venerdì 9 ottobre 2009

Mezzogiorno di fuoco

Durante la visita romana di Abu Mazen, il governo italiano ha invitato Israele a congelare gli insediamenti. Diciamocelo subito e buonanotte: è stato un atto di grande originalità politica. Al governo le idee non mancano e neanche il senso di equilibrio nel complicato scacchiere mediorientale. All’invito al governo di Gerusalemme di compiere un cambio di passo, ha fatto seguito un pressante invito al presidente Abu Mazen di recarsi immediatamente a pranzo in un ristorante indicato dal ministero degli esteri. Se vuole la pace, anche lui deve fare qualche sacrificio e mangiare i bucatini. Magari in bianco, ma li deve mangiarli tutti. Il Tizio della Sera http://www.moked.it/









SukkahSoul - Sukkah con stile

«Celebrerai la festa delle capanne per sette giorni, quando raccoglierai il prodotto della tua aia e del tuo torchio; gioirai in questa tua festa […] » (Deuteronomio 16; 13; 14). Le capanne, la gioia, la famiglia, ma anche gli amici, gli ospiti. Tutto questo rappresenta l’essenza più profonda della festa di Sukkot. Tutti gli anni tra settembre e ottobre, dal 15 al 23 del mese ebraico di Tishrì, giardini, balconi, terrazze si riempiono di capanne (proprio questo significa la parola “sukkot”). Piccole o grandi, contengono a fatica un paio di persone o sono capaci di ospitarne centinaia, hanno una copertura di foglie di palma o di stuoie. L’importante, per essere Kasher, cioè perché venga osservata la mitzvah, è che siano costituite da una struttura mobile, chiuse almeno su tre lati e che dal tetto si intraveda il cielo.Un fenomeno particolarmente diffuso in Israele, dove sorgono ovunque, persino in strada e nei parcheggi.Sono semplici le Sukkot che si vedono in giro. Struttura in legno, tele bianche con disegni a tema e addobbi e luci colorate non molto diverse da quelle natalizie.In fondo però la Sukkah rimane una casa, anche se per una sola settimana l’anno, anche se la maggioranza della gente la usa solo per mangiare e fare le berachòt. Ma casa vuol dire design. E allora qualcuno non si lascia sfuggire l’occasione per combinare l’utile, o meglio la mitzvah, al dilettevole, approfittandone per trasformare la Sukkah in qualcosa di classe.È stata proprio questa l’idea di Susan Shender, architetto di Saint Louis, nel Missouri. Qualche anno fa, partecipando a un ciclo di lezioni di Torà, aveva iniziato a studiare il Kohelet, il Libro dei Sacerdoti, tradizionalmente letto durante la festa di Sukkot. Così, quando arrivò il momento, tirò fuori una vecchia Sukkah che conservava in garage, la montò e invitò le compagne di corso per studiare tutte insieme. “Guardando la struttura della Sukkah, decisi che potevo progettare qualcosa di più speciale - spiega l’architetto Shender – Mi venne in mente il precetto di hiddur mitzvah, rendere più bello il comandamento (esteticamente ndr). Volevo qualcosa che fosse gradevole sia dall’esterno che dall’interno, rimanendo però allo stesso tempo facile da montare e impacchettare”. Il risultato del suo lavoro è SukkahSoul (nell'immagine in testa una delle Sukkah realizzate da Susan Shender), una Sukkah con l’intelaiatura in legno di cedro e le pareti in polietilene, chiara e rilucente. La Shender nel disegnare la struttura basata su elementi triangolari e rettangolari ha tratto ispirazione dal modo in cui le Sefirot, le emanazioni attraverso cui, secondo la Kabbalah, D-o si rivela, sono disposte nell’Albero della Vita. Le Sefirot sono strettamente legate a questa festa perché sono rappresentate dai sette Ushpizim, ospiti mistici, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Aronne, Giuseppe e David, che visitano la Sukkah ciascuno in una sera di festa. SukkahSoul oggi costituisce un marchio di Judaica di cui questa Sukkah rappresenta un prodotto di punta, venduto in tutti gli Stati Uniti per 650 dollari nella versione base di 6-8 posti.Una ulteriore possibilità di vivere in letizia la Festa delle Capanne e di stupire con la propria raffinatezza amici e parenti invitati, che in una Sukkah non devono mai mancare.Rossella Tercatin http://www.moked.it/














La sukkah degli studenti torna agli inizi dell’architettura

La festa di Sukkot e la sukkah stanno attraversando un periodo di rinascita. Come l’immagine della tenda catturò l’immaginazione degli Ebrei che stavano costruendo le sinagoghe suburbane negli anni ’60, riflettendo così sul permanente esodo dai “vecchi quartieri”, la forma semplice, la natura temporanea, e l’ambientazione domestica dell’umile sukkà toccano il tasto in un periodo, come il nostro, sensibile all’ambiente.I modesti riti sociali e domestici di Sukkot sono particolarmente affascinanti dopo la solennità dei Yamim Noraim. La transizione è naturale: nel pomeriggio di Yom Kippur, nelle sinagoghe, si legge di Giona seduto nella sua sukkà che guarda su Niniveh, e la tradizione vuole che si costruisca una sukkà per iniziare il giorno che viene dopo Yom Kippur.Un gruppo di studenti di Architettura della Wesleyan University (Middletown, Connecticut), hanno seguito questa tradizione quando hanno ricostruito la WesSukkah questa settimana. (La sukkà era stata montata la prima volta in Primavera, quando aveva vinto il prestigioso premio Sacred Landscape [Panorama Sacro] della rivista Faith and Form. La sukkà era stata immaginata come qualcosa che poteva operare sia a livello interpretativo che fisico. Doveva soddisfare una serie di richieste halachiche ma doveva anche interessare ed entusiasmare un pubblico giovanile. Il risultato è stato una struttura ondulata composta di cinque archi d’acciaio sottile coperta con tappeti di bambù attraverso i quali la luce penetra per permettere la necessaria vista del cielo e delle stelle – soltanto una delle tante condizioni concernenti la costruzione della sukkà elencate nella Mishna e nel Talmud.La sukkà contemporanea è una costruzione rara perché simbolica nella forma e nella funzione. Rappresenta le tende degli ebrei durante le loro perenigrazioni nel deserto del Sinai, ma la sua ri-costruzione annuale in ambiente domestico ricorda il pellegrinaggio a Gerusalemme durante il periodo del Tempio. Anche allora, le capanne costruite dai pellegrini erano strutture deboli; erano costruite in un momento di celebrazione e non di fatica.Oggi, nell’era della sukkà fai-da-te, la sukkà è stata ancora di più addomesticata.La WesSukkah rievoca un periodo più semplice, antecedente a quello dei materiali standardizzati e dei modelli prefabbricati. Gli studenti si sono ispirati alla ricerca, lunga secoli, dell’origine dell’architettura nella capanna primitiva, e hanno considerato come le antiche civiltà collegavano gli edifici e l’astronomia.La forma della WesSukkah riflette il luogo collinoso e il moto del sole nel cielo, ma, come fa notare Gideon Fink, uno degli studenti coinvolti nella costruzione “la sukkà divide il sito con l’Osservatorio dell’Università, composto di due edifici a cupola. Una delle regole più famose nella progettazione di una sukkah è che l’occupante deve essere in grado di guardare le stelle attraverso la s’chach, così abbiamo pensato che fosse giusto che il progetto incorporasse questo collegamento tematico tra la sukkà e l’Osservatorio”.La WesSukkah non è quello che i suoi committenti, i leader della locale Comunità Ebraica, avevano all’inizio immaginato: una sukkà di tipo tradizionale, riconoscibile, che potesse essere rimontata facilmente ogni anno.Gli studenti, invece, hanno sfidato il concetto di “cabina” e rifiutato completamente la rigidità architettonica della scatola. La struttura-tunnel arcata e ondulata è più organica; invece d’imporsi sul suolo, s’innalza con grazia.La sua presenza scultorea, che richiama le opere di Robert Stackhouse e Martin Puryear, ricorda i progetti degli Indiani d’America – dalla ‘casa lunga’ alla eel-pot [costruzione a forma di trappola per le anguille].Gli archi irregolari della sukkà collegano due delle forme architettoniche temporanee (e nomadiche) più antiche del Giudaismo: la tenda e il Tabernacolo. La tenda è la forma preferita nella Genesi, il periodo dei Patriarchi e dell’unità famigliare, mentre la sukkah è l’emblema del popolo Israelita che diventa nazione: è, nella Bibbia, l’architettura della comunità.“Volevamo trovare un equilibrio tra un’apertura verso l’esterno e il bisogno d’intimità” dice Finck, “ e una semplice struttura a ‘tunnel’ sembrava indicare che la sukkà era soltanto questo – una maniera di andare da un punto all’altro”.Negli anni ’70, quando ero all’Università, Sukkot era una festa politicizzata che segnava la speranza di un “risorgimento delle Nazioni” e di assemblea a Gerusalemme, ed era collegata alla condizione e alle aspirazioni degli Ebrei Sovietici.Oggi gli Americani stanno trasformando la festa in modo da collegare la sukkà non solo con Gerusalemme ma con luoghi più vicini. Gli studenti credono di aver contribuito alla presenza ebraica e alla Comunità Ebraica della Wensleyan University creando uno spazio che è più universale perché collegato a diverse tradizioni.Elija Huge, il professore di Architettura che ha supervisionato il lavoro degli studenti, ha anticipato che la sukkà sarà usata ogni anno. “È stata progettata per essere smontata e rimontata facilmente” dice, “sarebbe bello avere nuove decorazioni ogni anno, ma la struttura in sé durerà, si spera, a lungo”.Samuel Gruber, Tablet Magazine - ottobre 2009 http://www.moked.it/

A Washington c'è un nuovo gruppo ebraico che fa parlare di sè. "J Street" è nato nel 2007, è composto da ultraliberal sostenitori di Obama e persegue una strategia di "difesa degli interessi di Israele" opposta rispetto a quella delle maggiori organizzazioni ebraiche. A loro avviso deputati e senatori ostili a Israele vanno "ascoltati, sostenuti e anche finanziati". Scommettendo sulla possibilità di fargli cambiare idea.Maurizio Molinari,giornalista http://www.moked.it/

Jewish Refugees from illegal ship. 1948

Indagine conoscitiva sull'antisemitismo alla Camera

Rifacendoci al modello britannico e canadese di commissioni di inchiesta sull'antisemitismo e seguendo gli impegni presi in seguito alla riunione del Direttivo della Coalizione Interparlamentare contro l'Antisemitismo (ICCA), tenutasi a Roma il 10 e 11 settembre scorsi, oggi abbiamo compiuto un importante passo avanti: gli uffici di presidenza riuniti delle Commissioni Esteri e Affari Costituzionali della Camera dei Deputati hanno adottato il programma dell'Indagine Conoscitiva sull'Antisemitismo che le due commissioni svolgeranno nel corso di quest'anno, sotto mia proposta.Il programma di istituzione dell'indagine stabilisce che l'obiettivo è "un'attività di monitoraggio e di approfondimento tematico del fenomeno dell'antisemitismo, sia a livello internazionale che nazionale. L'indagine sarà indirizzata a evidenziare i nuovi caratteri che tale fenomeno ha assunto rispetto alle impostazioni tradizionali, con particolare riferimento all'odio etnico e religioso alimentato dal fondamentalismo e allo strumentale intreccio con l'antisionismo e il negazionismo. La recrudescenza dell'antisemitismo a livello mondiale, ed in particolare in Europa, unitamente al complesso rapporto con le vicente del Medio Oriente, induce a non sottovalutare gli episodi di intolleranza che hanno avuto luogo anche in Italia e ad adottare un'impostazione del problema che coniughi i profili di interesse internazionale a quelli di interesse nazionale".L'indagine è mirata a verificare: - il grado di consapevolezza dell'opinione pubblica, dei mezzi di comunicazione e del sistema educativo;- l'adeguatezza degli apparati e delle misure legislative nazionali e delle previsioni delle convenzioni internazionali;- l'efficacia degli organismi preposti al contrasto dell'antisemitismo.Inoltre sulla base dell'indagine sarà possibile fornire utili indicazioni ai fini di un rafforzamento del tessuto normativo, anche con riferimento ai nuovi mezzi di diffusione dell'antisemitismo, come le reti informatiche.Ultimate le procedure burocratiche, nell'arco delle prossime settimane la Presidenza della Camera darà il via all'indagine, che prevede l'audizione di numerosi esperti ed eventuali sopralluoghi sul campo

giovedì 8 ottobre 2009

Marek Edelman

Il 2 ottobre a Varsavia si è spento novantenne Marek Edelman,

l'unico sopravvissuto dei cinque dirigenti, tutti come lui giovanissimi, dell'Organizzazione Ebraica di Combattimento, che diede vita alla rivolta del ghetto di Varsavia. Edelman era un militante del Bund, e dopo aver guidato la rivolta del ghetto, riuscì a fuggire dal ghetto distrutto. Partecipò all'insurrezione di Varsavia. Dopo il 1945, scelse di restare in Polonia, con una decisione simile a quella di molti ebrei dell'Occidente, ma più anomala in Polonia, soprattutto dopo il 1967, e l'eliminazione dalla vita politica di tutti o quasi gli ebrei. Edelman, da buon militante del Bund contrario alla scelta sionista, continuò a esercitare il suo mestiere di medico cardiologo nell'ospedale di Lodz, dove la reazione dei suoi pazienti impedì al regime comunista di cacciarlo. Nel 1981 fu delegato di Lodz al primo congresso di Solidarnosh. I suoi rapporti con Israele furono complicati e sovente conflittuali. In una sua testimonianza sulla rivolta del ghetto, scrisse con grande anticonformismo parole prive di ogni retorica: "La maggior parte di noi era per l'insurrezione. Dal momento che l'umanità aveva convenuto che era molto più bello morire con le armi alla mano che a mani nude, non ci restava che piegarci a questa convenzione".
Anna Foa,storica
Addio a Marek Edelman ultimo eroe del ghetto di Varsavia
C’era chi lo chiamava eroe, suscitando le sue ire. Altri non sopportavano il fumo di quelle sigarette che lui, medico cardiologo, ha continuato a fumare imperterrito, fino a quando gli è stato possibile. C’è chi chiedeva di incontrarlo pensando di trovarsi dinanzi ad un idolo vivente, del quale fare poi il panegirico e l’apologia, salvo poi, alla prova dei fatti, accorgersi che quell’uomo, dall’aspetto dimesso e modesto, era molto diverso dal personaggio che gli era stato cucito addosso. È morto Marek Edelman, figura straordinaria di militante politico del Novecento. A questo secolo, peraltro, era rimasto profondamente legato, in tutto e per tutto, avendolo vissuto quasi interamente e, perlopiù, sulla sua pelle. Era nato nel 1919 a Homel, oggi in Bielorussia (ma altre versione datano la sua nascita al 1922, nella città di Varsavia) da una famiglia di «ostjuden», quegli ebrei dell’Est europeo che avevano forgiato e diffuso la cultura jiddish alla quale Edelman era molto legato, senza però mai viverla come dimensione esclusiva della propria identità. Di essa, nel dopoguerra e nei decenni a seguire, ne rappresentò infatti quel che era sopravvissuto, soprattutto dopo il tragico vuoto creato dalla Shoah e le persecuzioni staliniste. Della vita delle comunità ashkenazite aveva quindi respirato tradizione e innovazione, figlio com’era di una famiglia modesta ma stabilmente inserita nel tessuto sociale polacco. Non fu pertanto un caso se, ancora giovanissimo, avesse da subito scelto l’impegno politico nel Bund, il partito dei lavoratori ebrei di Russia, Lituania e Polonia. Formazione solidamente socialista, «mama Bund», così come veniva chiamata, raccoglieva un largo consenso tra gli operai e i salariati. Per i più costituiva l’alternativa al sionismo ma anche ad un capitalismo radicale e, tratti, brutale. La formazione politica nella prima gioventù gli tornò molto utile dopo l’occupazione tedesca del suo paese. Durante gli anni del ghetto, a Varsavia, operò clandestinamente nel gruppo di resistenza organizzato dalla sua organizzazione. Successivamente, quando venne costituita la ZOB, la Zydowska organizacja bojowa (l’Organizzazione ebraica di combattimento), e Mordechai Anielewicz ne divenne il comandante, si unì ad essa guidando le squadre di combattimento del Bund. Nei duri combattimenti che si svolsero nelle quattro settimane di resistenza del ghetto Edelman, che era il vicecomandante dell’organizzazione, si distinse per determinazione e coraggio. Dopo la fuga, avvenuta il 10 maggio 1943, si nascose nella parte “ariana” di Varsavia. Mantenne unito ciò che rimaneva della ZOB e con i suoi uomini partecipò alla rivolta di Varsavia, che scoppiò nell’agosto 1944. Figura feticcio, suo malgrado, della Resistenza europea, nel dopoguerra rimase in quella Polonia che andava trasformandosi in una democrazia popolare, malgrado dovesse subire gli effetti del rinnovato antisemitismo. Mentre i pochi correligionari sopravvissuti allo sterminio lasciavano il paese Edelman completò gli studi e iniziò a lavarare come medico. Non dismise tuttavia il suo impegno politico, riconoscendosi in un socialismo dal volto umano, molto distante dalla religione civile imposta da Stalin e dai suoi uomini. Per questa ragione fu arrestato in più di una occasione dal regime, odiato com’era per l’autonomia di pensiero e per la professione di libertà. Nel 1968, quando anche in Polonia il movimento degli studenti faceva sentire le sue ragioni, venne ingiustamente licenziato dall’ospedale nel quale lavorava. Negli anni settanta intraprese, insieme ad altri, l’avventura di Solidarność, partecipando prima alla fondazione del Kor, il Komitet Obrony Robotników (il Comitato di difesa degli operai), insieme a Jacek Kuron e Adam Michnik, e poi all’attività del sindacato politico. Di quest’ultimo fu consigliere ai vertici, intervenendo in prima persona alla «Tavola rotonda», il negoziato condotto tra il sindacato e la giunta militare di Wojciech Jaruzelski, per garantire alla Polonia una transizione alla democrazia post-comunista basata sulla non violenza e sul consenso. Nel 1989 fu eletto deputato alla Dieta, il Parlamento nazionale, incarico che assolse fino al 1993. Nel 1998 l’allora Presidente Aleksander Kwasniewsky, suo antico avversario politico, lo insignì dell’ordine dell’Aquila, la massima onorificenza. Uomo schietto e sagace, era noto per la sua concezione antiretorica della vita. Nei suoi libri, a disposizione del pubblico italiano (ed in particolare «Il ghetto di Varsavia. Memoria e storia dell'insurrezione» una lunga conversazione dell’autore con Hanna Krall; «Il guardiano», curato da Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn; «Arrivare prima del buon Dio» sempre con Hanna Krall), ci ha fornito il ritratto potente di una Polonia che, se non c’è più, tuttavia continua a pulsare nelle speranze di quella parte della nazione che crede nella libertà come evento non astratto, quando si accompagna alla giustizia sociale. Come tale, avversò la deriva populista del suo paese, durante il governo dei gemelli Kacynski, per poi riemergerne con la vittoria del liberale Donald Tusk. Edelman è stato uomo dalle molte vite: giovane bundista, non meno giovane attivista e dirigente dei ribelli del ghetto, poi maturo medico, militante sindacale, esponente dell’ultima intellighenzia ebraico-polacca, si congeda da noi nel mentre ciò per cui aveva lottato, l’Europa unita, sembra tanto a portata di mano quanto fragile e incerto. Uomo del confronto e del dialogo, ha riconosciuto i cambiamenti quando questi si sono verificati (ai tedeschi riconosceva di essere stati capaci di cambiare) ma non ha mai concesso nulla ad un ottimismo di circostanza. Di sé ha sempre detto che si occupava della vita, come esponente dell’umanesimo socialista ma anche come medico. Se ne è andato a novant’anni, molto tempo dopo la scomparsa del mondo da cui proveniva, troppo presto rispetto al paese e al continente che avrebbe voluto costruire. Claudio Vercelli http://www.moked.it/

Ada E. Yonath

Nobel per la Chimica all'israeliana Ada E. Yonath

L’israeliana Ada E. Yonath, ricercatrice presso il Weizman Institute of Science di Rehovot ha vinto il premio Nobel per la Chimica 2009, a pari merito con lo statunitense Thomas A. Steitz e il britannico Venkatraman Ramakrishnan, per i loro studi sulla struttura e la funzione del ribosoma. Da: Minna Scorcu Coordinatrice Ufficio Culturale Ambasciata di Israele

mercoledì 7 ottobre 2009

Orgia in casa di riposo: scandalo in Israele

Al festino avrebbero partecipato anche anziani di oltre 90 anni. Diffida dalla direzione dell'istituto
TEL AVIV - Decisi a godersi la vita fino in fondo, alcuni ospiti di una lussuosa casa di riposo a nord di Tel Aviv hanno organizzato un festino che è sfociato in una vera e propria orgia. Lo riferisce il quotidiano "Israel ha-Yom" secondo cui alcuni dei protagonisti della vicenda hanno superato i 90 anni. DIFFIDA - Di fronte all'inattesa eruzione di vitalità lo staff della casa di riposo ha preferito non intervenire e l'evento - che pure era stato notato - non è stato interrotto. Ma l'indomani, aggiunge il giornale, la direzione dell' istituto ha emesso un severo comunicato in cui diffida gli ospiti dal tornare a esibirsi in effusioni incontrollate.
05 ottobre 2009 http://www.corriere.it/

da Tel Aviv a Gerusalemme

Israele testa le autostrade energetiche

Partita la fase di pilota del progetto, portato avanti dall’israeliana Innowattech in collaborazione con l’istituto tecnologico nazionale, per rendere le strade del paese al pari di centrali elettriche
(Rinnovabili.it) – Solo dieci mesi dopo aver presentato il concept, la società Innowattech e il Technion (Israel Institute of Technology) hanno finalmente dato il via alla fase pilota dei propri generatori piezoelettrici stradali. La sperimentazione condotta in collaborazione con la Israel National Roads Company coinvolge dieci metri di asfalto in prossimità della Route 4, sotto ai quali sono state istallate le speciali pedane in grado di convertire l’energia meccanica dovuta alla compressione in elettricità. L’energia prodotta, in questo caso fino a 2.000 Wh, viene quindi convogliata ad un sistema di accumulo adiacente alla strada.E mentre inconsapevoli automobilisti da ieri mattina stanno testando la tecnologia senza rendersene conto, i responsabili del progetto fanno sapere che se la prova pratica comporterà risultati soddisfacenti si passerà rapidamente ad una fase di ampliamento attraverso l’incorporazione, a circa cinque centimetri sotto lo strato superiore dell’asfalto, di strisce di un chilometro di lunghezza nelle strade di Israele. “Un chilometro lungo una sola corsia dovrebbe produrre 200 kWh, mentre in quattro corsie, potrebbe arrivare a circa un MWh, – spiega il Dr. Lucy Edery-Azulay, curatore del progetto – sufficiente a fornire energia elettrica per il fabbisogno medio di 2.500 famiglie”. “Il successo dei test di questa settimana è una tappa importante in questa rivoluzione tecnologica”, ha commentato Alex Wisznicer, CEO di Israel National Roads Company. “Viviamo in un piccolo paese che ha un grande vantaggio in termini di ricerca e di know-how rispetto a molti paesi che cercano modi per risparmiare energia altrimenti sprecata”. Dalle prime indagini gli scienziati hanno scoperto che la nazione ha circa 250 chilometri di strade adatte all’integrazione di tali membrane piezoelettriche, in termini di volumi di traffico e di massa dei veicoli, tra cui la Trans-Israel Highway (altrimenti noto come Highway 6) e l’autostrada Ayalon nel centro del paese. L’aspetto interessante della tecnologia è che rende possibile la fornitura dell’energia elettrica direttamente ai vari “consumatori finali” lungo le strade, come ad esempio i semafori, cartelloni pubblicitari illuminati, autovelox della polizia, sistemi di comunicazione o di segnaletica stradale, senza la necessità di immetterla in rete.07 Ottobre 2009 http://www.rinnovabili.it/

Michel Platini & Avraham Luzon

Il Presidente UEFA visita Israele

Il Presidente della UEFA Michel Platini ha fatto visita alla Federcalcio israeliana per parlare con il presidente Avraham Luzon, che è anche membro del Comitato Esecutivo UEFA. L'argomento è stato lo sviluppo del calcio in Israele.Valori positivi.Durante la sua visita, il signor Platini ha parlato anche con il presidente israeliano Shimon Peres. Il signor Platini ha espresso l’opinione secondo cui il calcio promuove valori positivi come la pace, la tolleranza e l'amicizia. Durante il meeting di Gerusalemme, il signor Peres e il signor Platini hanno discusso di come il calcio possa unire le comunità e aiutare a risolvere conflitti. Nel dicembre del 2006, i due avevano svolto un ruolo decisivo nel portare in campo insieme giocatori israeliani e palestinesi per una speciale Partita della Pace contro un squadra dell'Andalusia.http://it.uefa.com/ 6 Ottobre 2009


















Bar Rafaeli e Esti Ginzburg

Israele: la modella “arruolata” Esti Ginzburg contro la “Renitente” Bar Rafaeli. Chi preferite?

Il servizio militare, specie quando il tuo Paese è in guerra da oltre mezzo secolo, è un tema molto delicato. Poco importa che tu sia una donna, pochissimo importa che tu faccia la modella.
In Israele, evitare il servizio militare è qualcosa che all’opinione pubblica non va proprio giù, un comportamento equiparato, dalla maggioranza della popolazione, ad un vero e proprio “tradimento della patria”.Ne sa qualcosa la modella Bar Rafaeli, compagna dell’attore Leonardo Di Caprio, che un paio d’anni fa ha dribblato la leva e poi se n’è anche vantata mandando su tutte le furie l’opinione pubblica israeliana.Ora, a riaccendere la miccia è una sua collega, meno famosa di lei ma certamente, dopo questa “sparata” più apprezzata in patria: Esti Ginzburg, infatti, è una di quelle che ha imparato a rifarsi la branda e a maneggiare un fucile. I primi colpi d’arma da fuoco, però, la Ginzburg li ha riservati alla collega renitente: «Se dobbiamo aiutare il nostro Paese, non c’è da discutere: arruolarsi è un dovere, non una scelta. Il servizio militare fa parte delle cose in cui credo, dei valori in cui sono cresciuta. Evidentemente, c’è chi crede in altro».






Kochin Jewish Synagog

Mumbai e Cochin: quel Talmud al profumo di curry Ebrei Globali

Poeti e attrici di Bollywood, artisti e banchieri. Nobiltà e successi, splendori e fuga degli ebrei dell’India, il Paese che non fu mai antisemita.Festeggiare Purim travestendosi da star di Bollywood. Una cosa che ai ragazzi può capitare solo a Mumbai/Bombay, la capitale del cinema indiano. Qui, fra gli studios di Bollywood, è cresciuto uno star system che fa sognare grandi e piccini non solo in India: attori e attrici sono gli eroi di un’industria cinematografica che, com’è noto, è ormai la più grande del mondo. Molto meno noto invece - almeno in Italia - è il contributo fornito allo star system di Bollywood da tanti membri delle due Comunità ebraiche che da secoli risiedono in India. Si tratta della Comunità dei Bené Israel, storicamente la più numerosa in India (oggi però ridotta a cinquemila persone perché moltissimi fecero l’alyà, tanto che in Israele vivono quarantamila Bené Israel); e della Comunità dei Baghdadi, sephardim arrivati negli ultimi tre secoli dall’Iraq, dalla Siria, dallo Yemen e dalla Persia. I membri di entrambe le Comunità hanno saputo inserirsi in tutti i campi della società indiana arrivando ai suoi vertici: dall’economia alla cultura, dall’esercito al cinema. Se Mumbai è diventata l’affascinante e vivace metropoli che è oggi, e se Bollywood è Bollywood, molto lo si deve alla “storia d’amore” che le due Comunità hanno avuto con questa città, capace di accoglierli e di lasciarsi plasmare dal loro talento.Cominciamo da Bollywood: la “storia d’amore” tra ebrei e cinema indiano viene da lontano. Inizia negli anni Venti del secolo scorso, quando regina del cinema muto divenne Ruby Myers, nota al grande pubblico con il nome d’arte di Sulochana; lei, nata a Pune ma trasferitasi giovanissima a Mumbai, concluse la sua carriera ricevendo la massima onorificenza riservata dallo Stato indiano agli artisti del cinema. E dopo di lei, tantissime altre e altri, alcuni nati a Mumbai, altri sbarcati qui per Bollywood: attori e attrici come Florence Ezekiel (celebre con il nome d’arte di Nadira), Susan Solomon (nome d’arte Firoza Begum), David Abraham Cheulkar (nome d’arte David), e poi protagonisti della scena teatrale di Mumbai come la regista e attrice Pearl Padamsee, famosi critici cinematografici come Bunny Reuben, il pluripremiato documentarista Ezra Mir, il cartoonist Abu Abraham…. Arte, cinema e poesia Ma non è stato certo solo il mondo dello spettacolo a veder emergere il talento di tanti membri delle Comunità ebraiche indiane. Basterebbe fare un nome: i Sassoon. Una famiglia Baghdadi la cui storia meriterebbe un libro. Prima mercanti, poi commercianti e banchieri, hanno disseminato varie città di opere pubbliche legate al loro nome, fra cui uno dei maggiori ospedali di Pune (il Sassoon Hospital appunto) e l’edificio che a Mumbai è tra i più importanti dell’economia indiana: la Bank of India, oggi State Bank of India, di cui Sir Jacob Hai David Sassoon fu il principale fondatore nel 1906.Il mondo delle arti e delle lettere non è stato da meno, quanto a importanza della presenza ebraica. Anche qui, basti un solo nome: lo scultore Anish Kapoor, star indiscussa dell’arte contemporanea oggi. Nato a Mumbai nel 1954 da padre hindu e madre della Comunità Baghdadi, oggi le sue sculture sono esposte e premiate in tutti i maggiori musei del mondo. Un altro caso esemplare di successo è quello di un poeta internazionalmente noto come Nissim Ezekiel (1924-2004), ormai considerato il “padre nobile” della poesia di lingua inglese nell’India indipendente, una specie di Ungaretti studiato sui banchi di scuola dai ragazzi di tutta l’India. Nato a Mumbai (Bombay, in età coloniale) in una famiglia della Comunità Bené Israel, Ezekiel dimostrò presto le sue doti letterarie diventando non solo poeta ma anche drammaturgo, editor e critico d’arte. La raffinatezza dei suoi versi intimisti, venati di ironia, raggiunge a volte una struggente bellezza. In Italia, purtroppo, è ancora poco tradotto, ma si possono leggere alcune sue opere (con testo originale a fronte) nella bella antologia Poeti indiani del Novecento di lingua inglese curata una decina di anni fa da Shaul Bassi (Supernova editore). Alcune poesie dell’antologia, come la magnifica Jewish Wedding in Bombay, sono veri ritratti di vita ebraica. Altri componimenti, più autobiografici, accennano invece alle difficoltà di crescere in un ambiente culturalmente diverso; nella poesia Background, casually, Ezekiel parla di sé in questi termini: “Andai alla scuola cattolica/un ebreo sgobbone in mezzo ai lupi/mi dicevano che avevo ucciso il Cristo/quell’anno vinsi il premio di scrittura/un atleta musulmano mi prese a botte”. Questo ricordo giovanile di Ezekiel - relativo al suo disagio in una scuola cattolica di Mumbai - ci conduce a un tema fondamentale: quello dell’antisemitismo. Ebbene, l’India, a questo proposito, costituisce una felicissima eccezione. In duemila anni di storia (a tanto risale la presenza ebraica in India, secondo le tradizioni della Comunità ebraica più antica, i Cochin Jews del Kerala), gli storici non registrano nessuna significativa azione antisemita, se non da parte dei colonizzatori cattolici europei, in particolare i portoghesi. Ma da parte indiana, mai. I regni hindu ebbero rapporti di reciproco rispetto e collaborazione con i vari gruppi di ebrei che, nel corso dei secoli, giunsero in terra indiana e si stabilirono in molte sue parti. E quanto ai rapporti con i sultanati islamici, si ricorda un solo episodio negativo, nel 1524, quando la conquista musulmana del villaggio di Cranganore comportò anche la distruzione della Comunità lì residente. Ma gli ebrei non furono attaccati “in quanto tali” bensì in quanto abitanti di Cranganore. Comunque un episodio isolato, in un arco di tempo lunghissimo. Se si fa un confronto con la storia dell’antisemitismo europeo, la differenza è gigantesca. E infatti, gli unici veri atti di antisemitismo in tutta la storia indiana furono “importati”, come s’è detto, dai colonizzatori portoghesi a Cochin e a Goa: nel XVI secolo i portoghesi istituirono nei territori colonizzati dei tribunali dell’Inquisizione, provocando a Goa una diaspora della piccola Comunità che finì per portarla all’estinzione.La storia ebraica in India, comunque, è storia di un radicamento su tutto il territorio indiano: non solo Mumbai e Goa ma Calcutta (oggi Kolkata), Delhi, Ahmedabad, Thane, Cochin (oggi Kochi), per dire solo gli insediamenti più importanti; due scuole ebraiche e quattordici sinagoghe (ma un tempo erano molte di più) stanno a testimoniare oggi quel persistente radicamento. Il monopolio delle spezie La storia di Cochin, in particolare, non può essere ignorata. Accanto ai Bené Israel e ai Baghdadi, infatti, i Cochin Jews furono l’altra grande Comunità indiana. Quel passato remoto, “furono”, è d’obbligo, perché della più antica e florida Comunità dell’India ora rimangono appena una cinquantina di persone, per lo più anziane, mentre i giovani hanno fatto l’alyà o sono emigrati negli Usa. Da tempo gli storici discutono per stabilire quando gli ebrei arrivarono nell’area di Cochin, ma se si deve credere alle tradizioni della Comunità vi giunsero dopo la seconda distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera di Tito, nell’anno 70.Cochin, città costiera della regione meridionale del Malabar, oggi inclusa nello stato del Kerala, fu sempre un importantissimo porto delle spezie, e la Comunità si inserì perfettamente in questo grande mercato di “tesori profumati”, con l’unica infelice parentesi del periodo in cui i portoghesi occuparono la città. Quando i portoghesi furono cacciati, la Comunità di Cochin continuò a crescere sviluppando usi e costumi del tutto peculiari, compresa una propria lingua, detta giudeo-malayalam (il malayalam è la lingua usata in Kerala) e facendo fortuna col commercio delle spezie. Ancor oggi Cochin profuma di spezie - cardamono, sesamo, anice a stella - conservate a mucchi all’aria aperta nei cortili, un profumo che arriva anche nella piccola Jew Town, nelle vie degli antiquari che circondano l’antica, meravigliosa sinagoga Pardesi della città. Nonostante la decadenza, Jew Town conserva ancora parte del proprio fascino, e riserva varie sorprese al visitatore: non si può non rimanere colpiti vedendo case con il Magen David sulla facciata accanto a case con lo Swastikà, quella svastica che per gli hindu è solo un simbolo solare, ma che comunque non lascia mai neutrale l’osservatore… Oltre agli antiquari, in Synagogue Lane si trova la raffinata libreria ebraica Incy Bella, che perpetua la memoria della Comunità e offre anche una ricca scelta di testi sulle religioni. Ma la sorpresa più forte di Jew Town è offerta proprio dalla sinagoga Pardesi (la più monumentale delle tre in città): questo Tempio risalente al 1568 è la più antica sinagoga di tutti i Paesi del Commonwealth, ed è un autentico capolavoro d’arte, con oggetti di culto del decimo secolo e tesori come il pavimento di piastrelle in porcellana cinese del diciottesimo secolo, di una bellezza da togliere il fiato. Per questo rende tristi sapere che oggi qualcuno sta pensando di mettere in vendita il Tempio. Il Tempio è una testimonianza del passato splendore della Comunità di Cochin, ed è augurabile che lo Stato indiano si faccia carico della sua conservazione. È lecito aspettarselo dato che l’India, storicamente, deve molto agli ebrei. A fianco di Gandhi C’erano anche indiani di religione ebraica fra gli uomini e le donne che si strinsero attorno al Mahatma Gandhi nella sua lotta non-violenta per la liberazione del Paese dal colonialismo britannico; fra loro si ricorda un medico, Abraham Solomon Erulkar, che fu intimo amico del Mahatma e ne ebbe cura durante i suoi numerosi digiuni di protesta. Il padre di Erulkar aveva donato alla Comunità di Ahmedabad la terra su cui costruire la sinagoga della città. Il Tempio è tutt’ora attivo, così come i duecento ebrei della Comunità di Ahmedabad, pronti ancora oggi a unirsi alle celebrazioni che ricordano il Mahatma nel suo ashram di Ahmedabad, dove visse per vent’anni. Un legame che non si è mai spezzato.La tribu di Menashe è in India? Si trova in India una delle dieci tribù perdute di Israele? È quanto affermano i membri della Comunità Bnei Menashe, circa novemila persone appartenenti a una tribù di lingua tibeto-birmana, i Chin-Kuki-Mizo, che vivono nel Mizoram e nel Manipur, stati nord-orientali dell’India. Per generazioni hanno conservato tradizioni ebraiche, nel XIX secolo si sono convertiti al cristianesimo, ma negli anni Settanta del secolo scorso molti di loro sono tornati all’ebraismo. Il nome di Bnei Menashe si deve a Rabbi Eliyahu Avichail, che dal 1979 ha visitato più volte i loro villaggi per riportarli all’ortodossia. Nel marzo 2005, uno dei due Rabbini Capi di Israele, Shlomo Amar, ha riconosciuto la Comunità. Negli ultimi vent’anni, quasi duemila fra loro hanno fatto l’alyà. Marco Restelli http://www.mosaico-cem.it/


Guelfo Zamboni

Nasce a Santa Sofia, in Romagna, nel 1897. Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale è Console Generale d'Italia a Salonicco, città occupata dalle truppe naziste, che, nel 1941, ospita la più grande comunità (56.000 persone) di ebrei sefarditi al mondo.Giunto nel febbraio del 1942 a Salonicco, in zona greca occupata dai tedeschi, per alcuni mesi il console riesce ad evitare che gli alleati trattino gli ebrei della città come nei mesi precedenti avevano trattato gli ebrei polacchi e ucraini. Ma agli inizi del 1943 è costretto a limitarsi alla protezione degli ebrei italiani, dopo che Eichmann ha mandato il suo vicario ad Atene per la deportazione della comunità di Salonicco. Zamboni organizza una tradotta che parte da Salonicco nella notte del 15 luglio, consentendo la fuga degli ebrei italiani verso Atene. E fa carte false - letteralmente - affinché sul treno della salvezza salgano anche varie decine di ebrei che italiani non erano affatto, ma a cui il console aveva riconosciuto la cittadinanza con il pretesto di chissà quali legami familiari. Per strapparli alla deportazione, Zamboni scrive numerosissimi telegrammi al Ministero degli Esteri, sveglia nel pieno della notte il capo della rappresentanza italiana e riesce a procurare documenti di identità falsi a 280 ebrei per raggiungere Atene, situata nella zona d'occupazione italiana, permettendo loro di sfuggire al controllo tedesco e quindi alla deportazione.Muore nel 1994 a Roma.Nel 1992 gli viene conferito il titolo di Giusto fra le Nazioni dallo "Yad Vashem" di Gerusalemme (ma le notizie in merito alla vera natura dell'onorificenza assegnata non sono univoche e ancora oggetto di approfondimento). L'operato di Zamboni viene descritto da un suo collaboratore, Lucillo Merci, in un diario ed è stato ripreso da Daniel Carpi, storico israeliano di origini italiane. In un saggio pubblicato dall'Università di Tel Aviv, Carpi ricostruisce, sulla base dei documenti trovati presso “l'Archivio del Consiglio generale d'Italia a Salonicco” della Farnesina, i due anni e mezzo intercorsi tra l'arrivo dei tedeschi nel 1941 e la pressoché totale distruzione della comunità ebraica nel 1943. L'autore sostiene che molte centinaia di ebrei dovettero la propria salvezza al coraggio di Guelfo Zamboni.http://www.gariwo.net/

Triglie al pomodoro

INGREDIENTI:800 gr di triglie; 2 spicchi d'aglio tagliuzzato; 300 gr di pomodori tagliati a dadini, oppure di passata; 2 cucchiai d'olio;sale e prezzemolo q.b.
PREPARAZIONE:In un tegame di coccio(in mancanza in padella o contenitore per microonde)
rosolare con l'aglio e l'olio, le triglie, girandole un paio di volte, aggiungere il pomodoro e portare a cottura,e prima di servire spolverare con prezzemolo tagliuzzato. Per chi le fà al microonde basteranno 4 minuti di cottura, ruotare 2 volte il contenitore di cottura, e fare riposare per 2 minuti a forno spento.Sullam 37


Riso Pinhas—Risotto al tonno

INGREDIENTI:500 gr. di riso basmati; 1 litro di brodo vegetale; 2 scatole di tonno sott’olio; 1 cipolla; 1 peperone; Olio extravergine d’oliva; Origano.PREPARAZIONE:
Soffriggere la cipolla, aggiungere il tonno tritato e, a piacere, un peperone tagliato a tocchetti
molto piccoli. A parte preparate il bordo. Al soffritto aggiungere, poi, il riso fino a quando non imbrunisce, l’origano e tutto il brodo in una volta.Dopo aver abbassato la fiamma non rimescolare più. Aspettare che il brodo si assorba ed iniziare a mescolare di tanto in tanto. Una volta cotto, travasare il riso per la zuppiere e lasciar raffreddare.Sullam n 37


Shislik—Spiedini di carne di manzo

INGREDIENTI (per 6 persone):1 kg. di polpa di vitello, ma si può utilizzare il pollo, l’agnello o l’anatra; 200 gr. di cipolla;2 peperoni; 2 pomodori; 2 carote; 2 zucchine; 1/2 bicchiere di olio extravergine di oliva;Foglie di alloro; Timo; Sale e pepe. PREPARAZIONE:La preparazione va iniziata il giorno precedente. Tagliare la carne a dadini lunghi alcuni centimetri, eliminando ogni parte grassa e traccia di pelle. I pezzi così ottenuti vanno messi a marinare in un recipiente con
l’olio di oliva, le foglie d’allora tagliate a metà, abbondante timo e la cipolla tagliata a fettine.
Coprire e lasciar riposare la carne per un’intera notte.Il giorno successivo preparare gli spiedini alternando la carne, le foglie di alloro, la cipolla, i peperoni, i pomodori tagliati a metà, le carote e le zucchine tagliate a tocchetti. Far cuocere sulla griglia ben calda gli spiedini, girandoli dopo alcuni minuti. Quando saranno ben cotti, salarli e peparli abbondantemente. Si usa accompagnarli con un piatto di riso bollito o con dello stufatoSullam n 37

Achille Lauro

UNA DATA DA NON DIMENTICARE

L’8 ottobre 1985, Leon Klinghoffer, paralitico, mentre compiva una crociera nel Mediterraneo, al largo delle coste egiziane, per il solo fatto di essere ebreo, venne ucciso con due colpi di pistola da Majed el Moloqui e fatto gettare in mare. Il fatto avvenne a bordo della nave Achille Lauro, che il giorno prima era stata dirottata da un commando del Fronte di Liberazione della Palestina, pilotato da terra da Abu Abbas e formato da quattro terroristi, di cui uno minorenne. Al momento del dirottamento, a bordo erano presenti 201 passeggeri e 344 uomini di equipaggio.
L’11 luglio 1986 il Tribunale di Genova condannerà all’ergastolo Abu Abbas assieme a due dirottatori: Abdellatif Ibrahim Fatayer e Hamed Maruf Al Assadi, a trent’anni, Majed el Moloqui, mentre il terrorista minorenne, Bassam Al Ashker, sarà condannato a 17 anni. Abu Abas, che, condannato in contumacia, si era rifugiato in Iraq, è stato catturato dagli americani e morirà per “arresto cardiaco”, il 9 marzo 2004, in un carcere americano a Bagdad. Majed el Moloqui verrà scarcerato “per buona condotta” (provocando vibranti proteste da parte di Lisa e Ilsa Klinghoffer, figlie dell’ucciso) ed espulso verso la Siria il 27 giugno di quest’anno. Un mese fa le autorità siriane lo hanno restituito libero alla moglie, la piemontese ex terrorista Carla Biano, sposata cinque anni or sono all’Ucciardone. Abdellatif Ibrahim Fatayer, è stato scarcerato il 9 aprile 2008 ed è ora rifugiato in un paese arabo.Ahmad Al Assadi, scontata la pena, sembra abbia cambiato identità e viva sotto copertura in Italia.Bassam Al Ashker, dopo il carcere i n Italia è tornato in Libano. dr. Paolo Colombati

La breve vita dell’ebrea Felice Schragenheim

di Erica FischerTraduzione di Daniela Zuffellato Beit Memoria Euro 32
Un nuovo prezioso tassello si aggiunge alla letteratura sull’Olocausto: è il libro della giornalista inglese Erica Fischer, “La breve vita dell’ebrea Felice Schragenheim”.Autrice del romanzo “Aimée & Jaguar” apparso per la prima volta nel 1992 e dal quale è stato tratto l’omonimo film del regista Faerboeck, in questa nuova opera la scrittrice ripropone con l’ausilio di fotografie, lettere, pagine di diario e poesie, la storia drammatica di una giovane ebrea che nata a Berlino nel 1922 morirà a Bergen-Belsen nel 1945.Appassionata di musica e di letteratura, amante dello sport nel quale eccelle, Felice viene espulsa dal liceo dopo la tragica Notte dei Cristalli e a soli 17 anni si trova ad affrontare il futuro senza l’appoggio né della madre morta in un incidente né del padre colpito da un attacco di cuore.Inizia per Felice, come per molti altri ebrei, un’esistenza di paure e clandestinità: passerà da una casa all’altra sempre nel timore di essere scoperta dalla Gestapo e troverà anche alcune opportunità per fuggire in Australia o in Palestina, incoraggiata in tal senso da amici fidati. Forse per ingenuità o per una estrema fiducia nel futuro non coglierà queste occasioni facendo prendere una svolta tragica al suo destino. Eppure prima di essere uccisa nel campo di sterminio di Bergen-Belsen, Felice vivrà un’intensa storia d’amore con Lily Wust, madre di quattro bambini e moglie di un funzionario nazista, un sentimento certamente non facile visti i tempi ma al quale la giovane ebrea si abbandona con l’intensità e l’entusiasmo che la caratterizzano. A testimonianza vi sono le poesie struggenti raccolte in questo libro che Felice scrive a Lily e le immagini che le colgono in momenti di serenità e gioia: in particolare una fotografia dell’agosto 1944 durante una gita in riva al fiume Havel dove giungono in bicicletta per fare una nuotata. Quei pochi momenti di gioia sono spazzati via dall’arrivo della Gestapo. Al ritorno dalla gita il tragico destino di Felice si compie: viene arrestata e condotta al centro di raccolta degli ebrei da dove partono i trasporti verso l’Est. Alle prime ore del mattino dell’8 settembre 1944 Felice viene deportata nel ghetto di Theresienstadt e un mese dopo viene condotta ad Auschwitz con il trasporto numero Ep-342 e destinata ai lavori forzati. Ammalatasi di scarlattina viene trasferita nell’ospedale di Tachenberg da dove può scrivere a Lily e ricevere pacchi con l’aiuto del portiere polacco Josef Golombek. Sarà poi trasferita a Bergen-Belsen ma da quel momento non giungono più notizie. Al termine della guerra “Lily si mette alla ricerca di Felice. Senza sosta corre lungo le strade distrutte dai bombardamenti, indaga, appende avvisi di ricerca con il nome di Felice….”. Ma senza alcun esito. Preziosa e indimenticabile testimonianza di quell’amore intenso e tragico rimarranno le fotografie, le bellissime poesie e gli scritti che Felice aveva dedicato a Lily: il riscatto della vita sulla morte, dell’amore sull’odio.Pur avendo vissuto un’esistenza unica e singolare, la morte di Felice è simile a quella di milioni di altri ebrei sterminati dalla ferocia nazista. Ed è proprio per dare voce a chi non ha più voce che è importante leggere un nuovo libro sulla Shoah perché, come scrive Denise Epstein, figlia della scrittrice Irène Némirovsky, uccisa ad Auschwitz nel 1942 “…. È necessario ridare la vita a tutte le vittime di questa tragedia affinché non vengano dimenticate e la produzione letteraria è sicuramente un modo efficace per farlo”. Giorgia Greco

Castello Nimrod

Firmato il primo Protocollo di Cooperazione parlamentare Italia-Israele

Oggi è stato compiuto un passo molto importante nei rapporti tra Italia e Israele: è stato firmato, dal Presidente della Camera Fini e dal Presidente della Knesset Rivlin in visita in Italia, il primo Protocollo di Cooperazione tra la Camera dei Deputati e la Knesset.Il Protocollo nasce dall’idea che la cooperazione tra Italia e Israele derivi dalla comune fede nei valori di libertà, democrazia e tolleranza, e stabilisce una serie di obiettivi congiunti tra i due Parlamenti, in cui sono stati istituiti due gruppi di collaborazione che dovranno incontrarsi periodicamente per attuare un concreto lavoro. I due gruppi si dedicheranno a un lavoro comune di progettazione e di studio, in ambito economico, amministrativo e formativo e in generale tutte le sfere che competono alla vita parlamentare.Il gruppo Italiano è formato da me in quanto presidente e da altri 6 Onorevoli in rappresentanza di tutti i gruppi parlamentari: Adornato, Polledri, Fiano, Pianetta, Vernetti e Barbareschi.Questa iniziativa è il culmine istituzionale di tante altre prese di posizione di un Parlamento che nel corso di questa legislatura non ha mai fatto mancare a Israele la propria solidarietà in un contesto invece a volte aggressivo e privo della comprensione necessaria per un paese sempre minacciato da terribili nemici: il Parlamento italiano è stato il primo a votare una mozione che impegnava il governo al ritiro dalla conferenza di Durban 2; ha svolto una manifestazione in piazza Montecitorio, cui è intervenuto anche il Presidente Fini, in solidarietà a Israele nella guerra contro Hamas; ha sostenuto la sezione italiana della Coalizione Interparlamentare contro l’Antisemitismo (ICCA) promuovendo una indagine conoscitiva sull’Antisemitismo che si avvierà a breve; non ha mai ricevuto Ahmadinejad quando ha visitato l’Italia.Questo accordo è quindi il coronamento di un lungo e particolare impegno del Parlamento italiano. 6 ottobre 2009 http://fiammanirenstein.com/

Gerusalemme - Yad Vashem

"16 Ottobre" Commemorazione della deportazione degli ebrei dall'Italia
Domenica 18 ottobre 2009 30 Tishrì 5770 Yad Vashem, Har Hazikaron, Gerusalemme
PROGRAMMA Ore 17:00 – Cerimonia nell'Ohel Izkhor Ore 17:30 – Auditorium di Yad Vashem:
SALUTI: Natan Eitan, Direttore Generale di Yad Vashem S.E.Luigi Mattiolo, Ambasciatore d'Italia in Israele. Claudia Amati, presidente dell'Irgun Olei Italia dott.Eliahu Ben Zimra,
presidente della Hevrat Yehude' Italia. Israel Debenedetti: Testimonianza sulla strage di Ferrara Mirella Nissim: Storia di un siddur tefillà
Intermezzo Musicale: Renzo Cesana, oboe Sonia Mazar, pianoforte Sarà organizzato un autobus da Tel Aviv.

martedì 6 ottobre 2009

(In questi giorni di Sukkoth .....)

Le capanne di nuvole

Durante la festa di Sukkot si abita per sette giorni in capanne precarie fatte di frasche, rami di palma e canne: si mangia in esse e, clima permettendo, ci si dorme. Per una settimana si esce dalla propria casa e ci si trasferisce nella sukkà , nella capanna. L'origine di questa festa è nella Torà, dove è scritto: Per sette giorni abiterete nelle capanne. Ogni cittadino d'Israele abiterà nelle capanne, affinché le vostre generazioni sappiano che Io, il Sig-ore D-o vostro, ho fatto risiedere i figli d'Israele nelle capanne quando li feci uscire dalla terra d'Egitto " ( Levitico 23: 42-43). La festa di Sukkot è quindi collegata con l'uscita dall'Egitto. Se è così, si sono chiesti i nostri Maestri, perché Sukkot capita in autunno invece che in primavera, la stagione in cui gli ebrei uscirono dall'Egitto? Per quale motivo l'ordine di costruirsi le capanne non si mette in pratica a Pesach, la festa primaverile che ricorda, appunto, l'uscita dall'Egitto? Si risponde che in primavera, quando arriva la bella stagione, è normale che la gente esca dalle proprie case e vada a vivere all'aperto e al fresco, al riparo di semplici capanne. D'autunno, invece, colui che va ad abitare sotto una capanna rende chiaro a tutti che l'unico motivo per cui ci sta andando è per adempiere un comandamento divino. Il Chidà (il famoso rabbino Chayim Yosef David Azulai, nato nella terra d'Israele ma venuto a vivere in Italia, a Livorno, nella seconda metà del '700) scrisse che uno dei significati della festa di Sukkot è sottolineare la precarietà di questo mondo e della nostra vita. Il mondo in cui viviamo non è che una capanna provvisoria e instabile. Non è un caso che Sukkot venga a distanza di soli cinque giorni dopo Kippur, il digiuno d'espiazione, che a sua volta capita dieci giorni dopo Rosh ha-Shanà, il capodanno che è anche il Giorno del Giudizio. Nel capodanno il giudizio è emesso per ciascuno di noi, e questo è poi suggellato nel giorno di Kippur; dunque, uscire dalla propria casa per andare ad abitare in una capanna è come dire: "Siamo pronti ad andare in esilio, siamo pronti ad accettare questo decreto, se così è stato stabilito nel Tribunale celeste, sia come singoli che come collettività". Abbiamo detto sopra che secondo la Torà il motivo per cui si abita nelle sukkot per sette giorni è per ricordare che il Sig-ore fece stare gli ebrei, usciti dall'Egitto, sotto le capanne, durante i 40 anni di peregrinazioni nel deserto del Sinai. A questo proposito c'è un'interessante discussione nel Talmud ( Sukkà 11b) fra Rabbi Eliezer e Rabbi Akivà: di che erano fatte le capanne nel deserto? Secondo un'opinione le sukkot del deserto erano delle vere e proprie capanne, fatte di canne e frasche. Secondo l'altra opinione, invece, le sukkot erano capanne fatte di "nuvole", di nuvole della Gloria Divina ( ananè ha-Kavòd ). In altre parole, secondo la prima opinione noi oggi ci costruiamo una capanna di frasche per ricordare le capanne di frasche che i nostri antenati si fecero nel deserto; secondo l'altra opinione noi, con la capanna di frasche che facciamo oggi, ci ricordiamo della sukkà fatta di nuvole, ci ricordiamo della protezione divina che accompagnava gli ebrei. Queste due opinioni non sono in realtà esclusive l'una dell'altra, tanto è vero che non si sa esattamente neanche chi dei due rabbini abbia dato questa o quella interpretazione. In effetti, la sukkà possiede sia una valenza materiale che una spirituale. Sicuramente gli ebrei nel deserto abitavano sotto capanne precarie fatte di materia, ma senza la protezione delle sukkot fatte di "nuvole divine" difficilmente sarebbero potuti sopravvivere.
Una delle caratteristiche specifiche della cultura ebraica è quella di non considerare il dominio dello spirito separato e scisso da quello della materia, bensì di fonderli insieme, di creare una sintesi armoniosa in cui il materiale è compenetrato dallo spirituale e viceversa. È questo un aspetto che ricorre in quasi tutte le mitzwot , ma che risalta in modo particolare nella festa di Sukkot. La mitzwà di abitare nella sukkà coinvolge tutta una serie di operazioni estremamente fisiche e materiali, con una notevole dose di lavoro manuale necessario per costruire la capanna, come segare assi di legno, inchiodarle, martellare ecc. Una volta fatta la sukkà , si adempie alla mitzwà entrando fisicamente, con tutto il corpo, dentro la sukkà e mangiando al suo interno. È quindi forse la mitzwà più materiale fra tutti i precetti della Torà, quella che più coinvolge il corpo e la materia. D'altra parte, però, lo scopo di questa mitzwà è di "sapere": come dice il verso della Torà citato sopra, l'ordine di abitare nelle sukkot viene dato affinché le generazioni future sappiano che gli ebrei usciti dall'Egitto risiedettero per 40 anni sotto le capanne. Altre mitzwot hanno come scopo il "ricordare", come la festa di Pesach, il precetto del talled e dei tefillin e alcune altre. Ma Sukkot è l'unica mitzwà , oltre allo Shabbat, il cui scopo è "sapere". È interessante notare che di Shabbat, per definizione, ci si deve astenere dall'operare nel mondo della materia, dal "costruire"; di Sukkot, al contrario, bisogna avere a che fare con la materia e costruire. Entrambe queste mitzwot hanno come scopo il "sapere": lo Shabbat, il giorno della non-materia, serve per sapere che D-o creò il mondo della materia; Sukkot, la festa della materia, ha come scopo il sapere che D-o agisce nella storia e nel mondo dello spirito. La materia serve per raggiungere la consapevolezza intellettuale di quanto successe più di 3000 anni fa, per sapere che noi discendiamo, in senso culturale e non necessariamente biologico, da coloro che furono liberati dalla schiavitù d'Egitto. La materia è un mezzo per un'identificazione esistenziale con la nostra storia, per entrare nei "panni" e nel corpo, per così dire, di coloro che, schiavi, furono liberati e condotti da Mosè verso la terra promessa.
David Gianfranco Di Segni http://www.morasha.it/

Giulio Meotti

Non smetteremo mai di danzare

(Ancora un articolo su questo importante libro n.r.)
Cosa accade dopo un attentato kamikaze?. Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele, in un libro del giornalista Giulio Meotti Rievocare le vittime, raccontarle come se formassero una catena esistenziale indissolubile, per me era l’unico modo per non lasciarle andare via. Leggere questi racconti è un atto di solitudine volontaria contro l’abbandono di cui furono vittime queste migliaia di giovani e vecchi, bambini e infanti, donne e uomini.” Queste parole, scolpite nell’introduzione del suo nuovo libro, danno il segno di cosa abbia significato per Giulio Meotti scrivere il suo Non smetteremo di danzare: le storie mai raccontate dei martiri di Israele (edizioni Lindau). Un libro in cui il giornalista de Il Foglio tenta di restituire un nome e una storia ad alcune fra le 1723 vittime civili israeliane di questi ultimi dieci anni di guerre e attentati terroristici; storie e nomi talvolta offuscate da un opinione pubblica spesso incline a descrivere Israele come un Paese troppo forte e prepotente per poter aver anch’esso i suoi drammi e le sue sofferenze. Pagine che appaiono come una vera e propria dedica verso un Paese nei confronti del quale l’autore non ha mai nascosto il suo amore, in un rapporto privo di ogni legame di sangue e appartenenza familiare, nato per “dovere professionale” e cementatosi col tempo grazie ad una frequentazione sempre più assidua. Meotti, qual è stata la genesi del suo nuovo libro? L’idea del libro nasce nel 2003 quando ero in Israele per un documentario e ci fu un attentato ad Haifa, la città israeliana in cui maggiormente ebrei ed arabi convivono pacificamente fianco a fianco, in cui morirono 20 persone con intere famiglie distrutte. Laggiù capii veramente quello che Israele stava passando ed iniziò un lavoro di ricerca durato 5 anni. Nel libro cerco di offrire una diversa prospettiva del conflitto, evitando di addentrarmi in disquisizioni circa le cause storiche, i torti e le ragioni; soffermandomi invece sulle storie umane delle vittime israeliane di questi ultimi anni. Racconto circa 40-50 storie, molte delle quali intrecciate fra loro. Ne esce una sorta di grande “coro greco” che credo restituisca bene quella che è la grande famiglia d’Israele, con le sue molteplici differenze ma anche con la sua indissolubile unità di fondo. Il titolo del libro. Che cosa significa non smetteremo di danzare e perché ha scelto la parola martire per descrivere le vittime d’Israele? Per quanto riguarda non smetteremo di danzare, il riferimento è alla lapide esposta fuori dal Dolphinarium, la discoteca di Tel Aviv dove nel 2001 ci fu un tremendo attentato in cui persero la vita 20 ragazzi, quasi tutti immigrati dall’ex Unione Sovietica, e anche ad un passo della Bibbia che dice “trasformerò il tuo dolore in danza”. L’uso della parola martire vuole invece rimarcare la differenza tra la concezione del martirio nell’attuale tradizione islamista, dove una persona sceglie di morire per provocare la morte di altre persone e quella ebraica dove la vita viene al contrario santificata e la morte non è mai cercata anche se messa in conto pur di garantire la sopravvivenza alla propria nazione e al proprio popolo. Nel complesso il titolo vuole sottolineare il grande ottimismo e il grande amore per la vita che continua a pervadere la società israeliana pur a fronte di così tanta sofferenza. È la grande forza d’Israele.Una delle obiezioni che qualcuno potrebbe muovere al suo libro è quella di essere entrato in profondità nel dolore generato dal conflitto ma di averlo fatto da una sola prospettiva. In fondo, anche fra i palestinesi sono morti tanti innocenti.Certamente! Ma a queste critiche io rispondo così. Nel mio libro non troverete nessuna frase discriminatoria o contro i palestinesi. Questo non è un libro contro. Non è neanche un libro che tenta di analizzare il conflitto nelle sue peculiarità. Ho voluto semplicemente narrare una parte di storia, secondo me molto trascurata dalla maggior parte dei media. Inoltre, non bisogna dimenticare che la maggior parte dei morti israeliani sono morti civili, colpiti in momenti della loro vita quotidiana da persone che avevano il deliberato intento di fare più vittime possibili: per distruggere Israele nella sua routine, per colpirlo al cuore. Cosa provava mentre scriveva?Depressione e scoramento: quando ti avvicini a così tanto dolore, a meno di non essere totalmente cinico, non puoi non rimare toccato in profondità. Sono stato accolto dalla maggioranza delle famiglie delle vittime - io che non sono ebreo e che non avevo credenziali di amicizia da presentare - senza nessuna diffidenza. E mi sono accorto che ben pochi avevano raccontato queste storie prima di me. Riportare fuori dall’oblio la storia di Lipa Weiss, sopravvissuto ad Auschwitz dove perse tutta la sua famiglia, e che, dopo essere emigrato in Israele, perse un figlio ed una nipote, ha significato molto per me. Un uomo che nonostante i drammi continua a trasmettere una gioia di vivere straordinaria. In Israele non ha mai incontrato invece, dei segnali di stanchezza o, peggio, di imbarbarimento, in una società che comunque è in guerra da più di 60 anni? No, al contrario. Nonostante i 60 anni di guerra, la maggior parte dei suoi cittadini non nutrono sentimenti di odio verso i propri avversari. Questo secondo me è un grandissimo indicatore di vitalità. E poi molte altre cose ancora: il tentativo continuo, seppur non sempre pienamente riuscito, di mantenere una sorta di purezza delle armi o la capacità di ricostruirsi una vita dopo i lutti. Sono queste le cose che fanno d’Israele un Paese vincitore, nonostante tutto. Secondo lei, arriveremo mai alla pace?Credo di sì. Il conflitto è stato sequestrato per troppo tempo da forze estranee alle parti. Penso alla Siria, all’Iran, al Jihadismo internazionale. Arriverà un momento in cui le due parti, esauste da tutto il sangue versato, capiranno che il compromesso è l’unica via perseguibile. Il lavoro da fare però è soprattutto culturale. Pensate che l’Onu aveva proposto una mozione per inserire nei libri di testo palestinesi l’insegnamento della Shoah. Hamas ha protestato e la mozione è stata ritirata. Se si continua ad utilizzare questo approccio tutto diventa difficile. Anche se, come ho già detto, io rimango ottimista. Giulio Meotti, Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri d'Israele, prefazione di Roger Scruton, Lindau, Torino, collana I Draghi, pp. 359, euro 24,00 Leone HassanMilano 30/09/09 http://www.mosaico-cem.it/

Massimo Kaufmann
Kaufmann, astratto ma non troppo

Il rifiuto ebraico delle immagini. Le origini ashkenazite. L’amore per Mark Rothko, la legge mosaica e la musica. Il celebre artista si racconta.
Mi riceve nel suo studio di via Marco Bruto a Milano con lo stesso sorriso sornione con cui lo conobbi nel 1986 allo StudioGuenzani, quando Massimo Kaufmann era uno dei talentuosi e giovanissimi protagonisti di una Milano in piena esplosione creativa, artistica, economica, una stagione dorata e irripetibile che tenne a battesimo un manipolo di artisti milanesi capaci di interpretare al meglio quel clima ottimistico e euforico, la temperie giocosa e Post-Pop di quel decennio (parlo di Stefano Arienti, Marco Cingolani, Amedeo Martegani, Mario della Vedova...). Oggi Kaufmann si divide tra Milano e lo studio di New York, città dove vive sei mesi l’anno. Classe 1963, artista e pittore celebre non solo negli angusti circuiti dell’arte contemporanea, Kaufmann mi mostra gli ultimi, giganteschi lavori, tele dal maxi formato, dittici e trittici che sta ultimando per la sua prossima mostra milanese alla galleria 1000 Eventi (ha per titolo Cecità), aperta al pubblico fino al 7 novembre 2009 (Via Porro Lambertenghi 3/t; info@1000eventigallery.it). Le sue opere hanno fatto il giro del mondo, esposte nei più prestigiosi musei, con mostre personali, collettive o nelle acquisizioni permanenti dei musei. Stiamo parlando del Martin Gropius Bau di Berlino, della Fondazione Cartier di Parigi, del Palais Liechtenstein di Vienna, nelle gallerie di Annina Nosei e Sperone nel quartiere di Soho a New York. Quadri che sono esplosioni di fuochi d’artificio che si sciolgono in un pulviscolo di colore, pennellate che irradiano dalla tela una luce di puntini iridescenti che in un ordine rigorosamente geometrico ci fanno entrare in un mondo fatto di astrazione e ornamento, un universo fatto di bizzarro rigore decorativo e caratterizzato dal rigetto assoluto per l’immagine iconica. Milanese, ashkenazita di origini polacche, Kaufmann ha frequentato l’asilo e le elementari alla scuola ebraica. Che cos’è per te l’ebraismo? La Legge. L’etica. È ciò che ho interiorizzato dalla mia famiglia. Non dalle parole quanto dai comportamenti di mio padre. Significa scegliere di fare la cosa giusta anche se non è per forza la più conveniente. Così agiva e agisce mio padre, venuto a Milano da Vienna nel 1939, mentre scappava dall’Austria avvelenata. Anche se oggi troppi scandali sembrano travolgere il mondo ebraico (quello di Bernie Maddoff, l’ultimo scandalo dei syrians di Brooklyn accusati di riciclaggio di denaro, o quello del commercio degli organi), beh un ebreo che non si comporta secondo giustizia è per me un abominio. Un ebreo non può prescindere dalle 10 Parole, i Comandamenti: è il fondamento che storicamente dà al popolo ebraico una sorta di primogenitura e che gli affida un destino. A che punto è oggi il popolo ebraico? A che punto siamo di questo cammino? È la domanda che oggi, come ebreo, a volte mi angustia. E non ho risposte edificanti da darmi.Tu sei uno dei tanti ebrei “lontani”; che cosa ti tiene legato oggi al mondo ebraico?I miei ricordi di infanzia. Vividi, legati a mio nonno che veniva dalla Polonia degli schtetl e a mia nonna nata a Bratislava, al gruppo di ebrei ashkenaziti che a Milano negli anni Sessanta frequentavano la sinagoga di Porta Romana, alla Crocetta, sopra il Teatro Carcano. Sentivo parlare lo yiddish, un po’ lo capivo, lo intuivo, era per me un idioma magico, segreto, pieno di umorismo, si facevano delle grandi risate. E poi ricordo la scuola ebraica, la morà Anita Schaumann. Eppure già all’epoca mi sentivo diverso tra i diversi, in modo acuto e a volte lancinante. Ma forse ogni ebreo si sente così.Qual è la tua identità ebraica oggi? Credo che consista nel sentirsi depositario della memoria del male subito. In questo senso oggi mi sento scosso, triste, direi infelice, per quello che accade in Italia rispetto agli immigrati. Penso ancora a mio padre: arrivò in Italia nel 1939, aveva nove anni, da Vienna. Scese dal treno a Venezia, si comprò un gelato e poi si avviò all’ufficio immigrazione. Ebbene: quello che dovette fare in termini di carte bollate e burocrazia fu infinitamente più semplice e veloce di quanto debba fare un immigrato oggi in Italia. Ci pensate? C’era allora, in Italia, nel 1939 e con le leggi Razziali, molta più facilità e oserei dire libertà di entrare nel Bel Paese per un ebreo di quanto ce ne sia oggi per un immigrato extracomunitario. C’è una peculiarità ebraica in cui ti riconosci? Forse un certo senso dell’umorismo. La capacità di vedere le cose da un punto di vista inaspettato. Ha a che fare col linguaggio, con una identità linguistica plurima. Per lo humour ci vuole un dizionario ampio. E gli ebrei ce l’hanno perché sono poliglotti. Lo humour sgorga quando si sta nel contempo dentro e fuori; è il guardare le cose dall’esterno, non fare mai parte completamente delle cose, è avere una specie di traduttore simultaneo dentro. Lo diceva anche un grande pensatore, Karl Kraus nella Vienna della finis Austriae: il destino dell’ebreo è quello di essere un balcone sul mondo, ci sei dentro ma nel contempo lo guardi anche da lontano. La tua mostra alla galleria 1000 Eventi si chiama Cecità. Perché? Per via del mio rifiuto delle immagini. Sono quadri ciechi, come dei tracciati in linguaggio braille, lavori che hanno una consistenza tattile. Mi sento come quel rabbino del film Crimini e Misfatti, il film più ebraico che abbia fatto Woody Allen: il rabbi è un uomo normalissimo, un testimone inconsapevole che diventa progressivamente, simbolicamente, cieco per non vedere il male del mondo. È testimone del male e il destino lo condanna alla cecità per non vedere il crimine, ma lo sente. Ma Cecità è anche una condizione che ci riguarda tutti, ciò che stiamo diventando tutti: ciechi per non vedere quello che accade intorno a noi, nella politica ad esempio. Kaufmann, che cos’è la creatività? È la civiltà, è l’uomo che vede se stesso e che decide di rappresentarsi. Me l’ha detto recentemente un pittore, anche lui ebreo, Eugenio Carmi. Pensa alle grotte di Lascaux, ad esempio: a quel tempo la vita era uccidere il bisonte. Ecco, la creatività nasce quando l’uomo dipinge se stesso mentre caccia il bisonte. Qual è il tuo rapporto con Israele? Amo profondamente Israele. È un Paese unico, meraviglioso. Tuttavia credo che dopo la Shoah gli ebrei abbiano assunto su di sé la ferita e l’orgoglio della vittima in un modo che rischia di farci dimenticare cosa sia l’essenza dell’ebraismo, il senso profondo e religioso di essere ebrei, la Legge, appunto. E che nell’eccesso di conservazione di sé rischia di farci dimenticare le ragioni degli altri, che sono uguali alle nostre. Qual è il legame tra il tuo essere artista e il tuo essere ebreo? Sta nella mia scelta di un’astrazione radicale. Nel mio rifiuto delle immagini a favore di una pittura fatta di segni astratti, di musicalità, di geometrie. Le immagini non sono mai state più corrotte di oggi. In questo senso mi sento vicino a Mark Rothko, forse il più ebreo di tutti gli artisti del Novecento. Liberarsi dall’immagine iconica coincide con la ricerca di una visione spirituale, con l’intuizione di un mondo superiore. Credo inoltre che la mia sia una pittura che ha bisogno di essere ascoltata, non soltanto vista. C’è una musicalità dei segni che ci può portare ben più in alto della rappresentazione delle immagini. Ma oltre che Rothko, i miei maestri sono italiani: Lucio Fontana, Manzoni, Castellani; e alcuni artisti dell’Arte Povera: Merz, Fabro, con una forte impronta spiritualistica. Non amo molto, invece, l’ebraismo raccontato alla Marc Chagall che considero un artista in realtà poco ebreo, bensì ebraico. Intendo dire che Chagall ha narrato solo il folklore, per il resto è totalmente russo, la sua pittura ha a che fare con la favola, con il racconto vernacolare, è naif, caramellosa, priva di spiritualità. È un illustratore, bravissimo, ma preferisco Rothko che cerca di dipingere l’Assoluto. La sua pittura è una meditazione intorno al divino. Quando guardi un suo quadro non sai mai se sei nel Nulla o nel Tutto, nel Vuoto o nel Pieno. E ti accorgi di essere in presenza del Mistero. I quadri di Rothko sono come portali, sono delle soglie da attraversare, verso una dimensione assoluta e di pura energia cosmica. Il colore diventa pura spiritualità e ti attrae in un’altra dimensione, è l’accesso a una rivelazione. Rothko scavava nel profondo e nel simbolico, cercava una misura aurea, la perfezione cromatica e geometrica delle forme, per questo era così attratto dai templi greci, dai rapporti matematici della musica e dell’architettura. La mia sensibilità attinge a quello stesso orizzonte di pensiero e di creatività.Ma nel contempo, forse per compensare la mia vocazione astratta, sento una forte attrazione anche per l’ornamento, per i manufatti della vita quotidiana, la texture dei tappeti, i motivi delle maioliche, i tessuti, il mosaico, la calligrafia e la scrittura come sistema estetico di segni: il disegno ornamentale come una forma di musicalità, di tessitura melodica e ritmica. Amo la pittura che si fa partitura musicale e, viceversa, la ritmicità musicale che si fa segno pittorico. Non a caso scelgo per i miei lavori titoli musicali, adagio, rapsodia, concerto grosso, allegro con brio...Fiona DiwanMilano 30/09/09 http://www.mosaico-cem.it/