiglia non sarei stata una buona attrice".Mai fatto cinema?"Il cinema ed io ci siamo reciprocamente, serenamente ignorati".E la televisione?"Mi piacerebbe, non dico di no, avere qualche ruolo di bella madre, di autorevole nonna, ma questa tv non ha molte cose che mi piacciano".Vorrebbe più teatro in tv?"Ma proprio no. La ripresa televisiva di un lavoro teatrale l’ho sempre trovata orrenda. Io - come diceva mio nonno Renzo Ricci - voglio un sipario che si apre, davanti a me".Annalisa Siani, http://qn.quotidiano.net/

La comunità ebraica vota Obama. Ma l’Old party gioca la carta Iran

Di Massimiliano Santalucia, http://affaritaliani.libero.it/

Comunque andranno a finire le presidenziali negli Usa ai repubblicani non si potrà certo rimproverare la mancanza di perseveranza. Approfittando della recente visita oltreoceano del primo ministro israeliano Netanyahu e del convegno della Aipc (American Israel Public Affairs Committee, la principale associazione israelo-americana), l’Old Party si è rimesso a caccia del voto dell’influente comunità ebraica americana in vista delle prossime presidenziali e lo ha fatto adottando una strategia collaudata già in passato. I repubblicani si sono lanciati in decisi attacchi contro Obama accusandolo di non essere un vero amico dello stato ebraico e rimproverandogli di non adottare una posizione maggiormente dura nei riguardi dell’Iran. Tale approccio non rappresenta una sorpresa; ad ogni campagna elettorale sia i repubblicani che i democratici corteggiano le principali comunità presenti nel paese prodigandosi in lodi per la terra d’origine degli elettori e promettendo miglioramenti nei rapporti bilaterali.Tuttavia questa dinamica è ancora più lampante nel caso dell’assalto repubblicano al voto ebraico in cui si enfatizza fortemente l’appoggio incondizionato a Israele e si promette di non assecondare le richieste palestinesi. Questa immutabile strategia però suscita diverse perplessità poiché essa non è ancora riuscita a conquistare il cuore e le menti della comunità ebraica americana la quale ha spesso votato in massa per i democratici. Così è stato anche nel 2008 e per il 2012 il trend non sembra destinato ad invertirsi. Secondo un recente sondaggio della Gallup negli ultimi quattro anni la percentuale di ebrei americani che ha approvato l’operato di Obama è stata del 14% superiore rispetto agli altri elettori mentre un’altra indagine demoscopica indica che presso la comunità ebraica l’inquilino della Casa Bianca raccoglierebbe il 63% dei consensi contro il solo 24% del repubblicano Romney. Malgrado gli americani di origini israelita nutrano indubbia simpatia per Tel Aviv, quando si tratta di andare alle urne però danno la priorità alle questioni interne, prima fra tutti l’economia, esattamente come tutti gli altri loro connazionali. Inoltre la comunità ebraica negli Usa non è assolutamente un blocco monolitico e rivolgersi a essa come se fosse un unico interlocutore enfatizzando l’appoggio a Israele potrebbe essere un errore. Ancora oggi L’Aipc riveste il ruolo guida fra le associazioni ebraico-americana nel paese ed appoggia la politica estera di Tel Aviv. Tuttavia il suo primato è stato recentemente messo in discussione dalla nascita di nuove organizzazioni ebraiche come la J Street che si fanno portatrici di un approccio più critico verso il governo israeliano e assumono posizioni più favorevoli alla causa palestinese.Ma non ci sono solo ragioni politiche dietro l’appoggio dei cittadini israeliti al partito democratico. Ad Affaritaliani.it il professor Jonathan Sarna, docente di studi ebraici presso la Brandeis University di Waltham nel Massachusetts, ha spiegato come ci sia anche una dimensione culturale nella comunità ebraica americana che spinge molti dei suoi componenti a votare per i democratici. “I cittadini israeliti in questo paese sono molto sensibili a valori come la tutela delle minoranze, la promozione dell’assistenza sociale e la riduzione del divario fra ricchi e poveri. Inoltre la maggior parte degli ebrei-americani vede con favore la divisione fra stato e chiesa e ciò non si concilia con l’accentuazione degli elementi cristiano evangelici molto presenti nel partito repubblicano.” Un simile scenario sembrerebbe rendere il tentativo di conquista del voto ebraico da parte dell’Old Party una sorta di missione impossibile e fa pensare che l’ennesima adozione della linea pro-israeliana per fini elettorali sia destinata a fallire.Tuttavia c’è un aspetto che potrebbe rendere il disegno repubblicano meno illogico e che forse potrebbe spiegare le ragioni dell’insistenza nell’appoggio a Tel Aviv. Se da un lato la maggior parte dei cittadini statunitensi d’origine israelita sembrano sostenere i democratici, dall’altro è però vero che vi è incertezza su come questo consenso si distribuirà sul territorio nazionale. “La comunità ebraica potrebbe essere decisiva in alcuni stati chiave come la Florida” aggiunge ancora il professor Sarna. “La partecipazione elettorale è molto alta presso la comunità ebraica, conquistare anche solo pochi voti in uno stato chiave dove i margini fra i due partiti sono spesso molto ristretti potrebbe essere decisivo per la vittoria finale. Inoltre bisogna considerare che ci sono pur sempre alcune componenti della comunità ebraica come gli ortodossi e gli ebrei di origine russa arrivati dall’ex-Urss che simpatizzano per i repubblicani e possono spostare una quota di consenso.” I democratici sembrano essere consapevoli di tale situazione e non hanno sottovalutato il corteggiamento repubblicano verso la comunità israelita. Diversi esponenti democratici al Congresso hanno dichiarato di condividere l’idea repubblicana di un maggior appoggio a Israele e lo stesso Obama è intervenuto direttamente al convegno dell’ Aipc sottolineando l’impegno della sua amministrazione in favore dello storico alleato.Ma mentre i due partiti statunitensi gareggiano a chi si mostra maggiormente filo-israeliano e i repubblicani si distinguono per la radicalità delle loro posizioni, l’appoggio reale a Tel Aviv da parte dei cittadini statunitensi d’origine israelita sembra invece essere recentemente entrato in una fase di ridimensionamento. Secondo uno studio del Hebrew Union College di New York le nuove generazioni di ebrei americani non si sentirebbero così legate a Israele come invece è capitato ai loro predecessori. Il nuovo trend sarebbe dovuto sia ai numerosi matrimoni misti che avrebbero limitato il senso d’identità ebraico, sia al fatto che l’appoggio dell’ Aipc alla politica d’Israele è stato visto da molti in contraddizione con i valori liberali che invece si vorrebbero difendere. Nel breve termine tale trend non dovrebbe avere un grosso impatto sulla comunità ebraica americana, ma sugli scenari nel lungo termine non c’è certezza. La battaglia per la conquista del voto ebraico è cominciata e i repubblicani ancora una volta la combattono con le stesse armi. Senza forse rendersi conto che esse stanno oramai diventando obsolete.

LAURA CANTINI INCONTRA IL NEO AMBASCIATORE D'ISRAELE IN ITALIA


La Vicepresidente della Provincia di Firenze ha ricevuto a Palazzo Medici Riccardi Neor Gilon insieme al Ministro Consigliere Bar-Sadeh
Il nuovo Ambasciatore d'Israele in Italia, Neor Gilon, in visita a Firenze venerdì 16 marzo insieme al Ministro Consigliere Bar-Sadeh è stato ricevuto a Palazzo Medici Riccardi dalla Vicepresidente della Provincia di Firenze, Laura Cantini. "L’Amministrazione Provinciale è da tempo attiva nella partecipazione ad un progetto della Regione Toscana per la promozione turistica nello Stato di Israele - ha ricordato Laura Cantini - ed è nostro interesse continuare un rapporto di continuo scambio e sostegno reciproco". Nel maggio 2011 il Presidente della Provincia Andrea Barducci ha incontrato la Sig.Ra Yulia Shtraim, Vice Sindaco del Comune di Haifa, con l’intenzione di stringere un rapporto di amicizia/gemellaggio con quella città. Nell'ambito della stessa iniziativa anche il Consigliere provinciale Stefano Fusi, su delega del Presidente Barducci, ha incontrato la Sig.Ra Shtraim (anche Direttore Generale dell'Ufficio Turistico di Haifaha) partecipando ad un'ulteriore missione in Palestina ed Israele. Entro il mese di aprile 2012 sarà elaborata una bozza di protocollo d'Intesa finalizzato alla costruzione di un partenariato da sviluppare nei settori delle attività culturali e turistiche. Molto sensibile al tema del turismo, l'Ambasciatore Gilon, ha sottolineato l'importanza e la necessità di sviluppare la promozione d'Israele, dando un'immagine più realistica di questo paese, fuori dai preconcetti che spesso ne condizionano il giudizio. Israele è un paese all’avanguardia in molti settori economici e scientifici -come lui stesso ha definito - "una piccola isola occidentale dove cultura, abitudini e stile di vita sono molto simili e vicini a quelli italiani". In una visita del palazzo fiorentino, l'Ambasciatore ha avuto modo di vedere la grande targa con i nomi della Deportazione Toscana (1943/45) inaugurata lo scorso 27 gennaio all’interno della Galleria delle Carrozze alla presenza del Presidente della Comunità Ebraica di Firenze Guidobaldo Passigli. http://met.provincia.fi.it/

SANITA' DIGITALE, IL MODELLO ITALIANO A GERUSALEMME

(AGI) - Gerusalemme, 16 mar. - L'eccellenza italiana nel campo dell'informatica sale in cattedra in Israele dove, il prossimo 19 marzo, si svolgera' un convegno internazionale dedicato alla tecnologia del cloud computing in campo sanitario. Protagonista dell'evento, organizzato a Gerusalemme con la collaborazione dell'ambasciata italiana, e' il modello della Ulss 8 di Asolo (Treviso) che, negli ultimi mesi, si e' distinta in campo nazionale per l'utilizzo del cloud computing come strumento informativo per i cittadini sulle attivita' cliniche. In particolare l'unita' socio-sanitaria veneta, che fa parte del team tecnico di Digit Pa, l'ente nazionale per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione, e' stata invitata a presentare la sua esperienza della nuvola 'Pic' e le sue applicazioni in campo gestionale e clinico per lo sviluppo della sanita' digitale. "L'Italia e Israele hanno sistemi sanitari differenti - spiegano dall'ambasciata italiana - ma i rapporti scientifici e tecnologici tra i due Paesi sono particolarmente intensi e, pertanto, gli sviluppi e i progetti nel campo dell'Itc che sono allo studio sulle due sponde del Mediterrano possono sostenere l'evoluzione della sanita' digitale in entrambi i Paesi". Da questo punto di vista, "la conferenza rappresenta un'eccellente opportunita' per migliorare le prospettive di lavoro, grazie anche alla possibilita' di scambi e confronti a livello internazionale".All'appuntamento di Gerusalemme, realizzato in collaborazione con il Forum PA, parteciperanno l'organizzazione sanitaria israeliana Kupat Holim Maccabi, l'Hadassah University Hospitals di Gerusalemme e alcuni dei principali istituti di ricerca dello stato ebraico, come il Gertner Institute e lo Sheba Medical Center. L'evento, sottolineano gli organizzatori, sara' anche un'occasione di incontro tra importanti provider internazionali, come IBM, Microsoft, Accenture, Imaging MD, eWave MD e Medic4all, e provider italiani dal consolidato profilo internazionale, tra i quali Dedalus, Noemalife, Telecom. Da parte italiana, e' prevista anche la presenza di organismi come Infocert, l'universita' Ca' Foscari di Venezia, Digit Pa e l'Istituto italiano privacy, partner della Ulss di Asolo nello sviluppo del cloud computing.

Gaza city
Gli Arrigoni amano Hamas, non la sua giustizia

http://www.ilgiornale.it/, di Fiamma Nirenstein
C'è qualcosa di fatale e triste, come chiedere che un racconto mal concluso trovi almeno un baleno di luce, nella richiesta di verità rivolta soprattutto allo Stato italiano che proviene dalla famiglia, dagli avvocati, dagli amici di Vittorio Arrigoni, il giovane attivista filopalestinese ucciso per mano di coloro che considerava i suoi migliori amici nella striscia di Gaza. Là, prodigandosi per i palestinesi e spargendo dal suo blog parole di fuoco contro Israele, faceva il volontario. Purtroppo fu rapito e ucciso un anno fa da un gruppo definito «salafita», ormai una specie di patente di assoluzione per tutti i loro amici appena di un grado al di sotto nella scala dei tagliagole, come Hamas e la Fratellanza Musulmana, appunto. Il dramma dell'uccisione di Arrigoni adesso continua nel rifiuto del tribunale di Gaza di celebrare il processo, nel continuo rinvio delle sedute, nella strana latitanza di alcuni accusati su un territorio minuscolo come la Striscia, e nella pesante ironia dei barbuti killer che sghignazzano in aula. C'è di che stupirsi? Certo che no in una situazione come quella di un territorio governato da un gruppo terrorista. Ed ecco che la delusione della famiglia e dei sodali di Arrigoni diventa, a sorpresa, quella che ti è stata iniettata nel sangue dall'educazione democratica e borghese. Quella della certezza del diritto. Perch´, allora, chiede la famiglia, il governo italiano non interviene? Perch´ gli interrogatori sono ridicoli? Perch´ non si conosce la lista dei testimoni? Perch´ non si ammette che gli italiani si costituiscano parte civile? E qui, si suggerisce, non dipenderà dal fatto che l'Italia non riconosce Hamas come potere legale? Perch´ non si fa un processo in absentia ora che si pensa che uno dei principali accusati sia in Egitto? Si capisce bene che la signora Egidia Beretta e il suo avvocato abbiano scritto a Napolitano, ai ministri degli Esteri, della Giustizia, e chiedano conto della loro «indifferenza». Ma è qui che le due parti della questione, la richiesta di legalità e l'indifferenza verso il fatto che Hamas sia un gruppo terrorista e illegale, stridono nel toccarsi, non si incontrano. Gli alleati naturali non dovrebbero essere i rappresentanti del governo, ma, per esempio i talkshow filopalestinesi senza se e senza ma; quelli che dovrebbero avere fiducia in un processo di Hamas potrebbero essere per esempio coloro che mostrano propensione per quell'organizzazione, l'arcipelago filopalestinese che ama la Flottilla, che dice che Israele non ha diritto a difendersi... in Italia ce ne sono tanti, per esempio, che so, Michele Santoro, o altri giornalisti da talk show. Vorremmo certo vedere un processo fair. Ma chi pensa di poter interagire, parlare con Hamas vive in una bolla ideologica che è la stessa che ha condannato a morte Arrigoni. L'Italia infatti l'ha messa nella sua lista di organizzazioni terroristiche, insieme all'Europa e agli Usa. Chi mai può aspettarsi un processo giusto da Hamas? Con tutto il rispetto per il suo lutto, sembra il caso che la famiglia di Arrigoni si renda conto che Arrigoni è stato ucciso per fanatismo islamista, come Daniel Pearl a Karachi, come Nick Berg in Iraq, come Fabrizio Quattrocchi, perch´ per gli integralisti islamici era «nemico di Dio e di Allah» e diffondeva a Gaza «il malcostume occidentale» e perch´ «l'Italia combatte i Paesi Musulmani». Hamas sa cosa fare ai nemici, nel periodo intorno al 2007 quando prese il potere a Gaza (luglio), furono uccisi 353 palestinesi. Svariati uomini di Fatah furono, ricordano orrificati testimoni, buttati giù dai tetti, 86 dei morti di cui 26 bambini erano passanti, le torture si sprecarono. Di Hamas è il rapimento di Shalit, i duecento missili lanciati dal 9 al 13 marzo su Israele, la distruzione del campo di ricreazione dell'Onu i cui criteri non erano confacenti ai criteri islamisti, l'arresto di 150 donne con l'accusa di stregoneria, l'uccisione del libraio cristiano che vendeva Bibbie, Rami Khader Ayyad, la rimozione dei corpi dei cristiani dai cimiteri. Che cosa può avere a che fare la giustizia con un processo celebrato in un simile ambito?


Israele: messaggio di pace della comunità cattolica ebreofona di Beer Sheeba

Sono giorni di ansia e paura per la piccola comunità cattolica di espressione ebraica di Beer Sheeba, capitale del Negev, a sud di Israele, che sta vivendo gli attacchi con missili grad da parte di miliziani della Jihad islamica della Striscia di Gaza. L’ultimo lancio risale alla serata di mercoledì, con Israele che ha risposto con due raid aerei contro Gaza e Khan Yunis. Una tornata di violenza che ha provocato fino ad oggi 26 vittime palestinesi tra le quali un ragazzo di 15 anni ed un bambino di 7. Una situazione di pericolo che ha indotto domenica scorsa don Gioele Salvaterra, fidei donum della diocesi di Bolzano-Bressanone, da due anni e mezzo in Israele, dove guida la kehilla di Beer Sheeba, a celebrare la messa nel rifugio della casa della comunità. “Questa scelta – ha raccontato il sacerdote all'agenzia Sir - è stata dovuta alla necessità di sentirsi più tranquilli, dopo che due ore prima della messa, un missile è caduto non lontano dalla nostra casa. Abbiamo voluto incontrarci ugualmente nel rifugio e i fedeli, sono circa 40 quelli che vengono la domenica, hanno accettato questa scelta”. “C’è paura e ansia ma non perdiamo la speranza della pace – ha proseguito don Gioele - . Desideriamo la pace e la giustizia, non vogliamo la vittoria di una o dell’altra parte. In questo conflitto non ci sono vincitori ma solo sconfitti. La nostra comunità – ha aggiunto - sta vivendo questi giorni con ansia certamente ma anche con la speranza che presto tutto finisca e che, israeliani e palestinesi, si possa tornare a vivere senza paura”. A soffrire sono soprattutto i bambini, spiega don Salvaterra: “I bambini sanno quello che sta accadendo, lo apprendono dai genitori, dagli amici. Ciò che cerchiamo di fare è farli sentire protetti, ascoltare le loro paure. Spesso vengono qui per la messa e sentono il bisogno di raccontare ciò che è successo, cose come le corse a notte fonda nei rifugi, dopo l’allarme”. Dalla comunità cattolica ebreofona di Beer Sheeba filtrano anche diverse testimonianze come quella della piccola Salma: “la situazione non è normale. Gli abitanti non sono abituati alla frequenza del suono delle sirene come in questi giorni. Le scuole sono rimaste chiuse e noi bambini siamo in qualche modo felici per questo ma i nostri genitori soffrono ed hanno paura per noi. Noi continuiamo a pregare”. Quella preghiera che ispira apertura ed accoglienza come spiega ancora il sacerdote: “Il messaggio che le nostre comunità cattoliche di espressione ebraica possono veicolare nella situazione che viviamo è quello di apertura all’altro, israeliano e palestinese. Abbiamo bisogno di apertura e di accoglienza e per questo - conclude don Gioele - leviamo le nostre voci per la pace e la calma nel Sud e per tutti coloro che soffrono”. (M.G.) http://www.oecumene.radiovaticana.org

Iran: Juppe', no ad attacco Israele

Francia pronta a schierarsi se sicurezza fosse minacciata

(ANSA) - PARIGI, 16 MAR - La Francia e' pronta a ''schierarsi al fianco'' di Israele ''se la sua sicurezza fosse minacciata'', ma ''non per aiutarlo ad attaccare altri Paesi'' e in particolare l'Iran. Lo afferma il ministro degli Esteri francese, Alain Juppe', in un'intervista a Le Monde. Sulla questione iraniana, spiega ancora Juppé, "la Francia è di una grande fermezza. Nessuna precondizione iraniana e nessun abbandono delle sanzioni fino a che le condizioni poste dalla risoluzione 1929 saranno soddisfatte".

INCONTRO TRA MINISTRI ESTERI CINA-ISRAELE

Pechino, 16 mar. - Le relazioni bilaterali hanno visto un costante sviluppo da quando, 20 anni fa, sono stati allacciati rapporti diplomatici tra i due Paesi. Cosi' si e' espresso il ministro degli Esteri cinese, Yang Jiechi, incontrando il vicepremier e ministro degli Affari Esteri israeliano Avigdor Lieberman. La Cina e' pronta a impegnarsi con Israele per promuovere un maggiore sviluppo della collaborazione bilaterale, ha aggiunto.Lieberman dal canto suo ha affermato che Israele apprezza l'amicizia con la Cina ed e' soddisfatto dei rapporti bilaterali; il Paese vuole impegnarsi con Pechino per portare la cooperazione a un nuovo livello. I due si sono poi scambiati punti di vista su questioni regionali e internazionali a cuore a entrambe le parti.http://www.agichina24.it/


Qui Milano – “Riconoscenza alle forze di polizia”

“In relazione all’arresto del cittadino marocchino effettuato dalla Digos di Brescia – si legge in un comunicato stampa appena diramato dalla Comunità ebraica di Milano a firma del suo presidente Roberto Jarach – le ultime informazioni ricevute fanno propendere per la tesi dell’azione individuale di una persona accecata dal pregiudizio e dall’odio”. A meno di improbabili sviluppi diversi, si legge ancora nel testo, l’episodio sembra quindi essersi chiuso con il fermo di ieri mattina. Fermo che raccoglie il plauso convinto del leader degli ebrei milanesi: “A nome della Comunità ebraica di Milano – afferma Jarach – desidero esprimere la riconoscenza alle forze di polizia che sono riuscite ad identificare questa persona grazie ad un’attenta e costante opera di monitoraggio del mondo telematico: essi, con tutte le altre forze preposte all’ordine pubblico e al presidio del territorio, hanno dimostrato grande organizzazione e alta professionalità che danno a noi e a tutti i cittadini italiani la garanzia di una adeguata protezione”. “L’episodio – conclude – resta indice di una situazione sempre a rischio che richiede attenzione a tutti i segnali indicatori di potenziali minacce, con la necessità di tenere una guardia sempre alta. Ciascuno nel proprio ambito dovrà monitorare la situazione e siamo certi di poter continuare ad avere dalle autorità pubbliche e dalle forze dell’ordine tutta la protezione necessaria”.‘Mi chiedo – si era domandato nelle scorse ore il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici – se qualcosa ancora non funziona nel nostro paese sul meccanismo di integrazione ai valori condivisi, o, peggio ancora, ed è questo il mio sospetto, se ci sia una nostra impossibilità ad avere spazi di integrazione lì dove la predica del fanatismo integralista prevale sulla convivenza”. ”E’ importante – aveva poi aggiunto – riflettere sul profilo, ancora sommario, di questo ragazzo che, cresciuto in Italia, è riuscito a covare un sentimento di odio e progettare una situazione così estrema. Questo significa che qualcosa non va come dovrebbe andare”.http://moked.it/blog/


Le storie nostre per capire la nostra storia

Ogni tradizione, ogni cultura ha i suoi racconti a cui affidare il complicato compito di educare o dare risposte alle nuove generazioni. E lo scorrere del tempo sembra in molti casi non intaccarne l’attualità. Cambiano gli sguardi e le interpretazioni ma le storie sono le stesse. Purtroppo alcune si perdono e finiscono in una soffitta polverosa in attesa di essere riscoperte. E così quando qualcuno le rispolvera, tutti abbiamo la possibilità di recuperare un pezzo delle nostre tradizioni, della nostra cultura. Almeno così è stato per il nuovo libro di Shoham Smith, Haggadoth Shelanu (Le nostre storie – Edizioni Kinnneret ), che porta l’eloquente sottotitolo di “un universo di leggende ebraiche per bambini”. La critica in Israele ha applaudito l’idea della Smith di riproporre, in una versione più accessibile, i racconti tradizionali e talmudici per bambini. Un omaggio al Sefer Haaggadah dei celebri autori Bialik e Y.H. Rawnitzky ma soprattutto un ponte letterario con una tradizione poco conosciuta dalle giovani generazioni. E così alcuni midrashim della tradizione rabbinica ritornano, riadattate in ebraico moderno, per essere lette e raccontate ai più piccoli e non solo. Troviamo la storia del Re Salomone e della Regina di Saba, di Honi Ha- Ma’agel come di Rabbi Akiva e Rachel, accompagnate dalle eleganti e colorate illustrazioni di Vali Mintzi. Una selezione accompagnata a margine dalle annotazioni della Smith,per una struttura che ricorda la Ghemarah, il commentario del Talmud. Note che riflettono il pensiero e l’interpretazione in chiave moderna quanto personale delle leggende della tradizione: femminismo, pensiero laico e altre tematiche emergono dalle riflessioni dell’autrice israeliana. Un esempio? La storia di Rabbi Akiva e Rachel. “Dal punto di vista del mondo femminista – spiega ad Haaretz la scrittrice – è un racconto che pone diverse problematiche”. Rachel è la bella e giovane figlia di Kalba Savua. Rimasta impressionata dalla personalità del quarantenne Akiva, la donna decide di “sacrificare se stessa – spiega la Smith – per permettergli di frequentare una scuola di Torah mentre lei lo attende a lungo, sola e in povertà”. Quando rabbi Akiva, divenuto oramai un’autorità, torna da Rachel, la primavera della giovinezza è ormai passata e il tempo segna profondo il volto della donna. “Un’altra donna allora probabilmente al suo posto avrebbe rinunciato a questa logorante attesa, avrebbe pianto un po’, ingoiato l’amara pillola e aspettato che il padre le scegliesse un nuovo marito. Ma Rachel non era una donna ordinaria”. L’interpretazione data dalla scrittrice si sofferma ed enfatizza la scelta di Rachel di scegliere l’amore in favore delle comodità della casa paterna, di percorrere la via più impervia e attendere nella solitudine l’amato. “Tutto questo non è scritto esplicitamente nel testo, è una mia lettura personale della vicenda”, ammette la Smith che, rispondendo al giornalista Tamir Rotem, spiega di non aver cambiato nessun fatto. “Ma piuttosto che sperare che il lettore faccia una sua interpretazione, ho inserito i commenti. In ogni caso c’è spazio per considerazioni autonome. Un riadattamento è anche un commento e io l’ho sentita come un’opportunità per aggiungere il mio pensiero e il mio punto di vista, ad esempio sulla differenza del ruolo maschile e femminile”. Cresciuta a pane e classici (con una particolare attenzione a Gerrald Durrell, tra gli autori preferiti della madre), Shoham si immerge nella lettura per l’infanzia, scrivendo diversi libri tra cui un’antologia dei miti dell’antica Grecia. In casa, i suoi tre figli sono cresciuti senza televisione, ascoltando con avidità i racconti di Huckleberry Finn e le avventure di altri celebri personaggi del mondo letterario. È soprattutto Bialik a ricoprire un posto d’onore nelle letture serali: l’ultima fatica della Smith si presenta proprio come un omaggio al poeta e scrittore ucraino. “Ho preso lui e Rawniztky come esempi da seguire e sono tornata alle fonti – spiega, ricordando poi come è nata la prima bozza di idea per la nascita di Haggadoth Shelanu – Quando i miei bambini erano piccoli cercavo di raccontare loro le storie di Re Salomone tratte dal libro Va'yehi Hayom ma in ogni frase c’erano parole complicate e una sintassi difficile da comprendere. Così, un po’ per gioco, dissi a mio marito che il libro doveva essere tradotto in ebraico ma lui non condivise questa mia idea. Per un po’ non ci pensai, senza però abbandonare il progetto. Dall’incontro con Yael Molchadsky della casa editrice Kinneret, a cui la mia proposta piacque, siamo arrivati fino alla pubblicazione”. Laica e con un background ben diverso dalle leggende della tradizione talmudica, Smith si è interessata progressivamente a questo mondo. Un fascino che non ha fatto che crescere quando è entrata in contatto con la Alma College, istituto di cultura ebraica di Tel Aviv che organizza gruppi di studio sul Talmud. E da qui la scelta di tornare alle fonti, dandone però una chiave di lettura nuova. La giuria della Acum (Associazione israeliana per i diritti musicali e letterari) nel premiare la Smith nella sezione della letteratura per l’infanzia, ha sottolineato come l’autrice abbia avuto il merito di riadattare una parte del prezioso tesoro delle leggende talmudiche in una versione “aggiornata, semplice e affascinante”. A coloro che chiedono per quale motivo non abbia inserito questo o quel racconto, la Smith risponde senza tanti convenevoli. “Ci sono alcune storie che non mi piacciono o che credo non siano adatte ai più piccoli. Così non le ho inserite. Ed è questo il bello, o meglio il privilegio, di avere la possibilità di scegliere: poter lasciare qualcosa fuori”.Daniel Reichel, Pagine Ebraiche, marzo 2012

I medici Ebrei

L’emigrazione dall’Europa Centrale verso gli Stati Uniti: I medici e la loro lotta per il riconoscimento del proprio ruolo.

Nella valutazione complessiva dell’esodo degli Ebrei dall’Europa Centrale verso gli Stati Uniti, esaminare quanto avvenne a coloro che esercitavano la professione medica, può fornire valide indicazioni sulle difficoltà patite da quanti lottarono per il riconoscimento delle proprie competenze professionali.Negli anni compresi tra il ’33 ed il ‘’41, giunsero negli USA circa 240.000 Ebrei.Di questi, solo una minoranza trovò rapido impiego o immediato riconoscimento delle proprie capacità come ad esempio per l’importante comunità di scienziati composta da fisici, chimici, matematici.(vedi Scienziati Ebrei in fuga dal nazismo) Per la grande maggioranza dei rifugiati, l’inserimento e l’inizio di una nuova vita, venne segnato da difficoltà severe e spesse volte da umiliazioni determinate sia da situazioni economiche contingenti (erano gli anni immediatamente successivi alla grande crisi del ’29), sia da sentimenti di più o meno dichiarata ostilità verso gli Ebrei.Tra quanti arrivarono fuggendo dall’Europa nazista, il gruppo che meglio riuscì a difendere la professionalità e lo Status raggiunto, fu quello dei medici.Infatti circa il 60% di quanti avevano il titolo di medico (per l’esattezza 3097) riuscì a vedere riconosciuto il proprio ruolo ottenendo una nuova licenza che li autorizzava ad esercitare la professionein 15 diversi stati della confederazione. La carriera medica rappresentava per quanti appartenevano alla comunità ebraica centro europea una delle professionalità più ambite. Questo era dovuto a diversi fattori che vanno dalla loro appartenenza ad un ceto medio borghese, alla consuetudine agli studi, agli ostacoli sociali che precludevano altre possibili carriere.Nel Gennaio 1933, considerando l’intera popolazione Ebrea presente in Germania, si poteva osservare che benché questi fossero pari a solo un 1% di tutti i tedeschi offrivano circa il 16% del totale di 51007 medici presenti nel territorio. Analogamente in Austria, una comunità di 186.000 Ebrei, principalmente concentrati a Vienna, accoglieva circa 2000 medici.Il numero complessivo di medici di origine ebraica presenti in Europa era pari a quasi 15000 professionisti, di cui più della metà vivevano nell’Europa centrale. Nello stesso periodo negli Stati Uniti veniva prodotto un notevole sforzo inteso ad adottare i metodi di insegnamento e formazione in campo medico da tempo consolidati in Europa. Questo, tra le altre cose,significava consolidare un sistema di educazione assai oneroso per i futuri medici in cui era previsto il proseguimento degli studi per altri 10 anni dopo aver terminato la“High School”. Ben presto il controllo dell’ammissione alle scuole mediche di specializzazione divenne uno strumento di potere sociale che venne assunto dai“white Anglo–Saxon Protestants”, indicati più brevemente come WASPs, che esercitarono una rigida azione di contenimento contro Ebrei, Italiani e Negri. Questa condizione di contrasto venne rafforzata dall’arrivo dei primi medici esuli a partire dal 1930. Per sfuggire a questa situazione di discriminazione, numerosi Ebrei ed Italiani nati negli USA, vennero in Europa per completare gli studi. Negli anni a cavallo tra il ’30 ed il ’36 si ebbero così più di 9000 cittadini americani che cercarono di completare le propria formazione in Inghilterra, Scozia, Germania e Italia. La risposta immediata del sistema medico americano si concretizzò in una progressiva azione di svalutazione delle credenziali dei medici di formazione estera.Da una valutazione, che a partire dagli anni venti aveva considerato i medici tedeschi ed austriaci come professionisti di assoluto riferimento, si giunse così ad una condizione estrema in cui le lauree conseguite in Europa vennero ritenute di secondo livello.Il risultato finale di questo processo di screditamento fu che nel 1940 solo 15 Stati Americani continuarono a considerare adeguate le credenziali dei medici con laurea estera al fine di sostenere un esame di abilitazione. La valutazione sulla conformità delle domande di ammissione per il riconoscimento della licenza che consentiva la professione medica venne affidata a 48 comitati soprannazionali (Licensing Board), costituiti generalmente da burocrati e funzionari in “buoni rapporti” con i singoli governatori. Per ostacolare l’inserimento dei medici rifugiati, molti comitati presero a richiedere la cittadinanza americana, ottenibile solo dopo 5 anni dall’arrivo degli immigrati,quale requisito essenziale per il riconoscimento della nuova licenza. Fortunatamente la situazione politica variava da stato a stato e così aumentavano le possibilità di inserimento dei rifugiati. Inoltre il numero di medici esuli dalla Germania rimase modesto fino 25 Giugno 1938, quando le leggi razziali revocarono loro il diritto di professare il proprio lavoro. La maggioranza degli immigrati trovò rifugio in 4 stati: California, Illinois, Ohio e New York. In questi stai non venne mai richiesta la cittadinanza americana come condizione per lo svolgimento della professione medica ed inoltre la presenza di comunità ebraiche locali e talvolta di funzionari“illuminati”, rese il loro inserimento relativamente più semplice. In alcuni casi, come per esempio in California ed in Texas, fu paradossalmente un atteggiamento razzista che favorì l’inserimento di questi professionisti. Infatti in questi sati vivevano comunità di profughi orientali e messicani che non venivano presi in cura dai medici “regolari” e quindi le autorità locali furono liete di destinare a questa funzione i medici di formazione europea.Lo stato che raccolse il maggior numero di rifugiati, circa i 2/3, fu lo stato di New York.New York City e specialmente Manhattan hanno rappresentato da sempre la patria di tutte le minoranze etniche che non volevano o non potevano trovare rapida assimilazione nel resto della nazione. Per questi immigrati, poter contare su medici in grado di capire e parlare la loro lingua fu una notevole risorsa che venne gelosamente custodita. In questa città non venne mai dato credito alla opinione che riteneva i medici formatesi in Europa negli anni precedenti la II Guerra Mondiale, dotati di minori capacità e conoscenze. Notevole inoltre fu l’appoggio assicurato dalle autorità competenti per favorire un inserimento dei medici stranieri meno problematico.A tale proposito basti ricordare che in questo stato, a differenza di quanto avvenne altrove, non venne mai richiesto come requisito per l’esame di ammissione alla professione medica, un anno di tirocinio in unità mediche americane. Questa pratica, che consisteva in un anno di lavoro senza alcuna retribuzione, per coloro che dovettero sostenerla, fu una prova economicamente e moralmente durissima. Fu possibile sostenerla infatti, solo grazie all’aiuto di mogli coraggiose e pazienti che mantennero la famiglia svolgendo lavori umili e pesanti e ricorrendo allo svolgimento di secondi lavori come lavapiatti o garzoni nelle tavole calde nelle ore libere dallo studio. Se questa difficoltà aggiuntiva era risparmiata a chi tentava “fortuna” a New York City, rimaneva da superare l’ostacolo rappresentato da un esame che doveva certificare una adeguata conoscenza dell’inglese scritto e orale e le competenze mediche acquisite, esposte sempre in lingua inglese,mediante una prova che durava complessivamente 4 giorni.Quindi il conseguimento della licenza di abilitazione fu testimonianza del coraggio e della perseveranza di tutti rifugiati. Questa considerazione è tanto più vera se tiene conto che la maggioranza di loro non era più giovanissima ma con età media intorno ai 40 anni. I due medici più anziani, entrambi Viennesi, che sostennero l’esame di abilitazione, superarono l’esame quando già ottantenni!Come bilancio finale di questa migrazione per molti versi avventurosa ed eroica, possiamo riconoscere che in definitiva gli Stati che diedero asilo ai medici rifugiati ottennero probabilmente molto di più di quanto non concessero. Questi medici rappresentarono infatti un grande esempio di moralità e serietà professionale con un incredibile attaccamento alla pratica medica. La cessazione della attività per molti di loro fu determinata solo dalla morte o dalla incapacità fisica sopraggiunta con l’età avanzata.Il coraggio di questi uomini, la loro tenacia, l’aiuto disinteressato offerto da alcuni funzionari, che pur appartenendo al sistema di potere, cercarono di difendere chi si trovava in condizioni così precarie e difficili, riuscì a vincere il più delle volte l’ostilità del sistema medico americano.Un sistema che mantenendo un atteggiamento di egoistica chiusura tentò vanamente di ostacolare la scienza e la solidarietà umana.

Un ringraziamento alla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea; C.D.E.C. di Milano per la cortese disponibilità a fornire materiale di ricerca. Il testo di riferimento è “Relicensing Central European Refugee Physicians in the United States, 1933-1945″ di Eric D. Kohler, in “SimonWiesenthal Center Annual”, vol.3, anno 1986 Ulteriori informazioni sono tratte da: Storia degli Ebrei Italiani sotto il Fascismo, Renzo De Felice, Editore Einaudi

http://guide.supereva.it




Negli anni Trenta, in Polonia, capitava che gli unici medici disponibili a lavorare gratuitamente per gli ospedali delle cooperative rurali fossero medici ebrei. I contadini però non sempre volevano lasciarsi curare da ebrei, e gli ospedali erano costretti a chiudere. Ergo, deduceva la stampa nazionalista, gli ospedali chiudevano per colpa degli ebrei.Laura Quercioli Mincer, slavista, http://www.moked.it/

venerdì 16 marzo 2012


Egitto: si scrive democrazia, si legge guerra

La notizia è di quelle che gelano il sangue nelle vene, persino a me che pure sono sempre stato pessimista sul futuro della “primavera araba”, eppure quasi non se ne trova traccia sui giornali, concentrati su articolo 18 e Tav. La camera dei deputati egiziana, ora eletta democraticamente, ha approvato all’unanimità una mozione che chiede l’espulsione dell’ambasciatore israeliano e il ritiro di quello egiziano da Israele, oltre alla rottura delle relazioni commerciali con lo Stato ebraico, che d’ora in poi dovrà essere considerato “primo nemico”. “Dopo la rivoluzione - è scritto nel testo - l'Egitto non sarà mai più amico dell'entità sionista, primo nemico dell'Egitto e della nazione araba”. Si chiede quindi la revisione “di tutti i rapporti e gli accordi” con quel nemico, comprese le forniture di gas (13 finora gli attentati al gasdotto che porta a Israele e Giordania, che hanno causato alle casse egiziane la perdita di un miliardo di dollari). Come se non bastasse, si chiede persino “il boicottaggio di tutti i Paesi arabi contro Israele e le società internazionali” che trattano con quel paese. Queste parole, nell’immediato prive di conseguenze, in prospettiva si condensano in una sola: guerra. Fra Egitto e Israele l’ultimo conflitto risale a quasi 40 anni fa (1973, guerra del Kippur). Poi c’era stato il trattato di pace del 1978, la restituzione del Sinai fino all’ultimo granello di sabbia, lo spettacolare assassinio – nel corso di una parata militare - del presidente egiziano Sadat a opera di una cellula terrorista manovrata dalla Fratellanza musulmana. Lo stesso Sadat aveva pagato con la vita la decisione di pregare in sinagoga accanto al premier israeliano Begin, per questo gesto entrambi insigniti del premio Nobel. Ma la pace, bene o male, aveva retto. Una pace fredda, anche ostile, che però non aveva impedito una certa collaborazione fra i due paesi, con reciproco vantaggio. Da allora non c’erano più stati conflitti generali, anche il confine siriano sul Golan occupato in qualche modo aveva tenuto (“Non c’è guerra senza l’Egitto, non c’è pace senza la Siria”). Ora questo trattato di pace deve essere annullato, chiede il Parlamento egiziano. Il voto per ora è privo di conseguenze, dicevo, ma solo perché attualmente il governo militare provvisorio non risponde al Parlamento del suo operato. Quando il processo elettorale e costituzionale sarà terminato, è facile immaginare il film: il Presidente eletto sarà espressione della maggioranza integralista (Fratellanza musulmana più estremisti salafiti) o comunque ne risulterà necessariamente condizionato; i vertici militari saranno gradualmente sostituiti con elementi islamisti, come è avvenuto in Turchia; attentati e incidenti di frontiera, nel Sinai o a Gaza, saranno un gioco da ragazzi (infatti sono già iniziati); infine verrà la guerra. Resterà, chissà per quanto, solo la pace con la Giordania. Dunque la convinzione – in realtà storicamente del tutto infondata – secondo cui sono le dittature a provocare la guerra, mentre le democrazie mantengono la pace perché espressione dei popoli, si sta rivelando una pia illusione. Ora gli Odiatori di Israele hanno motivo di esultare: finalmente questa vergognosa stagione di pace fra un paese arabo e il nemico sionista sta per concludersi. Gli altri, quelli che troppo presto avevano salutato l’avvento di una nuova stagione di libertà e democrazia, si facciano un esame di coscienza.http://restiamoliberali.blogspot.com/

Un altro antisemita musulmano: l’Europa si svegli


Il Giornale, 16 marzo 2012, Fiamma Nirenstein
Il ragazzo marocchino di 20 anni che voleva ammazzare centinaia di ebrei milanesi della sinagoga di via Guastalla a Milano non era ispirato dalla politica d’Israele, di conseguenza con risvolti antisemiti. No, J. M. era antisemita, voleva colpire gli ebrei in sinagoga.Episodi del genere sono già successi tante volte, cerchiamo di trarne qualche senso logico. J. M. è antisemita come tanti musulmani in Europa, nei Paesi Arabi, in Iran, in Oriente, persone che negano la Shoah, che vogliono distruggere Israele, che pensano che uccidere gli ebrei sia un dovere. È una realtà documentata da volumi, da numerosissime riedizioni dei Protocolli dei Savi di Sion, da serial televisivi di largo ascolto in Europa in cui gli ebrei strappano gli occhi ai bambini arabi, o raccolgono i soldi per fondare Israele nei bordelli. A questo violento antisemitismo vi sono in part! e motivi teologici: la copertura coranica che proviene dalle moschee è potentissima. Il padre della Fratellanza Musulmana Sayyd Qutb chiamava un suo saggio basilare: «La nostra guerra contro gli ebrei». Oggi, tutte le diramazioni della Fratellanza presenti in Europa, sempre in aumento, promettono guerra agli ebrei, non agli israeliani. Anche il musulmano laico è sottoposto a questo bombardamento ideologico: gli ebrei sono riprodotti nelle frequenti vignette, nella tv, nei libri di testo, e negli scritti di origine araba o islamica in genere (iraniana ma anche per esempio dalla Malesia o dal Pakistan..) che poi ritroviamo nella case europee. Sono demoni e assassini, che, come dice il grande studioso dell’antisemitismo Robert Wistrich, devono essere temuti, evitati. Sono visti sempre, e così si insegnava probabilmente anche a questo ragazzo terrorista che viveva in Italia dall’età di sei anni, come cospiratori che pianificano la distruzione della società musulmana e d! egli arabi in particolare per dominare il mondo. In genere, agli ebrei sono attribuite le responsabilità della corruzione della cultura occidentale, l’amore per il denaro, la corruzione dei costumi sessuali. Essi vengono identificati col potere americano. E lo scopo è quello di disumanizzarli, fino a renderli oggetto di distruzione. Così fa Ahmadinejad con Israele, con una potentissima macchina di propaganda.

Quando nel 2003 l’Unione Europea affidò un rapporto all’Eumc (Centro di monitoraggio europeo contro il razzismo e la xenofobia), e si vide che la crescita verticale dell’antisemitismo europeo era legato a ambienti musulmani (senza sottovalutare la destra e la sinistra estreme), Xavier Solana lo fece sparire, sostenendo che la ricerca non rispondeva agli standard richiesti. In realtà era solo terribilmente imbarazzante, così come lo è tutta la storia del rapporto fra mondo musulmano e antisemitismo: spesso si è nascosto sotto l’apparente quiete che! per alcuni secoli, fra cacciate, stragi, persecuzioni varie, fu dovuta a uno condizione di inferiorità statuita (quella di dhimmi) che gli ebrei erano costretti a sopportare. Più avanti, nessuno ha mai avuto voglia di scavare nella furiosa commistione del mufti di Gerusalemme Haj Amin Al Husseini con Hitler, cui il mufti chiese di consentirgli, in caso di vittoria, di attuare su suolo asiatico gli stessi metodi europei.L’antisemitismo musulmano è un fenomeno enorme, che l’Europa autrice della Shoah non può permettersi. L’unica obiezione odierna è quella da ignoranti per cui si chiede come possa un semita (l’arabo) essere antisemita: ma l’aggettivo «semita» si riferisce solo alla radice linguistica comune, non a un’inesistente razza. I casi di persecuzioni e aggressioni antisemite crescono appena succede qualcosa in Israele: allora si attaccano per strada gli ebrei con la kippà o nella metropolitana ragazze con la stella di David al collo (specie a ! Parigi o a Londra). Ma un apice resta la vicenda di Ilan Halimi, rapito a Parigi nel gennaio del 2006 da un gruppo di giovani teppisti musulmani con motivazioni antisemite e anche di estorsione (per loro il ragazzo, un commesso figlio di modesta famiglia, poiché ebreo era un capitalista) fu torturato quattro settimane mentre gli leggevano pagine del Corano, e poi gettato in una discarica coperto di ferite mortali. Uno dei suoi assassini, dal carcere, tale Fofana, ha postato su internet l’8 marzo foto antisemite. Ma allora la polizia francese non trovò Halimi, perché non credeva alla pista antisemita. Lo sentiremo dire anche di questo ultimo episodio italiano: non è antisemitismo, è un delinquente isolato, una minoranza insignificante.


Un fragilissimo cessate il fuoco

Editoriale del Jerusalem Post,http://www.israele.net/
Dopo quattro giorni di conflitto, l'ultimo round di scontri con le organizzazioni terroristiche nella striscia di Gaza sembra volgere al termine. In effetti le principali parti coinvolte avevano un preciso interesse ad evitare l’escalation.Gli obiettivi di Israele, in questa fiammata di violenze, erano limitati al contenimento delle ricadute conseguenti all’eliminazione mirata di Zuhair al-Qaissi, capo terrorista dei Comitati di Resistenza Popolare nella striscia di Gaza. Qaissi era considerato una “bomba a orologeria” che stava preparando un attentato dalla penisola del Sinai in preda all’anarchia, analogo a quello architettato lo scorso agosto.L’obiettivo dei Comitati di Resistenza Popolare, della Jihad Islamica palestinese e di altri gruppi terroristi “muqawama” (irriducibili), pesantemente finanziati e sostenuti dall’Iran, era e rimane quello di sequestrare e/o ammazzare degli israeliani e trascinare Israele in un conflitto diretto con l’Egitto post-Mubarak. Esattamente l’obiettivo che Israele ha voluto sventare uccidendo Qaissi.Ma Israele non era interessato a una vera escalation, che avrebbe potuto causare numerose vittime civili non intenzionali, soprattutto considerando la strategia palestinese di sparare i razzi dai centri densamente abitati e di usare i civili come scudi umani. E benché le batterie anti-missili del sistema Cupola i ferro schierate ad Ashdod, Ashkelon e Beersheba abbiano garantito una significativa protezione a decine di migliaia di israeliani che vivono nel raggio della gittata dei razzi sparati da Gaza, prolungare il conflitto significava aumentare il rischio di subire vittime civili israeliane.Anche Hamas, che controlla la maggior parte della striscia di Gaza, non era interessata a un’escalation, quantunque la cosa più avanti possa anche cambiare. La storica organizzazione fondamentalista palestinese è in via di mutamento, mentre cerca di smarcarsi dalla sua vecchia alleanza con Iran e Siria e di allinearsi con gli stati sunniti, soprattutto con l’Egitto dove la Fratellanza Musulmana, organizzazione madre di Hamas, sta salendo al potere. Hamas ha un chiaro interesse a mostrare all’Egitto e ad altri stati “moderati” sunniti d’essere capace di mantenere la stabilità a Gaza. Tanto più che l’Egitto, che sta attraversando un tremendo sconvolgimento politico da quando Hosni Mubarak è stato estromesso, ha i suoi problemi – soprattutto le tensioni fra giunta militare e islamisti – e non ha voglia di veder scoppiare una guerra ai suoi confini nord-orientali. Ed infatti l’Egitto ha giocato un ruolo chiave nel favorire il cessate il fuoco. Il capo dell’intelligence Murad Muafi e altre figure delle forze armate egiziane hanno fornito l’indispensabile collegamento fra Israele e i gruppi terroristi di Gaza. Amos Gilad, direttore degli affari politico-militari presso il ministero della difesa israeliano, ha dichiarato martedì a radio Galei Tzahal che non c’è stato nessun accordo formale con Hamas o altre organizzazioni terroristiche che operano nella striscia di Gaza, dal momento che Israele “non si accorda con gli assassini”. Piuttosto, ha spiegato Gilad, Israele attraverso gli egiziani ha fatto arrivare il messaggio “calma in cambio di calma”, pur riservandosi il diritto di condurre eliminazioni mirate quando si rende necessario per prevenire attentati.Ma il cessate il fuoco è molto fragile. Martedì stesso (e poi ancora mercoledì e giovedì) diversi ordigni sono stati sparati dalla striscia di Gaza sul sud di Israele, mentre i Comitati di Resistenza Popolare e la Jihad Islamica, che hanno dimostrato di disporre di moltissimi razzi, continueranno a pianificare attacchi contro “l’entità sionista”.Ancora più inquietante è la possibilità assai concreta che l’interesse politico di Hamas ed Egitto per il mantenimento della calma a Gaza possa mutare. Il crescente estremismo nell’Egitto dell’era post-Mubarak è apparso evidente domenica quando il parlamento, ora praticamente controllato dalla Fratellanza Musulmana, ha avviato procedure di voto volte a bloccare la ricezione del miliardo di dollari e più in aiuti che gli Stati Uniti forniscono ogni anno al Cairo. I parlamentari islamisti sono evidentemente molto turbati dal caso giudiziario che coinvolge alcune ONG americane che si battono per i diritti umani in Egitto. Lunedì, poi, il parlamento egiziano ha votato a favore dell’espulsione dell’ambasciatore d’Israele e per il blocco delle esportazioni di gas verso Israele. Una votazione fatta per alzata di mano su una dichiarazione della Commissione per gli Affari Arabi in cui si affermava che l’Egitto non sarà mai amico, partner o alleato di Israele. Limitare gli aiuti americani è considerato un modo per ridurre l’influenza che gli Stati Uniti possono esercitare sulla politica egiziana. Il che potrebbe dare mano libera all’Egitto, nei prossimi anni, per abrogare gli Accordi di pace di Camp David e adottare una posizione più ostile a Israele.Purtroppo, nei primi giorni di fragile cessate il fuoco, mentre più di un milione di israeliani nel sud del paese cerca di tornare a una vita normale, già si profilano all’orizzonte i segnali della prossima tornata di scontri.(Da: Jerusalem Post, 13.3.12)


Da venerdì scorso sulle città d'Israele sta piovendo fuoco. Lo avete letto su qualcuno dei nostri quotidiani?

Da venerdì scorso su Israele si è scatenata una grandine di missili Katiuscia - i nipotini di quelli della seconda guerra mondiale - a lato una base di lancio mobile, by Wikipedia.300 erano i missili sparati da venerdì a mercoledì, poi alcune città del sud di Israele hanno decretato un coprifuoco per garantire l'incolumità dei lori cittadini e l'esercito si è messo a bombardare a sua volta le postazioni di lancio.Moltissimi dei razzi sono stati intercettati da un sistema antimissile denominato Iron Dome che abbatte il missile in volo. Però poi ci sono bollettini di guerra impressionanti: 20 morti nella striscia di Gaza, di cui 4 semplici passanti, 30 postazioni smantellate, ecc. Per fortuna in Israele i missili cadono a casaccio, in parcheggi, nei campi, in scuole desertate per precauzione.Si può seguire quanto sta accadendo in Israele (in inglese) sul quotidiano israeliano Haaretz.Avete infatti letto qualcosa a questo riguardo sui quotidiani del nostro sonnolento Occidente? [NdR]

Missili da Gaza colpiscono convoglio di aiuti umanitari provenienti da Israele
Fonti dell’IDF hanno ricordato che nella giornata di ieri 4862 tonnellate di beni e carburanti (comprese 192 tonnellate di frutta) sono transitati da Israele verso Gaza, nonostante il lancio di razzi da parte dei terroristi verso le città israeliane non si sia mai arrestato.
Nella foto a lato: i camion di aiuti umanitari al valico di Kerem Shalom

http://centroculturalelugano.blogspot.com/


"Laboratorio Israele": una nazione 'start-up'

Com'è possibile che uno stato minuscolo, letteralmente isolato e osteggiato dai paesi circostanti, sia diventato negli ultimi venti anni una centrale dell'hi-tech e il paese dove nascono più start-up e dove maggiori sono gli investimenti in ambito scientifico e tecnologico? A questa domanda cercano di rispondere Dan Senor e Saul Singer nel loro Laboratorio Israele. Storia delmiracolo economico israeliano.In effetti c'è da restare sbalorditi nel leggere le vicende e le testimonianze raccolte dai due giornalisti, che hanno intervistato i vari protagonisti di questo miracolo economico, fatto di un'enorme capacità di innovare e, soprattutto, di volgere a proprio favore circostanze inizialmente svantaggiose, facendo anche i conti con risorse naturali limitate e con un mercato regionale praticamente inesistente. Numerosi sono i casi presentati da Senor e Singer: s'incomincia subito con Better Place, la start-up di Shai Agassi, che propone un metodo per diffondere sempre più le automobili elettriche aggirando il problema dei costi delle batterie. In questo caso, il fatto che Israele è una sorta di piccola isola da cui gli automobilisti non possono uscire lo rende un luogo ideale per sperimentare il cablaggio del paese e una rete di punti di ricarica: il sistema perfetto per trasformare in vantaggio un oggettivo handicap.Ma questo è solo uno dei casi più recenti: l'inventività di Israele si è manifestata sin dagli inizi, quando dal nulla è stata creata l'industria aeronautica israeliana - per una precisa volontà politica, stavolta -, dapprima dedita alla riparazione di vecchi aerei malmessi e, successivamente, alla fabbricazione di nuovi aerei. E anche qui lo stimolo è derivato da una limitazione esterna: De Gaulle che nel 1967, alla vigilia della Guerra dei Sei Giorni, sottrasse il proprio appoggio a Israele, dopo che per anni l'aveva rifornito di armi. Così come la tecnica di irrigazione a goccia, messa a punto dalla Netafim, la società fondata da Simcha Blass nel 1965, che ha permesso di coltivare, con un minimo dispendio di acqua, anche nel deserto del Negev (e Israele è uno dei pochi posti della terra dove il deserto retrocede invece di avanzare).Ci sono poi esempi in cui Israele è riuscito a convincere società estere a investire lì e a trasferirvi il settore della ricerca e dello sviluppo. Il più noto è quello di Intel, che nel 1974 vi aprì il centro di progettazione di Haifa. Nel 1980 il team Intel di Haifa creò il chip 8088, adottato da IBM per la costruzione del primo personal computer. Da allora la Intel israeliana non ha fatto che progredire in questo campo: dal 386 - la cui fornitura è stata garantita con puntualità anche durante la prima Guerra del Golfo - al Pentium fino al Centrino, un chip di nuova generazione che ha saputo frenare il declino della società e riconquistare una posizione predominante sul mercato. Per non parlare poi di tutte le innovazioni che dall'ambito militare si sono riversate nell'ambito civile: basti citare le ricerche di Gavriel Iddan che, partendo dai dispositivi elettro-ottici che guidano i missili verso l'obiettivo, ha creato la Given Imaging, società che produce la pillcam, una pillola con videocamera incorporata da ingerire, che trasmette immagini dall'interno del corpo umano, sostituendo così esami più invasivi.Senor e Singer non si limitano però a raccontare questi episodi di successo, ma cercano di mettere in luce i fattori positivi della cultura e della società israeliana che li hanno resi possibili. Innanzitutto - scrivono - quella israeliana è una società in cui le gerarchie contano poco e in cui "la corrispondente inclinazione al contraddittorio è profondamente impressa non solo nella religione ebraica, ma anche nel carattere nazionale di Israele". Questo amore per la discussione continua si ritrova in tutti gli ambiti sociali, esercito incluso, dove viene attribuita grande importanza alla critica e all'iniziativa individuale, perché è da qui che possono nascere nuove idee o modi diversi, imprevisti, per affrontare situazioni inedite. A questo si aggiunge una propensione al rischio, favorita dal fatto che la paura per il fallimento è minima: un imprenditore che non dovesse farcela - come capita in molti casi, perché la maggioranza delle start-up non riesce ad affermarsi e a durare - non perde la faccia e non ne esce con la reputazione macchiata in maniera indelebile. E' considerato normale che uno possa fallire e, quindi, ritentare. Ma intanto la somma delle innovazioni aumenta. Altrettanto fondamentale è poi il ruolo del servizio militare obbligatorio e del sistema della "riserva" - ogni anno gli uomini adulti vengono richiamati in servizio per un breve periodo di tempo -, grazie al quale gli israeliani stabiliscono relazioni che poi durano tutta la vita e li aiutano anche nel mondo del lavoro. "Il sistema della riserva israeliano non è solo un esempio di innovazione, ma anche un suo catalizzatore. Dove può capitare che un taxista comandi un milionario o che un ragazzo di ventitré anni guidi l'addestramento del proprio zio, la gerarchia risulta necessariamente attenuata; il sistema della riserva, quindi, contribuisce a rafforzare lo stile di vita caotico e antigerarchico che si può riscontrare in ogni aspetto della società israeliana". Non è soltanto questo, però, perché l'IDF - l'esercito israeliano - può permettersi di selezionare i soggetti migliori e, dopo una serie di test, destinarli a unità di élite - come le Talpiot - dove ricevono una formazione scientifico-tecnologica di tutto rispetto che gli tornerà utile successivamente. (Ed è anche per questo motivo che i più svantaggiati, da questo punto di vista, sono quei gruppi che dal servizio militare sono esonerati: gli haredim e gli arabi israeliani).A contribuire al boom dell'economia israeliana, avvenuto negli anni novanta, è stata poi l'immigrazione massiccia dall'ex Unione Sovietica, che ha fatto arrivare masse di individui preparati e altamente scolarizzati - soprattutto in ambito scientifico e tecnologico -, unita alla liberalizzazione promossa dal primo governo Netanyahu, che ha reso possibile lo sviluppo del capitalismo "di ventura", riservato per l'appunto al finanziamento delle startup, mentre in precedenza il sistema finanziario israeliano era molto ingessato e quasi interamente statalizzato.Interessante è poi il confronto che gli autori fanno tra Israele e paesi simili o assimilabili. Il primo confronto è con la Corea del Sud e Singapore: anch'essi, come Israele, sono in qualche modo minacciati dai paesi confinanti e quindi sono stati costretti a sviluppare un modello di esercito simile. Se il paese è troppo piccolo per creare un esercito professionale e se però è necessario un esercito efficiente, allora bisogna usare un sistema basato sulle riserve e sui richiami annuali: è quello che fanno anche Corea del Sud e Singapore. Allora perché in questi due ultimi paesi, malgrado l'enorme sviluppo economico conosciuto negli ultimi anni, non ci sono altrettante start-up e altrettanta innovazione? Dipende sostanzialmente dalla mentalità e dalla cultura, che sono più rispettose delle gerarchie e che attribuiscono un maggiore valore all'ordine e all'obbedienza rispetto alla creatività e alla critica individuali (è il contrasto tra ciò che, in ebraico, si definisce rosh katan e rosh gadol: testa piccola e testa grande). Senza contare che in Corea, per esempio, "chi fallisce non può farsi vedere in circolazione" e la perdita della faccia è una catastrofe, soprattutto dopo lo scoppio della bolla di internet nel 2000, che ha mortificato lo spirito d'impresa locale. Il secondo confronto è invece con gli Emirati Arabi Uniti e, in particolare, con uno di quelli più ricchi: Dubai. Qui ciò che manca è quel tipo di società aperta - alle critiche innanzitutto - che c'è in Israele, oltre che un atteggiamento potenzialmente ostile a offrire cittadinanza ai nuovi immigrati - negli Emirati solo il 15 per cento dei residenti è effettivamente cittadino -, il che permetterebbe a chi vi stabilisce di legare il proprio destino a quello del paese e a progettare un futuro per sé e i propri figli. Dubai "ha dato vita a grandi e prosperi hub di servizi", ma "le attività delle aziende specializzate in ricerca e sviluppo e in innovazione brillano per la loro assenza". Insomma: se qualcuno si trasferisce a Dubai solo per fare affari, se ne andrà una volta che troverà un posto più vantaggioso, soprattutto se non vede prospettive per sé in quel paese. Senza contare che, in generale, "le istutizioni culturali e sociali del mondo arabo versano in uno stato di cronico sottosviluppo", a cui non ovviano più di tanto le branche aperte in loco dalle grandi università straniere, prevalentemente anglo-americane: certamente utili, ma si capisce che diverso è il caso delle università di eccellenza israeliane - l'Università ebraica di Gerusalemme, il Technion di Haifa, l'Istituto Weizmann -, create dagli stessi israeliani, in alcuni casi ancora prima della nascita dello stato ebraico, consci dell'importanza dello sviluppo e della ricerca culturale per la sopravvivenza del loro stato.Il saggio di Senor e Singer comprende poi un appendice, scritta nel 2011, qualche anno dopo la prima edizione, in cui gli autori rispondono alle domande più frequenti che gli sono state rivolte durante le varie presentazioni del libro e in cui ne riassumono il messaggio complessivo: "Israele ha sviluppato un'insolita peculiarità: la capacità non solo di fare fronte a ogni sorta di avversità, ma anche di farvi leva, si tratti della mancanza di mercati regionali, della scarsità di risorse materiali o di un'autentica muraglia di boicottaggi e aggressioni. Nella sua essenza la storia della 'nazione-laboratorio' è l'abilità con cui il paese riesce a trasformare circostanze avverse in una fonte rinnovabile di energia creativa, convogliata in gran parte nell'hi-tech, ma chiaramente riscontrabile anche nell'imprenditorialità diffusa, nella medicina, nelle scienze e nelle arti. (...) Israele può contare su due ulteriori ingredienti fondamentali: un forte senso della missione e una cultura propensa ad accettare il rischio. (...) Israele è esso stesso una startup, un laboratorio. L'idea sionista non era meno improbabile di molti dei piani di business che gli odierni imprenditori israeliani si ingegnano a far decollare".http://cadavrexquis.typepad.com