mercoledì 30 settembre 2009

Evgenij Evtushenko
Il coraggio di un poeta che portò alla luce il massacro di Babi Yar

Nel 1941, kippur fu celebrato il 29 settembre. In molti luoghi, si era nel pieno della guerra. Kiev era sotto l’occupazione tedesca. Proprio nei dintorni, a Babi Yar, nei pressi del vecchio cimitero ebraico, gli Einsatzkommando 4, agli ordini del colonnello delle SS Paul Blobel, massacrarono a colpi di mitragliatrice con la collaborazione della polizia ucraina gli abitanti ebrei. Il massacro andò avanti fino al 3 ottobre. Si calcola che oltre 100.000 corpi caddero gli uni sugli altri nel burrone. Alcune vittime respiravano ancora e fu loro dato il colpo di grazia.Per lungo tempo il massacro di Babi Yar venne tenuto nell’oblio anche dalle autorità sovietiche, ma qualcosa comunque trapelò.Venti anni dopo, nel settembre 1961, il giovane poeta russo Evgenij Evtushenko, sconvolto dalla scoperta del tutto fortuita del massacro degli ebrei di Kiev, scrisse «Babi Yar», una poesia pubblicata sulla Literaturnaia Gazeta. Ha scritto in proposito Marek Halter: “Il Partito Comunista condannò immediatamente il poeta e il giornale. Ma era troppo tardi: i corpi delle vittime massacrate a Babi Yar già tornavano a galla e fluttuavano alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti, di tutto il mondo, sul Dniepr, il fiume che attraversa Kiev, e sotto le finestre del Cremino, sulle acque della Moscova”.La poesia di Evtuschenko contribuì ad alimentare la contestazione della storia ufficiale e il regime sovietico reagì con violenza: le opere di Evtuschenko furono messe all´indice. Ciò nonostante, la poesia «Babi Yar» di Evtushenko fu tradotta in tutte le lingue, pubblicata dalla stampa di tutto il mondo e ispirò a Dimitry Shostakovitch la sua celebre tredicesima sinfonia. E dovunque – ancora oggi – risuona il grido del poeta:«Mi sembra d´essere io un figlio di Israele...Mi sembra di essere io Dreyfus.Mi sembra di essere io un bimbo di Bialystok.Mi sembra di essere io Anna Frank».Valerio Di Porto, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, http://www.moked.it/

Riccardo Di Segni

Kippur 5770 - Nell'ora di Ne'ilà

Negli Stati Uniti in questi giorni, come da noi, le Sinagoghe si affollano. Ma a differenza da noi, che facciamo entrare tutti, da quelle parti i posti nelle Sinagoghe sono numerati e entra solo chi ha pagato il biglietto, spesso molto caro. Su questa abitudine circolano anche versioni ironiche su internet: scegli vicino a chi vuoi stare, il tuo avvocato, il tuo commercialista, il tuo medico (nelle varie specialità), il tuo consulente estetico e così via . E' inevitabile che l'incontro e la lunghezza delle cerimonie, in parte non comprese, si trasformi in un'occasione di distrazione o per pensare ai propri affari. La confusione e la distrazione altrove abbastanza controllata, da noi rischia spesso di diventare incontrollabile. Siamo arrivati alle due ore che ci separano dalla fine del Kippùr e al massimo dell'affollamento. C'è chi viene per pregare intensamente e sta qui ininterrottamente dalle prime ore del mattino, chi viene per la berakhà e la shofar e chi viene e basta perchè attratto da un richiamo lontano. E sono tutti benevenuti. I Maestri insegnano che berov 'am hadrat melekh, “la gloria del re è nella moltitudine del popolo”, cioè quante più persone sono presenti tanto maggiore è l'onore del re. Quello che vale per un “re di carne e sangue” vale anche per il nostro Re, “il Re sacro” di cui proprio in questi giorni proclamiamo il dominio sull'Universo e su di noi. Ma quando c'è la folla c'è anche la confusione. Entro certi limiti può essere persino bello, ma non bisogna esagerare. Proviamo a pensare che questi sono momenti sacri, di elevazione spirituale, l'ora della נעילת השערים “la chiusura delle porte” del cielo e del Santuario, è come se fosse l'ora in cui i giudici si chiudono in camera di consiglio per giudicarci. Rispettiamo allora con il silenzio il luogo dove stiamo e il nostro vicino che vuole seguire la Tefillà. Un nostro problema, in ogni momento della nostra esistenza è quello di resistere con dignità alle provocazioni e alle sollecitazioni che ci vengono da ogni parte. Controllare le nostre reazioni, comportarsi con dignità e dare l'esempio è un dovere per ogni essere umano e per ogni ebreo, senza distinzioni. Se non ci riusciamo è perchè la nostra natura è debole, ma questo non vuol dire che non possa migliorare. Ed è proprio questo il senso della teshuvà, da fare in questi giorni e magari proprio qui e ora. Un piccolo esercizio di autocontrollo nel silenzio, qui, sarebbe già un ottimo inizio. Che cosa significa proclamare con la folla D. Re? Non lo è già? Ha bisogno di noi? Dobbiamo renderci conto che in questa proclamazione si nascondono alcuni messaggi fondamentali e rivoluzionari che l'ebraismo ha portato al mondo. Se Lui è il Re, non ci sono altri Re oltre a Lui. Se Lui è il Re, noi siamo i suoi sudditi, i suoi servi. Se siamo i suoi servi non siamo i servi di nessun altro. Siamo liberi. Se Lui è il Re, in quanto creatore dell'Universo e dell'umanità, gli esseri umani sono creati a Sua immagine. E questo significa che ogni essere umano ha la sua dignità e che la sua vita è sacra. Libertà e sacralità significano responsabilità e moralità, rispetto della legge e del diritto, rifiuto della violenza. Se il mondo “civile” condivide buona parte di questi principi è perchè è stata la nostra fede e la nostra tradizione a insegnarli. Tutto quello che abbiamo letto nei nostri libri di tefillà in questa giornata, da Isaia a Jonà alle numerose preghiere e poesie, ribadisce queste idee essenziali. Molte idee fondamentali che guidano e elevano la civiltà sono un nostro prodotto, un nostro contributo irrinuciabile. Ma non c'è momento in cui non vengano messe in discussione e in cui o si neghi il nostro ruolo, o si scateni l'ostilità verso di noi proprio per questo ruolo. Fermiamoci a pensare ora a tutto questo, a provarne un po' di orgoglio, ma mai arroganza, a pensare a quanto sia insulso per noi rifiutare o disprezzare delle radici così nobili, a pensare a quale sia il nostro dovere di comportarci con coerenza morale, in pubblico e privato, tanto più quando le strutture sociali cambiano tumultuosamente e rischiamo esser solo dei soggetti passivi che accettano dei modelli esterni. Se tutto questo è vero, come lo è, non possiamo nascorderci una grande difficoltà: il fatto che l'ebraismo sia esigente. Per realizzare gli obblighi della nostra religione ci vuole una continua attenzione, tutta la vita è controllata, c'è una lunga e complicata serie di regole da rispettare. Non sarebbe meglio, più comodo e più semplice se ci fossero meno regole? Nel suo messaggio per il Kippur di quest'anno rav Jonathan Sachs spiega perchè no. Pensate alle feste maggiori di Pesach, Sukkot e Shavuot. Sicuramente la gente osserva molto più Pesach di Sukkot e Sukkot più di Shavuot. Pensate a quello che succede in queste feste. A Pesach c'è un carico non indifferente di obblighi da rispettare, dalla pulizia della casa al seder al cibo; a Sukkot c'è la Sukkà e il lulav; a Shavuot non c'è praticamente niente. Eppure quale di queste feste è la più celebrata e “frequentata”? Proprio Pesach, la festa che la più esigente, che ha più regole da rispettare. E questa sera siamo qui e altrove raccolti in moltitudini mai viste, come mai in altri momenti dell'anno, e siamo già alla 23a ora di digiuno assoluto e preghiera continua. Se non ci fosse tanto rigore, anche se probabilmente non tutti lo rispettano, qua non ci sarebbe tanta gente. La conclusione su cui bisogna pensare è che le cose che valgono di più sono quelle che esigono di più; è vero per lo studio, per il lavoro, per lo sport come è vero per le cose spirituali. Se l'ebraismo fosse stato più semplice, sarebbe già scomparso. E' difficile, è esigente, ma se non fosse stato così non avrebbe trasformato il mondo. Il nostro Re esige da noi grandi cose. Ma è questo che ci rende grandi.Così come siamo entrati in questo edificio richiamati dal sacro, così dobbiamo uscirne con l'impegno a seguire la vocazione di Israele a essere קדושים , santi. Dove la santità non è una condizione eccezionale per pochi, ma coerenza alla portata di tutti. E' un impegno che riguarda noi e il nostro miglioramento. Che devi imporci l'umiltà come regola, come umile fu il nostro maestro Moshè, che non deve mai far guardare un altro dall'alto verso il basso, che sia ebreo o no, che si comporti bene o no. Non siamo noi i giudici ma dobbiamo dare l'esempio e non sottrarci a questo obbligo. Troppe volte cerchiamo il compromesso, mandando all'aria la kashrut, lo shabbat e quantaltro per adeguarci a doveri o formalità sociali. Per non parlare dei modelli familiari in crisi che accettiamo passivamente dall'esterno. Dai tempi del patriarca Yaaqov abbiamo cercato di assumere le sembianze di Esav. Ma non è un gioco vincente neppure nei tempi brevi. Le persone ci rispettano per quello che siamo e per quello che dovremmo essere come ebrei, non per quello che disprezziamo di noi stessi. Un importante prelato qualche hanno fa mi chiese: “ma che razza di ebreo è il tal dei tali che mangia pubblicamente qualsiasi cosa a voi proibita?”. Era un personaggio dei tanti che rappresenta in pubblico quello che lui pensa essere l'ebraismo. Ma la sua pubblica trasgressione non rendeva rispettabile né lui né il suo ebraismo. E se questo discorso riguarda in primo luogo i nostri rappresentanti non esime dall'obbligo chiunque di noi, che è comunque e deve essere un simbolo vivente della qedushà di Israele.
Pensiamo a queste cose nei momenti solenni che seguiranno, seguendo con attenzione ogni momento della preghiera.
זכרנו לחיים מלך חפץ בחיים וחתמנו בספר החיים למענך א-ל חי“Ricordaci per la vita, Re che desideri la vita, e sigillaci nel libro della vita, per Te, D. vivente”Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma(discorso pronunciato nel Tempio Maggiore di Roma alla conclusione del Kippur 5770)

Scialom Bahbout

Kippur - Preghiera e maldicenza

Grande protagonista del giorno di Kippur è la parola. Mentre la mente e lo spirito sono impegnati nel fare un esame di coscienza, analizzando i comportamenti dell’ultimo anno, la bocca - il tramite attraverso cui passano le parole - è impegnata nel recitare le preghiere e il viddui (la confessione delle colpe commesse). In ebraico bocca si dice Pe, una delle lettere dell’alfabeto ebraico che ha due forme: una chiusa פ e una aperta ף (che si usa in fine di parola), forse per indicare che ci sono momenti in cui la bocca deve essere tenuta chiusa e altri in cui invece bisogna aprirla: c’è un tempo per parlare, c’è un tempo per tacere. Da molto tempo siamo sommersi dalle indiscrezioni, dalla maldicenza, dal turpiloquio, dalle fughe di notizie dai processi in corso, dall’uso improprio della parola, che invece è stata data all’uomo per ben altri scopi. Kippur è un’occasione quasi unica per fare i conti con le proprie parole: le nostre preghiere non possono riscattare l’uso così dicotomico che si fa della parola. La purezza che deve essere intrinseca alla preghiera, mal si accompagna con la maldicenza. Con l’augurio che ognuno possa trasformare la sua lingua in lashon ha-kodesh, una lingua che parla solo di cose sacre. Scialom Bahbout, rabbino http://www.moked.it/

lunedì 28 settembre 2009


Accadde in Italia, ma forse non proprio in quel modo

“It happened in Italy”, un libro che racconta principalmente le vicende degli ebrei confinati nel campo di internamento di Campagna, località in provincia di Salerno dalla quale proviene la famiglia dell’autrice, è stato al centro di un dibattito nella sede della comunità ebraica di Firenze con la scrittrice newyorkese Elizabeth Bettina. La Bettina, che nella vita si occupa principalmente di marketing, ha recentemente pubblicato il libro negli States. Molte polemiche sono nate intorno a questo scritto, soprattutto negli ambienti ebraici nordamericani, a causa della marginalità con cui sono state trattate le persecuzioni razziali e dell’immagine edulcorata del fascismo che emerge dal testo. Ondata di polemiche che è giunta anche in Italia, tanto che alcuni, all’interno della comunità, si sono chiesti perché sia stato organizzato un incontro con un personaggio così controverso. Risponde Daniela Misul, presidente della comunità, che ha assistito all’incontro in compagnia di Joseph Levi, rabbino capo di Firenze: “Volevamo conoscere di persona questa scrittrice prima di giudicarla; in ogni caso eravamo consapevoli che la sua non sarebbe stata una testimonianza sulla Shoah, ma la narrazione di eventi accaduti in un’area geograficamente limitata”. Elizabeth Bettina, infatti, si è occupata quasi esclusivamente della storia degli ebrei, in buona parte fiumani, che si trovavano nella cittadina campana, evitando di parlare delle altre decine di migliaia di correligionari sparsi sul territorio italiano. Poche centinaia di “fortunati” che, grazie alla solidarietà ed all’aiuto rivolto loro dalla popolazione locale, poterono trascorrervi un’esistenza quasi normale. Un’oasi felice in mezzo al deserto dell’indifferenza, sentimento provato da gran parte della popolazione nei confronti delle sorti della minoranza ebraica. Tanti aiutarono gli ebrei, e se siamo qui a discuterne lo dobbiamo certamente a loro, ma molti di più preferirono far finta di non vedere. Eppure, leggendo il libro ed ascoltando le parole pronunciate nella conferenza di martedì scorso dalla Bettina, si potrebbe pensare che “italiani brava gente”, uno stereotipo che viene utilizzato spesso e volentieri per evitare di approfondire alcune pagine dolorose della storia del nostro paese, sia uno slogan che descriva efficacemente la realtà di quel periodo. Invece, le lapidi che ricordano migliaia ebrei italiani massacrati dai fascisti e dai nazisti sono là a testimoniare come le cose, molte volte, siano andate diversamente. “Come mai non ha parlato di loro o quantomeno l’ha fatto solo marginalmente?”, domanda qualcuno. “Non sono una storica, ho solamente voluto raccontare, basandomi sulle testimonianze di alcuni sopravvissuti, una bella storia di solidarietà”, la difesa della scrittrice. Spiegazione che molti non ritengono soddisfacente. “Chi si occupa di argomenti delicati come questo deve prendersi la responsabilità degli effetti che le sue parole possono avere per i lettori”, tuona lo studioso Sandro Servi, preoccupato per le strumentalizzazioni alle quali si potrebbe prestare il testo. Molto sospetto, a tal proposito, è stato il recente incontro avvenuto tra la scrittrice ed il papa. “Ha voluto che gli raccontassi le storie dei tanti preti e suore che aiutarono gli ebrei a salvarsi dalle persecuzioni”, la spiegazione, forse un po’ troppo semplicistica, della Bettina. In realtà, si mormora, che il libro possa servire per spianare ancora di più la strada alla beatificazione di Pio XII, con tutti i risvolti negativi che un avvenimento del genere potrebbe avere nei rapporti tra mondo ebraico e mondo cristiano. “What? That’s incredibile!”, la reazione di incredulità della scrittrice davanti a questa prospettiva. Eppure il suo “cascare dalle nuvole” non sembra molto spontaneo, visto che è impossibile che non si sia mai accorta delle feroci critiche che le sono state rivolte in tal senso nei mesi passati dalle principali testate ebraiche americane, che l’hanno accusata di avere colpevolmente omesso di parlare dei silenzi del Vaticano durante il secondo conflitto mondiale.Adam Smulevich, http://www.moked.it/




Israel black hebrews main cities

Israele/ Scienziati Tel Aviv mappano inconscio,confermato Freud?

Roma, 27 set. (Apcom) - A circa 70 anni dalla morte del padre della psicanalisi, Sigmund Freud, scienziati dell'università di Tel Aviv sostengono di aver individuato oggettivamente la presenza di pensieri inconsci nella mente e di poterne distinguere la peculiare attività cerebrale. La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica "Journal of Cognitive Neuroscience", è stata divulgata dal quotidiano israeliano "Haaretz". Le tracce dell'inconscio sono state registrate dall'encefalogramma di alcune persone che si sono sottoposte a una serie di test sperimentali. Lo studio, condotto dai ricercatori del dipartimento di psicologia dell'università di Tel Aviv Moti Salti, Dominique Lamy e Yair Bar-Haim si è concentrato su "percezioni" inconsce piuttosto che sull'inconscio della dottrina freudiana composto, in estrema sintesi, da desideri e ricordi "rimossi" nonché da "pulsioni" e molte altre dinamiche. Così Salti ha circoscritto il campo di ricerca: "Le persone sono bersagliate da una serie di stimoli da tutte le direzioni, ma soltanto sono coscienti di alcuni". I partecipanti all'esperimento sono stati sottoposti a stimolazioni visive. Di queste, non tutte sono state percepite consapevolmente, ma gli scienziati hanno dimostrato che era rimasta un traccia inconscia di ciò che non era stato registrato dalla coscienza. In particolare, alle persone sono state mostrate sullo schermo di un computer alcune forme geometriche, le quali non sempre sono state registrate coscientemente dai partecipanti al test. Quando gli scienziati hanno chiesto di indovinare in quale punto del monitor avrebbe potuto trovarsi una certa forma geometrica in molti hanno indicato il punto dove era effettivamente apparsa. "Questo dimostra che l'informazione è stata elaborata ma non dalla parte cosciente", ha spiegato Salti.

Una serata per parlare di Noi

Un caloroso applauso ha salutato l’arrivo di Walter Veltroni intervenuto al Palazzo della Cultura, nel cuore del vecchio ghetto di Roma, per presentare il suo ultimo romanzo Noi, titolo con molti doppi sensi per indicare il cognome della famiglia attraverso cui si snoda l’intera vicenda, ma anche per segnalare che dentro quella storia ci siamo tutti noi le nostre vite, i nostri sentimenti, le nostre emozioni, la vicenda di un’Italia che parte dal passato e si proietta nel futuro. Quattro generazioni della stessa famiglia, quattro ragazzi colti ciascuno in un punto di svolta, quattro capitoli ambientati in quattro epoche diverse attraverso le figure di Giovanni, Andrea, Luca e Nina che vivono negli anni 1943, 1963, 1980 e 2025, mentre dietro a tutta la vicenda campeggia la figura di Giuditta, giovane ragazza ebrea che vede dalle finestre della famiglia Noi da cui ha trovato rifugio, la deportazione dal Portico d’Ottavia del 16 Ottobre 1943.“Che tipo di Ebrei vedi?” - ha domandato con nota polemica a Veltroni il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni che è intervenuto a presentare il libro insieme al Presidente della Comunità Ebraica della Capitale Riccardo Pacifici, al Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna al Presidente della Fondazione Museo della Shoah Leone Paserman e al rabbino Benedetto Carucci Viterbi direttore delle scuole Angelo Sacerdoti e Renzo Levi. Domanda che fa riflettere quella posta dal Rav Di Segni perché Giuditta, vive la Shoah, sposa un non ebreo e i suoi figli, che ebrei sarebbero, perdono completamente l’identità ebraica. “L’idea di questo romanzo mi è venuta a Cracovia, in una di quelle serate trascorse a discutere con Piero Terracina durante uno dei viaggi con i ragazzi delle scuole romane a visitare i campi di concentramento - ha spiegato Veltroni - per me il senso di questa storia, il senso del percorso, del cammino è attribuire un omaggio alla cultura ebraica, un omaggio alla Memoria”. “Il senso che volevo trasmettere - ha proseguito Veltroni riferendosi all’ultima parte del libro ambientata nel futuro - è la preoccupazione per un mondo che trasmette ciascuno l’identità individuale. Dove ciascuno ha una realtà blindata, protetta. Il senso ultimo di questo racconto è un’idea inclusiva: nella trasmissione c’è l’antidoto a questa società che rischia di perdersi”.http://www.moked.it/

Becky Behar


22-23 settembre 1943 L'eccidio di Meina

Ci racconta il dramma di quella notte Becky Behar, figlia del gestore dell'hotel di Meina, sul lago Maggiore, nel quale si erano rifugiati molti ebrei, alcuni venuti in Italia da Salonicco per sfuggire alla persecuzione nazista.Ma dopo l'8 settembre 1943 le SS danno la caccia a tutti gli ebrei e a Meina nella notte fra il 22 e il 23 settembre 1943 si consumerà il primo eccidio di ebrei in Italia.Becky Behar ha 14 anni e nell'hotel di Meina le SS massacrano 18 persone. I resti di questi innocenti, colpevoli solo di essere ebrei, furono scaraventati nel lago con una pietra appesa al collo perchè non riaffiorassero ma rimanessero in fondo al lago per sempre.Becky Behar è sopravvissuta a quell'eccidio ed ha dedicato tutta la vita a raccontare ai giovani nelle scuole l'orrore della persecuzione razziale.Becky Behar era nata in Belgio, i suoi genitori erano di origine turca.Un improvviso malore l'ha colpita nel gennaio 2009 mentre camminava per le vie di Milano.Ma sono tante le persone alle quali Becky Behar ha raccontato....A noi che abbiamo raccolto il "testimone" l'impegno oggi di "ricordare", di richiamare al cuore!

domenica 27 settembre 2009

Festività di Yom Kippur 5770 (28 settembre 2009)

Yom Kippur è la ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno dell' espiazione. Nella Torah viene chiamato Yom haKippurim (Ebraico, "Giorno degli espìanti"). È uno dei cosiddetti Yamim Noraim (Ebraico, letteralmente "Giorni terribili", più propriamente "Giorni di timore reverenziale"). Gli Yamim Noraim vanno da Rosh haShana a Yom Kippur, che sono rispettivamente i primi due giorni e l'ultimo giorno dei Dieci Giorni del Pentimento.Nel calendario ebraico Yom Kippur incomincia al crepuscolo del decimo giorno del mese ebraico di Tishri (che cade tra Settembre e Ottobre del calendario gregoriano), e continua fino alle prime stelle della notte successiva. Può quindi durare 25-26 ore.Origine biblica:Il rito dello Yom Kippur viene descritto quattro volte nel sedicesimo capitolo del Levitico (vedi Esodo 30;10, Levitico 23;27-31 e 25;9, Numeri 29:7-11). All'epoca del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme venivano offerti i sacrifici descritti nella Torah e nella Mishnah.Nel pensiero ebraico:Yom Kippur è il giorno ebraico della penitenza, viene considerato come il giorno ebraico più santo e solenne dell'anno. Il tema centrale è l'espiazione dei peccati e la riconciliazione. È proibito mangiare, bere, lavarsi, truccarsi, indossare scarpe di pelle ed avere rapporti sessuali. Il digiuno - astinenza totale da cibo e bevande - inizia qualche attimo prima del tramonto (chiamata tosefet Yom Kippur - aggiunta a Yom Kippur - l'aggiunta di una piccola parte del giorno precedente al digiuno è prescritta dalla Halakha), e termina dopo il tramonto successivo, all'apparire delle prime stelle. Le persone malate consultano in anticipo un'autorità rabbinica competente per verificare se il loro stato le esenti dal digiuno.Il servizio ha inizio con la preghiera di Kol Nidre (testo, preghiera cantata) che deve essere recitata prima del tramonto. Kol Nidre (parola aramaica che significa "tutte le promesse") rappresenta l'annullamento di tutti i voti pronunciati nel corso dell'anno. Secondo The Jewish Encyclopedia, il testo della preghiera recita: "Tutti i voti, gli impegni, i giuramenti e gli anatemi che siano chiamati 'konam', 'konas', o con qualsiasi altro nome, che potremmo aver pronunziato o per i quali potremmo esserci impegnati siano cancellati, da questo giorno di pentimento sino al prossimo (la cui venuta è attesa con gioia), noi ci pentiremo".
Yom Kippur completa il periodo di penitenza di dieci giorni iniziato con il capodanno di Rosh haShana. Sebbene le preghiere con le quali si chiede perdono siano consigliate durante l'intero anno, diventano particolarmente sentite in questo giorno.
La preghiera mattutina viene preceduta da alcune litanie e richieste di perdono chiamate selihot; nel giorno di Kippur queste vengono aggiunte in abbondanza nella liturgia.
In accordo con Mosè Maimonide "Tutto dipende da quanto un uomo meriti che vengano cancellati i demeriti che pesano su suo conto", quindi è auspicabile di moltiplicare le nostre buone azioni prima del conteggio finale fatto il Giorno del Pentimento (ib. iii. 4). Coloro che Dio considera meritevoli entreranno nel Libro della Vita, la preghiera recita: "Entriamo nel Libro della Vita". Recita anche l'auspicio "Possa tu essere iscritto (nel Libro della Vita) per un gioioso anno". Nella corrispondenza scritta tra capodanno e il Giorno del Pentimento, colui che scrive conclude, abitualmente, augurando al mittente che Dio approvi il suo desiderio di felicità. Nel tardo ebraismo alcune peculiarità proprie del giorno di capodanno furono trasferite al Giorno del Pentimento.Il Giorno del Pentimento sopravisse all'abbandono delle pratiche sacrificali dell'anno 70 CE. "Nonostante nessun sacrificio verrà offerto, il giorno manterrà il suo proprio effetto di espiazione" (Midrash Sifra, Emor, xiv.). I testi ebraici insegnano che in questo giorno non è permesso che venga compiuta altra attività che non sia il pentimento. Il pentimento è l'indispensabile condizione per tutti i vari significati dell'espiazione. La confessione del penitente è una condizione richiesta per l'espiazione. "Il Giorno del Pentimento assolve dalle colpe di fronte a Dio, ma non di fronte alla persona offesa fin quando non si ottiene il perdono esplicito dalla stessa" (Talmud Yoma viii. 9). È usanza di terminare ogni disputa o litigio alla veglia del giorno di digiuno. Anche le anime dei morti sono incluse nella comunità dei perdonabili del Giorno del Pentimento. È un costume per i bambini che abbiano perso i genitori di ricevere una menzione pubblica in sinagoga, e di offrire doni caritatevoli alle loro anime.Contrariamente al credo popolare, Yom Kippur non è un giorno triste. Gli ebrei Sefarditi, ovvero gli ebrei di origine spagnola, portoghese o nordafricana chiamano questa festività il "Digiuno Bianco". Di conseguenza, molti ebrei hanno l'usanza di indossare solo vestiti bianchi, per simbolizzare il candore delle loro anime.
La liturgia:Per le preghiere della sera viene indossato un Talled (uno scialle di preghiera rettangolare), e questo è l'unico servizio serale dell'anno in cui questo succede. Ne'ilah è un servizio speciale che si tiene solo a Yom Kippur, e lo chiude. Yom Kippur termina con il suono dello shofar, che conclude la celebrazione. Viene sempre osservato un giorno di vacanza, sia dentro che fuori i confini della terra di Israele.Il servizio nella sinagoga comincia alla sera della vigilia con il Kol Nidre. Le devozioni durante il giorno sono continue dalla mattina alla sera. Molta importanza è data al brano liturgico in cui si narra il cerimoniale del tempio.Secondo il Talmud, Dio apre tre libri il primo giorno dell'anno, Rosh Hashana; uno per i cattivi assoluti, un altro per i buoni assoluti, e il terzo per la grande classe intermedia. Il fato dei buoni e cattivi assoluti viene determinato in quel momento; il destino della classe intermedia resta sospeso fino al giorno di Yom Kippur, quando il fato di ognuno si decide. Il brano liturgico Unetanneh Tokef afferma:
"D-o Re, che siedi su un trono di misericordia per giudicare il mondo, allo stesso momento Giudice, Difensore, Esperto e Testimone, apri il Libro delle Firme. Si legge che dovrebbero esserci le firme di ogni uomo. La grande tromba viene suonata; si sente una voce piccola e decisa; gli angeli fremono, dicendo "Questo è il giorno del Giudizio": perché gli stessi ministri di Dio non sono puri dinnanzi a Lui. Come un pastore dirige il suo gregge, facendolo passare sotto il proprio bastone, così Dio fa passare ogni vivente di fronte a Lui, per stabilire i limiti della vita di ogni creatura e per definirne il destino. Nel giorno di capodanno il decreto è stilato; nel giorno del pentimento è sigillato; chi vivrà e chi morirà... Ma il pentimento, la preghiera e la carità possono evitare il crudele decreto." La "Corona di Maestà" di Ibn Gvirol è aggiunta alla liturgia Sefardita nel servizio serale, ed è anche letta in alcune sinagoghe Askenazite ed Italiane. Al centro della liturgia antica è la confessione dei peccati. "Perché non siamo tanto presuntuosi da dirTi che siamo giusti e non abbiamo peccato; ma, nella realtà, abbiamo peccato... sia la Tua volontà che io non pecchi ulteriormente; Ti piaccia lavare i miei peccati trascorsi, secondo la Tua bontà, ma non con punizioni severe".
Le melodie tradizionali con i loro toni di lamento (della tradizione Askenazita) danno espressione sia all'angoscia individuale a fronte dell'incertezza del destino e al lamento di un popolo per le glorie perdute. Nel giorno di espiazione l'ebreo osservante dimentica la mondanità e le sue necessità e, escludendo l'odio, l'antipatia e tutti i pensieri ignobili, cerca di occuparsi unicamente di cose spirituali. I libri ebraici di preghiera fanno notare che, se gli atti di pubblica contrizione sono obbligatori, il correttivo più efficace è quello stabilito dai Profeti biblici, che insegnano che il vero digiuno di cui D-o gioisce è lo spirito di devozione, gentilezza e penitenza.
Il carattere austero impresso alla cerimonia dal tempo della sua istituzione è stato conservato fino ad oggi. Anche se altre cose sono divenute desuete, la presa sulla coscienza di ogni ebreo è così forte che pochi, a meno che non abbiano reciso ogni legame con l'ebraismo, evitano di osservare il giorno di espiazione astenedosi dal lavoro quotidiano e partecipando alle funzioni.
Fonte: wikipedia , http://www.comunitadibologna.it/

Pubblichiamo uno stralcio dell'undicesimo capitolo di "Non smetteremo di danzare", "Il guaritore di bambini Down"

In Israele era noto come il guaritore dei bambini Down. «Uno tzadiq», singhiozza fra le lacrime la mamma di uno dei suoi pazienti. Nella tradizione ebraica, uno tzadiq è un giusto, un santo e un sapiente, scelto da Dio per distribuire i suoi doni al resto dell’umanità. E questo era Moshe Gottlieb, una delle 19 vittime dell’attentato suicida di martedì 18 giugno 2002 a Gerusalemme. Moshe è stato assassinato sulla strada verso un’altra delle sue giornate di carità verso i malati e i disabili. Dopo aver abbandonato un lucroso lavoro in una fabbrica di pellicce a New York, Moshe si era trasferito a Los Angeles e si era dedicato agli studi di chiropratica. Nel 1972 era venuto in visita in Israele e se ne era innamorato. Sei anni dopo va a vivere a Gerusalemme con la moglie e i figli. Qui la sua pratica medica si era approfondita, affiancata da un serissimo studio della Torah. Non usava taxi, Moshe, ogni martedì andava in autobus a Bnei Brak, il poverissimo sobborgo di Tel Aviv abitato da religiosi ortodossi, e lì lavorava gratuitamente in un centro per bambini Down. Il martedì, perché nella tradizione ebraica è un giorno «due volte buono» e quindi bisogna doppiamente rendere gloria al Signore. Ma ogni altro giorno Gottlieb iniziava alle 8.15 in punto a ricevere nel suo studio di Gerusalemme. Molti erano casi disperati, pazienti cronici e disabili gravi. «C’era una bambina Down, con cui Moshe cominciò a lavorare quando lei aveva due anni», dice la moglie Sheila. «All’inizio era totalmente contratta e terrorizzata, non voleva neppure farsi toccare. Era stata abbandonata dai genitori naturali e Moshe voleva molto bene ai genitori adottivi, lavorava sempre con gente speciale. Be’, per farla breve, adesso la bambina ha circa dieci anni e suona molto bene il pianoforte.»All’alba e al tramonto Moshe, che si alzava ogni giorno alle 3.30, andava a pregare nella sinagoga di Gilo, che aveva contribuito a costruire. «La sinagoga era casa sua, era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene – dice Elyahu Schlesinger, il rabbino capo di Gilo – ed era sempre pronto a insegnare e a incoraggiarci con la sua sapienza e il suo sorriso.» Nella sinagoga era stato da poco inaugurato un quadro in suo onore. Ora è intitolato alla sua memoria, proprio lì sotto si sono svolte le orazioni funebri. Gottlieb abitava all’estremità sud di Gerusalemme. Per mesi, durante la seconda intifada, il quartiere è stato colpito giorno e notte da missili e colpi di mortaio provenienti dal sobborgo palestinese di Beit Jalla. Moshe teneva la sua sedia sempre davanti alla finestra, da cui vedeva tutta Gerusalemme. «La sua sedia resterà sempre là» dice la moglie. Moshe si svegliava, studiava la Torah e preparava le sue lezioni di Mishnah da tenere a una classe di immigrati russi. Dopo l’insegnamento si recava al minyan per la preghiera rituale. Il martedì e il giovedì prestava servizio a Tel Chai, una casa di cura per pazienti gravemente malati. C’era una paziente, una donna in stato vegetativo da tredici anni, di cui Moshe si prendeva cura con una costanza impressionante.Ogni volta che visitava New York acquistava materiale medico prezioso per assistere quella donna. Seguiva anche l’Aleh, un ospedale per disabili fisici. Non mancava un appuntamento da tredici anni. Portava sempre dei regali ai bambini. Faceva beneficenza a due istituzioni per ragazze orfane, dava una mano alle famiglie dove gli uomini kharedim, gli ebrei ultraortodossi, non lavoravano per poter continuare a studiare. Non si separava mai dai suoi libri religiosi. E così anche quel giorno, avviatosi serenamente verso la fermata del bus, Moshe li aveva con sé sotto il braccio. «Era una persona molto speciale mio marito», ci racconta Sheila. «Dopo l’arrivo da Los Angeles abbiamo vissuto in un centro per l’immigrazione a Merkaz Klita. La mia fede in haShem, in Dio, e l’amore dei miei figli e delle loro famiglie mi hanno sostenuto negli anni dopo la sua morte. Oggi in sua memoria faccio la volontaria con i malati di Alzheimer.» Sheila ricorda il lavoro del marito. «Due anni prima della morte, Moshe aveva iniziato a lavorare coi bambini affetti da sindrome di Down. Aveva duecento pazienti da tutto Israele. Lo amavano tutti. Moshe diceva “il corpo parla”… E con le sue mani e la guida divina di haShem, era in grado di aiutare molta gente. Era molto vicino al nostro rabbi a Gilo, Eliyahu Schlesinger. Moshe ne aveva finanziato la sinagoga di Hazon Nachum. Oggi a tutti mancano il suo amore, la sua guida, la sua presenza. I suoi pazienti, gli amici e la famiglia, tutti lo piangono. Io spero che un giorno possiamo essere tutti ancora assieme in thekhiyath hamethim, la rivelazione di Dio ai morti. Ed essere testimoni della venuta del Messia.» Il celebre commentatore biblico Rashi ha detto che quando uno tzadiq, un giusto, abbandona un luogo, tutti avvertono questa perdita. Ma ha aggiunto che un residuo di presenza spirituale, un roshem, resta dietro ciascuno di loro.
24 settembre 2009, http://www.ilfoglio.it/

Luigi Mattiolo
Comunicazione da parte dell'Ambasciatore d'Italia Luigi Mattiolo

Desidero comunicare che martedì 29 settembre sara’ celebrate una Santa Messa per commemorare i 6 soldati italiani caduti a Kabul il 17 settembre scorso.
La Santa Messa sara’ celebrata nella Chiesa di San Pietro- Rehov Mifraz Shlomo, 1 Yaffo - alle ore 10.30 e durera’ circa un’ora.
Con l’espressione della mia considerazione.Luigi Mattiolo Ambasciatore d’Italia in Israele

Lizzie Doron

A Lizzie Doron il Premio letterario Adei Wizo

Quest’anno alla premiazione che si terrà a Trieste del IX° Premio Letterario ADEI-WIZO "Adelina Della Pergola" per il miglior romanzo di argomento ebraico pubblicato in Italia saranno presenti due degli autori che vanno a comporre la terzina vincente: Lizzie Doron con “Perché non sei venuta prima della guerra” vincitrice dell’edizione di quest’anno e Boris Zaidman classificatosi al terzo posto con il suo romanzo “Hemingway e la pioggia di uccelli morti”.Lizzie Doron ha passato la sua infanzia in un quartiere della periferia sud di Tel Aviv, una comunità che parlava la lingua Yiddish, composta per la maggior parte da sopravvissuti alla Shoah. All’età di 18 anni, lasciò la casa natale per andare a vivere in un Kibbutz sulle alture del Golan, dove poter dimenticare quel mondo e l’inestinguibile tristezza degli uomini sopravvissuti alla tragedia.Alla morte della madre la scrittrice decise di voler esplorare le origini della sua famiglia, da questa ricerca nacque il suo romanzo “Perché non sei venuta prima della guerra”, un percorso a ritroso nel tempo, alla ricerca di alcuni frammenti di vita. Il romanzo, pubblicato per la prima volta in Israele nel 1998 e tradotto in italiano da Shulim Vogelmann nel 2004 per la collana “Israeliana” de La Giuntina, rappresenta un omaggio alla madre e ci dona un quadro esaustivo di una generazione che ha cercato in Israele la realizzazione di un sogno di libertà, un insieme di esistenze spezzate dalle barbarie, di persone sopravvissute allo scempio, che giunte in Eretz Israel con un indicibile bagaglio di sofferenze sono riuscite a smettere di sopravvivere per tornare finalmente a vivere, come dice Elie Wiesel: “facendo nascere ancora bambini ebrei in un mondo che li voleva tutti morti”. Boris Zaidman attraverso il suo romanzo d’esordio, ci mostra invece cosa voglia dire sentirsi e considerarsi un cittadino israeliano e allo stesso tempo provenire da un mondo diametralmente opposto per usi, costumi e storia: l’unione sovietica, con il suo bagaglio di cultura e sogni di grandezza, e nonostante tutto ancora inconsapevole delle sue innumerevoli contraddizioni.“Hemingway e la pioggia di uccelli morti” è ambientato negli anni settanta e racconta di un tredicenne Anatoly Schneidermann la cui difficile vita in Unione Sovietica, che resa ancora pià complicata dal fatto di essere ebreo in un paese che non ha mai visto di buon grado gli ebrei, viene stravolta positivamente dalla decisione di lasciare la Moldavia per emigrare in Israele insieme ai membri rimanenti della sua famiglia cambiando completamente stile di vita, lingua e generalità. Anatoly diventa Tal e Schneidermann diventa Shani, nome e cognome che meglio si adatteranno alla nuova esistenza che gli si prospetterà da lì in avanti.Vent'anni dopo, Tal, trasformatosi ormai nel tipico trentenne in carriera della società bene israeliana - fa ritorno nell'ex Urss, invitato a partecipare nella sua città natale a una sorta di "Fiera della cultura israeliana",per parlare ai candidati all'emigrazione verso Israele e per persuadere quante più persone possibili a compiere l'aliah. Tal parte per promuovere la sua nuova patria e finisce per ritrovare quella dimenticata, la sua città, i propri ricordi e quel tredicenne che, bollato come "giudeo", sedeva in un minuscolo appartamento convinto che i tedeschi sarebbero arrivati da un momento all'altro per portarlo via, proprio come avevano fatto con suo nonno.Hemingway nel romanzo non è semplicemente un referente letterario, ma è quasi un personaggio vero e proprio. Il bambino, protagonista del libro aspetta una persona che deve tornare da un Gulag, nell’attesa si concentra sul suo ritratto, sull’impronta mnemonica che ha serbato. Quell’immagine però è il ritratto di Hemingway, autore che ama profondamente su cui il bambino proietta tutte le sue emozioni. Hemingway è anche uno dei pochi autori della letteratura americana che ha avuto una discreta diffusione nei paesi influenzati dall’establishment culturale sovietico. Un libro emozionante e allo stesso tempo ironico e struggente, tutto giocato sul rapporto antitetico tra sogni di grandezza e misera esistenza quotidiana.Michael Calimani http://www.moked.it/

soldatessa israeliana

Le donne portano la Kasherut fuori dalla cucina di casa

Le ebree osservanti, le cuoche delle famiglie ortodosse, per lungo tempo hanno regnato sulle cucine kasher e rivestito il ruolo di supervisori informali per le loro famiglie e ospiti. Raramente, però, il ruolo di mashgiach (il supervisore di professione della produzione di prodotti kasher) viene loro affidato.Eppure qualcosa sta cambiando. Per la prima volta, la Orthodox Union (OU) e la Star-K, due importanti organizzazioni di certificazione kasher, stanno offrendo corsi per sole donne sulla kasherut.Nonostante l’assenza di divieti religiosi a riguardo, questi corsi, che hanno creato interrogativi e dibattiti all’interno dei gruppi religiosi, non prepareranno le donne al ruolo di mashgichot. In 25 si sono ritrovate a New York nelle scorse settimane per frequentare un corso avanzato di cinque giorni organizzato dall’OU. Il corso ha compreso visite guidate a cucine kasher industriali e lezioni finalizzate a dare “una panoramica comprensiva e dettagliata dell’intera industria kasher, inclusa la cucina di casa” ha dichiarato il Rabbino Yosef Grossman, direttore del dipartimento educazione dell’OU, la più grande organizzazione responsabile per la kasherut negli Stati Uniti.Per la prima volta, durante l’autunno, Star-K offrirà un corso, della durata di due giorni, per “donne che hanno già esperienza nel campo della kasherut; sarà per loro un’opportunità per approfondire” ha detto Rabbi Mayer Kurcfeld, l’assistente al direttore della supervisione di Star-K. Il rabbino ha aggiunto che le donne sono circa il 20 per cento delle mashigot della sua organizzazione, impegnate a monitorare attività commerciali come i ristoranti e gli ospedali.“La finalità del corso è che le donne si occupino di kasherut per le attività commerciali locali…Non affrontino laboriose discussioni halakike sull’origine di ogni regola. Non vogliamo che vadano in giro a dare sentenze halakike ma, piuttosto, che migliorino le loro capacità sul lavoro” ha spiegato Kurcfeld. Le donne così non ispezioneranno mattatoi, perché Star-K preferisce non mandare donne a lavorare nei mattatoi kasher o a supervisionare grandi stabilimenti.L’OU offre due corsi per uomini, uno della durata di una settimana e l’altro, più approfondito, di tre settimane. Nessuno dei due corsi copre l’intero curriculum di studi che bisogna completare per diventare mashghiach, ma un’alta percentuale degli studenti finisce per diventare un supervisore di professione nella comunità di provenienza. Quando gli è stato chiesto se mai le donne potranno un giorno ricoprire questo ruolo, Grossman si è immediatamente rimesso al giudizio del suo superiore, Rabbi Moshe Elefant, il coordinatore rabbinico esecutivo e capo delle operazioni dell’OU, che ha detto al Forward: “Al momento non abbiamo nessuna donna in quel ruolo, ma ciò non vuole dire che non siano adatte o che la situazione non possa cambiare. Non siamo contrari all’idea di affidare a una donna questo incarico”.Di sicuro ci sono donne interessate – come Ruth Greiter, chef di professione che adesso fa la mamma a tempo pieno e, di frequente, intrattiene numerosi ospiti. “Questo è solo l’inizio” dice a proposito del corso dell’OU “Spero che sia promettente”. Quando le chiediamo se s’iscriverebbe ad un corso per diventare mashgicha, risponde che “lo farebbe senza alcuna esitazione”. Un’altra partecipante, che preferisce rimanere anonima per timore che le sue dichiarazioni possano nuocere alla sua attività, dice, “La Kasherut è un universo molto maschile, e sarà molto interessante vedere se le donne potranno entrarci”. Alcune donne ortodosse sostengono di essere in effetti molto meglio preparate rispetto agli uomini per lavorare come supervisori, potendo contare sulla loro esperienza in cucina. “Ci sono sviste che un uomo può commettere perché non sa cosa cercare, perché non è stato allevato in cucina. Le mie figlie lo sanno istintivamente. Gli uomini lo devono imparare. Una donna lo sa già” sottolinea Greiter. Le sue compagne di corso lo hanno ribadito durante una lezione da Dougies Barbecue, un ristorante kasher nel quartiere ortodosso di Boro Park a Brooklyn.Il gruppo di 25 partecipanti, gonne lunghe e le teste coperte, ascoltava attentamente mentre il coordinatore rabbinico Dov Schreier, seduto a capotavola, parlava loro delle sviste di uno dei mashghichim.Una lo ha interrotto chiedendogli chi era quel supervisore, ma prima che il Rabbino potesse rispondere, due sue compagne - in coro - hanno commentato con convinzione “In questa occasione la presenza di una donna avrebbe fatto la differenza”.Devra Ferst , The Forward, 25 settembre 2009(versione italiana di Rocco Giansante) http://www.moked.it/

kippur si digiuna ma poi si riprende a mangiare , e allora ...
ecco la prima ricetta di cucina ebraica romana
http://www.youtube.com/watch?v=AFirGmvSKM0
seguiranno altre . graditi consigli idee e commenti Hamos Guetta