venerdì 28 maggio 2010


L'antisemitismo sul web adesso prende di mira i parlamentari italiani

In Italia, la lotta all’antisemitismo sul Web inizia ad essere scomoda a molti. Se non fosse così, non si spiegherebbe perché una serie di siti Web si sono infuriati in seguito ad un servizio sul pericolo di questo fenomeno, nel mondo ma anche in Italia, trasmesso qualche giorno fa dal programma “Meridiana” di RaiNews24.L’intervista alla vicepresidente della commissione Esteri della Camera, Fiamma Nirenstein, e le parole di Stefano Gatti, rappresentante dell’Osservatorio sul pregiudizio antiebraico, sembrano aver irritato le sensibilità di tutti quegli amministratori di siti che promuovono posizioni antisemite e si augurano l’eliminazione dello Stato d’Israele. I responsabili di tali pagine Web si sono irritati al punto da pubblicare minacce e insulti – “velati” il giusto per evitare una denuncia – contro alcuni dei membri del “Comitato d’Indagine Conoscitiva sull’Antisemitismo”, a cura della Commissione Esteri e Commissione Affari Costituzionali, ma in particolare contro la Nirenstein, rea di essere ebrea.Sui siti incriminati non manca proprio nulla. Dalla negazione dell’Olocausto alle tesi complottiste sull’11 Settembre e il ruolo del coinvolgimento del Mossad negli attacchi alle Twin Towers. Lunghi sproloqui sul pericolo che rappresentano tutt’oggi gli ebrei in Europa e sul ruolo attuale dello Stato d’Israele in Medio Oriente, dipinto nel migliore dei casi come l’erede del Nazismo. Svastiche ben in vista, dunque, e continui riferimenti ai Protocolli dei Savi di Sion, un falso documentale prodotto nei primi anni del XX° secolo utilizzato per giustificare lo sterminio nazista e russo degli ebrei.“Da mesi la Nirenstein s’è messa alla testa di una vasta operazione israeliana per ridurre al silenzio i siti Internet sgraditi”. E’ quanto scrive lo scrittore e giornalista italiano Maurizio Blondet sul suo sito “Effedieffe” invitando i suoi lettori, oltre che “a pregare per la conversione alla fede cattolica” della deputata – tra l’altro, di religione ebraica –, a trovare – udite, udite – un “guerriero” o un “kamikaze” che “offra la sua vita per la salvezza eterna della Nirenstein”.Ma ce n’è un po’ per tutti. Siti come “Kelebek”, “Holywar” e “WebNostrum”, definiscono “servi”, con tanto di nome e cognome, ciascuno dei parlamentari membri del Comitato d’Indagine. Anche i mass media sarebbero complici del complotto sionista: tra questi, viene preso particolarmente di mira Radio Radicale, “sempre all’avanguardia nel sostegno del razzismo ebraico”. Per Paolo Corsini, deputato del Pd, “non si tratta solo di una minaccia e un appello all'aggressione personale, visto che ci sono le schedature di ciascun membro del comitato, ma anche alla libera iniziativa parlamentare”.“Il fatto più preoccupante – prosegue il deputato del Pdl Renato Farina – è che in questo momento c'è un incontro perfetto tra le tesi dell'estrema destra e quelle dell'estrema sinistra”, unite contro un unico obiettivo: Israele. E non solo si incontrano estremismi politici, ma anche quelli religiosi: “In alcuni siti, l’odio viene mascherato con vesti religiose, spesso adottando lo stesso linguaggio cattolico denunciato da papa Ratzinger per contrastare i Lefebvriani”.
E’ proprio per mettere fine a questo tipo di pericolose dissennatezze – che culminano poi in minacce e, talvolta, atti di vera e propria istigazione alla violenza e all’odio – che il Parlamento italiano si sta muovendo in questi giorni. “Nonostante le minacce, continueremo a lavorare – assicura la Nirenstein, presidente del comitato – non ci arrenderemo. Stiamo studiando a fondo come fermare l'odio antisemita che corre sul Web e vedremo se le leggi che esistono possono essere ritoccate”. Nel 1995, infatti, esistevano nel mondo appena 5 siti che incitavano all'odio contro Israele; dieci anni dopo se ne contano più di 8mila. “La risposta – rimarca la deputata del Pdl – non può essere solo nazionale, perché se grazie alla legge Mancino è possibile in Italia oscurare un sito che incita all'odio razziale o religioso, è anche vero che lo stesso sito può essere riaperto all'estero”. Non a caso, dalle colonne del sito di Blondet, si annuncia un prossimo trasferimento del server in Iran, un Paese definito “più libero” dell’Italia. (Forse i ragazzi dell’Onda Verde avrebbero qualcosa da dire al riguardo.)Ma che fare per arrestare il fenomeno? Sul tavolo del Comitato d’Indagine c’è, in primis, l’urgente firma e ratifica da parte del governo italiano di un protocollo del Consiglio d'Europa sulla lotta antisemita in Internet, tralasciato dal 2003 e che coinvolge oltre 47 Paesi a cooperare in questo settore. Poi, si studieranno i margini per modificare le leggi vigenti e, in particolare, la legge Mancino sulla discriminazione razziale, etnica e religiosa in modo da salvaguardare il Web dall’istigazione alla violenza antisemita. Perché se è vero che la libertà d’espressione è un diritto democratico, il linguaggio dell'odio non lo è affatto.26 Maggio 2010, http://www.loccidentale.it/


Niente sesso sotto i sedici anni in Israele, analogamente a quanto succede in molti stati degli USA, in Gran Bretagna, nel Canada, in Norvegia, in Olanda e in Finlandia.E' questa la proposta di legge che verrà discussa oggi dalla Knesset (il parlamento israeliano) e che ha come primo promotore Carmel Shama, vice presidente dell'organo decisionale.Se il provvedimento dovesse passare, sarebbe vietato fare sesso sotto i 16 anni, contro gli attuali 14, anche se i rapporti fossero consensuali. "La giovane età alla quale si inizia ad avere rapporti sessuali aumenta il rischio di danni fisiologici e mentali", ha sostenuto il deputato della forza politica Likud. Ovviamente il provvedimento non piacerà ai diretti interessati: un terzo degli adolescenti israeliani maschi tra i 14 e i 16 anni afferma di avere rapporti sessuali, contro il 23% delle femmine.Il progetto di legge per il momento non definisce la punizione per i trasgressori, lasciando margine di discrezione a seconda dei casi e dei reati commessi. C'è invece una clausola che vieta agli adolescenti di 16 e 17 anni di avere rapporti sessuali con persone di 10 anni più grandi di loro.Eccezion fatta per le ultime specifiche tutte israeliane, la normativa non è una novità e trova simili disposizioni in molti stati occidentali. Tuttavia sono molte le nazioni che stanno mantenendo il limite dei 14 anni, come Spagna, Ungheria, Moldavia, Croazia, Cile e Albania.E in Italia? Come spesso accade il nostro Paese ha una impalcatura di legge tutta sua, con diversi vuoti normativi che di volta in volta la Corte Costituzionale è andata a riempire. Attualmente, quindi, nel Belpaese è possibile fare sesso al di sopra dei 14 anni, limite che però scende a 13 se il partner ha meno di 17 anni. http://www.libero-news.it/ 26/05/2010


ospedale Hadassah vetrate di Chagall


ANGOLA, SEI BAMBINI IN ISRAELE PER OPERAZIONI AL CUORE

(AGIAFRO) - Luanda, 26 mag. - Sei bambini angolani hanno lasciato il paese per andare in Israele dove subiranno interventi di cardiochirurgia. Il viaggio e' stato possibile grazie al progetto 'Salviamo il cuore di un bambino', frutto dell'accordo tra la Fondazione angolana Lr Arte e Cultura e l'ong israeliana 'Save a Child's Heart'. Negli ultimi cinque anni gia' 48 i bambini hanno beneficiato del progetto. All'iniziativa collabora l'Ospedale pediatrico di Luanda.


Obama invita Netanyahu e Abbas alla Casa Bianca

GERUSALEMME (Reuters27 maggio 2010) - Il presidente Usa Barack Obama ha invitato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed il presidente palestinese Mahmoud Abbas alla Casa Bianca per incontri separati.Lo hanno annunciato ieri funzionari della Casa Bianca.Gli incontri con Obama saranno i primi per i leader mediorientali dall'inizio di colloqui di pace indiretti inizati il mese scorso, con l'inviato speciale di Obama, George Mitchell, come mediatore tra le parti.Ma i commentatori israeliani hanno definito l'invito a sorpresa a Netanyahu come un tentativo da parte di Obama di contrastare le critiche Usa a quello che è stato considerato un suo trattamento con freddezza nei confronti del leader israeliano dopo una disputa pubblica sul tema degli insediamenti.Obama ha fatto sapere sia a israeliani che palestinesi che non saranno considerati attendibili se entrambe le parti intraprenderanno azioni per minare i cosiddetti "colloqui di avvicinamento" che Mitchell sta mediando.


M.O./ Israele: Fermeremo navi pacifiste prima che arrivino a Gaza

Spedizione è solo "una provocazione"
Gerusalemme, 26 mag. (Apcom) - La marina israeliana fermerà le navi pacifiste della "Freedom Flotilla" prima che raggiungano Gaza. Lo hanno assicurato in serata le autorità militari, affermando che se le navi non torneranno indietro, verranno trasportate in un porto israeliano, gli attivisti rimandati a casa e gli aiuti spediti via terra a Gaza. Otto navi partite da Grecia, Turchia, Svezia, Irlanda e Algeria, con a bordo 10.000 tonnellate di aiuti umanitari e 500 persone, tra cui un gruppo di eurodeputati, si troveranno domani al largo di Limassol (Cipro) prima di dirigersi verso Gaza, dove sperano di arrivare tra venerdì e sabato, dopo aver superato il blocco israeliano. Ieri, la Turchia, uno degli sponsor politici principali della "Freedom Flotilla", ha chiesto a Israele di togliere l'assedio a Gaza e di consentire al convoglio di navi di arrivare a destinazione. Lo Stato ebraico mantiene un rigido blocco sulla Striscia di Gaza da quando il movimento islamico palestinese di Hamas ha preso il potere nel giugno 2007. "Le navi pacifiste dirette a Gaza sono una provocazione" aveva detto il colonnello Moshe Levy, alto responsabile dell'esercito israeliano, di stanza al posto di controllo di Kerem Shalom, a nord della Striscia di Gaza. "Questa spedizione (verso Gaza) è una provocazione, dal momento che la situazione umanitaria a Gaza è buona e stabile", le parole di Levy. "Non vedo il bisogno di autorizzare il passaggio di una qualunque nave".


Boicottaggio - I supermercati Coop e Conad precisano: "Nessuna volontà di discriminare Israele"

Roma, 27 mag - "Sui nostri scaffali trovate i prodotti israeliani: sono accanto ai nostri valori di qualità, rispetto e volontà di non discriminare". Così il comunicato pubblicitario a pagamento diffuso oggi nei maggiori quotidiani nazionali con il quale la Coop (analogamente alla Conad) si affretta a smentire la notizia del boicottaggio dei prodotti israeliani diffusa in questi giorni. Sull'argomento era intervenuta l'onorevole Fiamma Nirenstein che aveva presentato un'interrogazione parlamentare in sintonia con un ampio schieramento politico bipartisan. Un appello era fra l'altro stato lanciato al Premio Nobel Rita Levi Montalcini in quanto beneficiaria, con la sua Fondazione, di sovvenzioni delle Coop e all'attrice Luciana Litizzetto perché "volto" delle pubblicità dei supermercati. Sull'argomento è intervenuto anche Cesare Pambianchi, presidente di Confcommercio Roma, che ha organizzato un incontro fra l'ambasciatore di Israele a Roma, Gideon Meir e i vertici della Conad per un chiarimento sullo "spiacevole equivoco", che dovrebbe avvenire nei prossimi giorni.


Stefano
Il 9 ottobre 1982 credo di aver sentito l’esplosione che si ripercuoteva sotto i tetti di Trastevere. Di quei tempi, era normale un’esplosione. Le persone continuavano a guardarsi, sospese come in una cartolina con la scritta: “Roma, attentato”. Abituarsi faceva sopravvivere in un universo completamente illegale. Uno camminava a via della Scala, sentiva gridare ed era uno scippo; faceva una passeggiata in centro, un boato, ed era saltata in aria una sede del Movimento Sociale. Nella tarda mattinata, qualcuno sotto le finestre disse concitato che c’era stata “una bomba”, e dopo nell’aria è passata la parola “sinagoga” - non la sentivo da anni. A sentirla, e poi a sentire anche “bomba”, i miei piedi si mettono a correre. Per le scale, per piazza de’ Renzi. Ricostruisco il percorso, a piazza Trilussa c'è uno che dice "era un bambino di due anni". Passo il ponte Garibaldi, oggi non c'è quello che chiede mille lire alle auto. A via Arenula ammutolita, la gente si affaccia sul Ghetto senza entrare. Davanti alla sinagoga c’è folla. Sopra le teste, una bandiera d’Israele. Poi c’è l’inferriata, e sullo strazio i mazzi dei fiori. La gente è in silenzio, una voce grida: “Assassini”. C'è un donna in vestaglia che piange. Arriva una macchina, scende Pannella. Il pomeriggio Roma è vuota come se si vergognasse a farsi vedere. Mi avvicino alla mia edicola. Il giornalaio mi dirà qualche parola bella, è un vecchio compagno. Gli chiedo se ha saputo di stamani, del bambino. Con la testa indico i palazzi, oltre i quali c’è il Ghetto. Lui fa spalluccia sotto la giacca di pelle nera e senza scomporsi rilascia la sua opinione. - So’ tappetari. Il Tizio della Sera, http://www.moked.it/


Nuovi elementi sul coraggio di Bartali

Nel decennale della sua morte, gli organizzatori del Giro di Italia 2010 gli hanno dedicato la tappa paesaggisticamente più bella della competizione in rosa: da Carrara a Montalcino, passando per le strade bianche, polverosi sterrati che fanno pensare ad un ciclismo di altri tempi. Come sfondo di lusso, negli ultimi 40 chilometri del percorso, file di maestosi cipressi che, con la loro solennità ed eleganza, rendevano omaggio anch’essi ad uno dei più grandi campioni mai visti sui pedali: Gino Bartali, l’uomo che con la sua vittoria al Tour de France del 1948 salvò l’Italia dalla guerra civile, oppure Gino Bartali, l’eroe silenzioso che decise di opporsi al regime nazifascista mettendosi dalla parte dei perseguitati e tenendosi quella storia tutta per sé (o quasi) fino alla morte. Gli alberi dello Yad Vashem sono meno caratteristici di quelli della campagna toscana. Ma i loro rami e le loro foglie rendono il giusto onore a chi scelse il Bene quando abbracciare il Male era decisamente più facile. Tanti i nomi di salvatori italiani nel giardino dei Giusti: a breve un albero potrebbe essere dedicato anche al fuoriclasse di Ponte a Ema. Già, perché Giulia Donati, 88enne ebrea fiorentina residente a Tel Aviv dal 1974, nei giorni scorsi ha aperto il rubinetto dei ricordi e ha fatto il suo nome tra coloro che si prodigarono per strapparla alle grinfie dei persecutori. Ulteriore conferma di quello che molti già sapevano: Bartali era una staffetta della rete clandestina della Delasem e nascondeva nella bicicletta documenti di ebrei da falsificare o già falsificati, preziosi lasciapassare per la speranza di un futuro migliore. Uno di questi documenti era per Giulia, che nel 1943 si era rifugiata insieme ai familiari in una casa nei pressi di Lido di Camaiore.La notizia che è arrivata una testimonianza per Bartali si è rapidamente diffusa a Firenze e dintorni. Se ne parla al bar, nelle case, nelle stanze della Comunità Ebraica e verosimilmente se ne parla anche ai piani alti della politica: Matteo Renzi, giovane sindaco del capoluogo toscano, non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Ginettaccio e ne ha più volte ricordato i meriti extrasportivi di ciclista per la Giustizia e per la Libertà (l’ultima volta in occasione della cerimonia ufficiale che ha consegnato agli ebrei e alla cittadinanza una sinagoga finalmente restaurata e illuminata). È pertanto probabile che nelle prossime ore arrivi un suo commento a mezzo stampa. Nel frattempo Andrea Bartali, figlio del grande Gino, esterna al telefono la sua felicità: “Mi sembra che l’iniziativa partita negli scorsi mesi per piantare un albero in onore di mio padre abbia avuto un impulso molto forte da quando Pagine Ebraiche ne ha parlato in aprile. La prima testimonianza, infatti, è arrivata proprio grazie al vostro giornale. Speriamo che ne arrivino presto anche altre”.Divulgata in anteprima da Unione Informa, la newsletter quotidiana UCEI (Unione Comunità Ebraiche Italiane), la notizia che la signora Donati ha fatto il nome di Ginettaccio è stata lanciata dall’agenzia di stampa Ansa nel pomeriggio di domenica e ripresa da alcune tra le più importanti testate locali. Il possibile conferimento dello status di Giusto tra le Nazioni a Bartali ha avuto ampio risalto sulle pagine di Nazione, Repubblica Firenze e Corriere Fiorentino (con lancio in prima pagina). Per poi oltrepassare i confini cittadini e ottenere visibilità su tutto il territorio italiano. Sia Corriere dello Sport che City, quotidiano leader nella free press, hanno riportato il lancio Ansa. E il tam tam mediatico che ne è nato è stato tale da raggiungere anche il piccolo schermo: Studio Aperto, il telegiornale di Italia 1 seguito ogni giorno da svariati milioni di telespettatori, ha dedicato un lungo servizio agli ultimi sviluppi che vedono lo storico rivale di Fausto Coppi ogni giorno più vicino ad ottenere il massimo riconoscimento dello Stato di Israele. Intanto, mentre la notizia passa di bocca in bocca, alcune voci fanno pensare che a breve ci saranno ulteriori novità positive. A presto con gli aggiornamenti.Adam Smulevich, http://www.moked.it/


Invece di firmare appelli, studiamoci l’ebraico

Ancora una volta si è ripresentata la scena di sempre. Qualcuno lancia un testo da firmare, altri lanciano contrappelli. Poi parte una discussione infinita. Ci sono buone ragioni che stanno in tutti i testi, sia quello promosso da Alain Finkielkraut e più noto come JCall, sia quello promosso da Pierre André Taguieff e Shmuel Trigano, nonché la versione italiana di quest’ultimo proposto da Fiamma Nirenstein, Giuliano Ferrara, Paolo Mieli. Il rischio della scomparsa di Israele, della minaccia nucleare che lo sovrasta, è reale. Il rischio di una classe politica inadeguata, quello di una situazione bloccata, sono altrettanto reali, E’ anche reale il fatto che la Diaspora deve assumere la propria responsabilità. Dunque perché non firmo? Perché il compito della Diaspora non è quello di darevoti a qualcuno, bensì quello di misurare con gravità le proprie lacune e carenze e di comprendere come “dare una mano” per essere consapevolmente e responsabilmente nella storia. Il rischio della scomparsa di Israele rende manifesto un fatto: ciò che è messo in dubbio è la capacità degli ebrei della Diaspora di produrre cultura ebraica e lo è perché oggi Israele è non solo la realtà che produce cultura ebraica, ma che la produce attraverso uno strumento che è universalistico, ovvero una lingua ebraica viva. Pensare di essere dei soggetti attivi e non solo dei supporter significa far parte del club di coloro che la usano e con quello strumento, creano qualcosa. O almeno, più modestamente, ci provano. Prima di dire di quale parte politica si è supporter, occorre dare una risposta a questa questione. Non si è più a fianco di Israele se si fa il tifo per Netanyahu, per Tzipi Livni o per l’area della pace. Gli uomini e le donne passano. Ma la macchina culturale non può decomporsi. La Diaspora non esce d’obbligo se dice con chi sta, bensì se diventa parte attiva, anche parziale, di un processo di produzione culturale. Questo aspetto è tanto più vero se si considera un fatto, apparentemente paradossale: senza Israele l’ebraismo religioso forse può sopravvivere, quello laico no. Per questa ragione è fondamentale che una parte consistente del mondo ebraico acquisisca uno strumento per studiare, riflettere, sapere. Uno strumento che non serva “per fare qualcosa”, ma per raggiungere la consapevolezza e crearsi un’opinione sulle proprie decisioni intorno all’identità. Prima ancora di essere uno strumento per un sapere libresco, la conoscenza dell’ebraico è una chance per riflettere sulla propria identità e per decidere chi si sia: in autonomia, responsabilmente, con cognizione di causa. Ciò detto entriamo nella questione. La storia ebraica è una storia di centri produttivi che nel tempo ed in luoghi diversi hanno disegnato la fisionomia di ciò che oggi chiamiamo la “cultura ebraica”. In ogni fase storica c’è stato un centro che ha ereditato il patrimonio culturale (o almeno una parte) o lo ha “riscritto”, incrementato e sviluppato. Un centro pensato per molte realtà diffuse per una rete che non era solo unidirezionale, dal centro verso le lontane periferie. In forma disomogenea, squilibrata, incerta anche le periferie contribuivano a pensare e a produrre sapere che quel centro riadattava, metabolizzava, accoglieva o marginalizzava. La storia ebraica, intesa come storia della produzione culturale, è l’atlante storico dei luoghi che nel tempo hanno prodotto in forma discreta - con salti, vuoti, differenze - ciò che con molta approssimazione noi chiamiamo “cultura ebraica”. Nella dispersione quei luoghi sono stati collocati in più punti e in tempi diversi. Un rapido elenco ne include vari: Babilonia, Alessandria d’Egitto, Cordova, Alsazia, Italia, Polonia, Stati Uniti, Israele. In mezzo ci sono molti luoghi che rappresentano nodi problematici in cui si sono consumate vicende singolari che hanno lacerato e riscritto le identità di un tempo: Amsterdam, Berlino, Istanbul, Chicago, Livorno, Padova. Accanto c’è tutta la questione dei marrani, una vicenda che è culturale e non solo l’indagine sull’albero genealogico. Ogni volta il centro successivo era in grado di ereditare la funzione di nucleo produttivo perché la lentezza del processo di distruzione e di dispersione consentiva passaggi di saperi, di testi, di gruppi umani. In breve la continuità era consentita e garantita da un sistema di rete. Dunque, una diaspora che si ponga il problema di come scongiurare la minaccia all’esistenza deve avere anche consapevolezza di partecipare a una produzione culturale. Per questo non si tratta di “fare il tifo” per qualcuno, ma cercare di dotarsi degli strumenti per essere una voce in qualcosa. Questo significa impegnarsi sul piano della produzione culturale, investendo risorse ed energie anche sul piano della conservazione dei beni culturali (che significa digitalizzazione, riproduzione). Il futuro ebraico esisterà solo se ci saranno uomini e donne in grado di produrlo e di leggere e capire ciò che rimarrà, ma anche se da qualche parte si crea un deposito di testi, documenti, di beni culturali che non “andranno in fumo”. Beni leggibili da una collettività pluralista, interculturale e non solo multiculturale. Riflettere sulla condizione ebraica di domani, agire per garantire la continuità non è solo conseguente a una scelta di schieramento politico. Non sostengo, né ritengo, che la dimensione politica sia inessenziale. Ma la concentrazione di tutte le energie solo su quella scelta ha significato, soprattutto per le Diaspore, non riflettere né impegnarsi su altri campi, non meno essenziali. Questi non sono solo altrettanto rilevanti, ma decisivi, se il tema che ci riguarda e ci coinvolge è quello relativo al futuro culturale e a una possibile condizione di produttori e non solo di consumatori.David Bidussa, storico sociale delle idee, Pagine Ebraiche, giugno 2010


Cesarea

Fino all'età di 62 anni mi sono rifiutato di visitare la Germania. Ho fatto di tutto per evitare di acquistare prodotti tedeschi. Posso ben dire, nel mio piccolo, di avere boicottato la Germania. Poi mi sono convinto che le condizioni storiche e culturali che giustificavano quelle scelte, anche per l'avvicendamento delle generazioni, erano cambiate. Ho visitato Berlino e non ho problemi a guidare un'autovettura prodotta in un altro paese su una piattaforma concepita in Germania. Il boicottaggio di un prodotto è un fatto legittimo quando riflette la scelta personale di un consumatore. Lo è meno quando segue la scelta politica delle organizzazioni di distribuzione, anche se velata attraverso fumosi comunicati stampa. Il boicottaggio oggi va anche capito per quello che è realmente: se un particolare frutto di pompelmo è stato colto in Cisgiordania, il seme è stato elaborato nei laboratori della facoltà di Agricoltura a Rehovot, ben al di qua della linea verde, il lavoro di sterro lo ha fatto un operaio palestinese, l'autocarro per il trasporto dei frutti magari lo ha prodotto l'IVECO, e la benzina è stata acquistata in Egitto. Ciò che è stato realmente boicottato è un certo albero, e tutti coloro che vi hanno lavorato attorno. Rammentiamo ai boicottatori che nel 2008 Israele ha esportato in Italia per 1.669 milioni di dollari, ma ha importato per 2.554 milioni, con un eccedente a favore dell'Italia di 885 milioni. Per avere i mezzi per comperare bisogna anche poter vendere.Sergio Della Pergola,Università Ebraica di Gerusalemme, http://www.moked.it/


Il premier palestinese Fayyad spinge a boicottare i prodotti israeliani

Ramallah, dall'Intifada alla finanza

Premier palestinese Fayyad lancia il boicottaggio di prodotti israeliani «Una nuova resistenza: colpisce i nemici e giova ai nostri mercati»
LUCIA ANNUNZIATA, 28/5/2010, http://www.lastampa.it/
RAMALLAHA Hebron, l'ultima fabbrica di kefiah, il leggendario copricapo a scacchi neri e bianchi dei Palestinesi sta per chiudere. L'ultima fabbrica di kefiah soccombe lentamente davanti alla Cina che ha invaso il mercato di kefiah stampate invece che cucite a mano. D'altra parte l'economia della Palestina è cresciuta, nel terribile anno scorso, del 7%, non male per un Paese che non ha nemmeno sovranità nazionale. Su questa transizione fra identità frantumate e globalizzazione, all’inizio dell’ennesimo giro di colloqui fra Israele e Autorità Palestinese, cerca di spiccare il salto verso la leadership nazionale della Palestina un uomo che non è né di Hamas, né di Fatah, che non viene dai ranghi di nessuna delle Intifade precedenti, un tecnocrate, ex Banca Mondiale, di cui Obama, come dicono qui, «parla come delle sue figlie ». È il primo Ministro Salam Fayyad, che sta lanciando un’Opa sul futuro del suo popolo con un programma innovativo, di grande incertezza, che si può racchiudere in una sola fase: trasportare i Palestinesi dal mitra alle regole del Fondo Monetario. Che questo uomo abbia successo o meno, il tentativo basta a illustrare a che bivio si trovi la politica della Cisgiordania. Val la pena di cominciare, nel racconto di questa fase, dalla più recente iniziativa presa dal Primo Ministro. Tre mesi fa il governo dell'Autorità Palestinese ha lanciato un boicottaggio dei beni di consumo prodotti negli insediamenti israeliani. Si sottolinea qui insediamenti, perché il commercio con lo Stato di lsraele è legale in quanto riconosciuto dagli accordi internazionali fin qui firmati. Gli insediamenti invece sono illegali e sono infatti oggi il principale oggetto del contendere. Sono ormai 177 e hanno fiorenti attività, il cui maggiore mercato è proprio la Cisgiordania araba nel cui fianco sono collocati. Non si parla di piccole cifre. Il ragionamento del governo di Fayyad è conseguente: se illegali sono i territori, rendiamo illegali i loro prodotti. Una campagna che è partita, per altro, in vari Paesi europei. C’e un apposito istituto, Karameh, fondato dal governo per guidare e implementare questa campagna: il fondo iniziale per la sua attività è stato di 1,5 milioni di dollari, raccolti in buona parte dal settore privato. La battaglia non è esattamente di principio. Se il commercio di Israele con gli ex Territori è preponderante, con 2 miliardi annui, quello degli insediamenti vale comunque 500 milioni di dollari annui. In più in queste città ebraiche in Palestina lavorano almeno circa 25 mila arabi, in condizioni di illegalità. Gli insediamenti producono di tutto, come si vede da un pamphlet stampato da Karameh, per far riconoscere alla popolazione i prodotti da sabotare: frutta, latte, computer, telefonini, mobili e, soprattutto, materiale di costruzione. I negozi arabi vengono visitati a uno a uno dagli ispettori di Karameh, ogni settimana ci sono grandi fuochi per distruggere il materiale sequestrato, dove in giacca e cravatta si affaccia regolarmente anche il Primo Ministro, che fa il suo simbolico lancio. Ci racconta Ghassan Khatib, stretto collaboratore di Fayyad e suo portavoce: «L'idea è quella di trovare un differente modo di fare resistenza. Invece delle armi, noi abbiamo individuato protesta pacifica, che si intrecci con lo sviluppo delle strutture del nostro futuro Stato». La protesta «è legale, in quanto non contro Israele, ma può far male agli insediamenti. Nel frattempo questo boicottaggio apre nuove opportunità al nostro settore privato, che ha così modo di sviluppare il mercato interno». Questo è il progetto di Fayyad. Uscire dalle secche della vecchia resistenza armata, e fare una politica che, anche nella protesta, aiuti il progetto di «costruzione dello Stato», cioè delle infrastrutture nazionali: «Case, banche, strade, servizi, fogne, questo programma da oggi fa della Palestina un grande cantiere con grandi opportunità per tutti». Ma è anche un’idea politica, dice ancora Khatib: «Quando lo Stato sarà pronto, chi potrà negarcelo? La comunità internazionale certo ci aiuterà». Ma è realistico, questo approccio? E' popolare? Soprattutto, è condiviso dai partiti politici, Fatah - per non dire Hamas? Qui si arriva al vecchio serpente palestinese, quello strisciante istinto alla divisione, allo scontro interno, che da sempre divora e paralizza la politica di questo popolo. Prima forse val la pena guardare all’efficacia delle cose fatte da Fayyad e alla sua biografia, per capire bene in che contesto si muove il dibattito politico in corso. Il Primo Ministro, nato nel 1952 vicino a Tulkarem, si laurea all'Università americana di Beirut, prende un Mba all’Università di Austin, Texas, insegna in Giordania, viene chiamato alla Banca Mondiale (1987-1995) e poi, fino al 2001, è il rappresentante palestinese al Fondo Monetario. Quando torna nei Territori, come direttore della Arab Bank, la seconda Intifada è già finita, lui non ha nessun cursus honorum nella «causa»,ma se ne trova ben presto uno, in una maniera che dice molto su come funziona la politica qui. Quando, tra il marzo e il maggio del 2002, Arafat è messo sotto assedio, Fayyad va a trovarlo, come molti altri - ma a differenza degli altri rimane con lui per tutto il tempo, unico della società civile a fare questo gesto. La mossa è fruttuosa. Un Arafat che alla fine del suo regno è messo sotto pressione dalle critiche delle organizzazioni internazionali sulla corruzione e la mancanza di trasparenza nel suo governo, sceglie proprio il direttore di Banca per mettere ordine nella casa finanziaria palestinese. Da allora Fayyad ha mantenuto il ruolo di Ministro delle Finanze in quasi tutti i governi, spesso attaccato dalla sua stessa parte politica, certamente attaccato da Hamas, che lo considera un filoamericano. Primo Ministro brevemente nel 2007 dopo la rottura con Hamas, è oggi di nuovo in carica dal 2009. Per il suo insediamento il congresso americano ha dotato l’Autorità Palestinese di 200 milioni di dollari. In cambio Fayyad ha presentato il suo programma di ricostruzione dello Stato Palestinese, secondo le regole del mercato e delle autorità internazionali, come il Fondo Monetario. Aggiungono in coro i suoi amici e nemici, «visto che il Presidente Abu Mazen è un vero debole, oggi Fayyad è il solo uomo che conta in Palestina». Val la pena però di andare a vedere se la ricetta di Fayyad sta funzionando. Lo stato delle cose ci viene illustrato da Jihad Al Wazir, Governatore della Banca Centrale Palestinese, istituzione nuovissima, la cui solo esistenza è in sè la prova delle novità. La Banca Centrale non ha ancora questo nome (ufficialmente è Autorità Monetaria Palestinese) perché lo Stato Palestinese non esiste, ma nello studio impeccabile del Governatore si vedono già alle pareti le bozze della nuova moneta nazionale. Forse si chiamerà «pound palestinese», dice, come durante il Protettorato Britannico. Al Wazir ci parla subito del suo primo intervento: il consolidamento delle banche, passate da 50 a 19 in un anno, e il microcredito aperto nelle zone rurali. Per quanto riguarda la crescita economica, i dati forse più rivelatori riguardano il rapporto nella formazione del bilancio dello Stato fra donazioni e attività produttiva: «Nell'ultimo anno questo rapporto ha visto scendere il peso delle donazioni del 30%, compensato dal contributo locale ». Questo significa che c’è business e che lo Stato è in grado di organizzare la raccolta delle tasse. L’altro risultato è la formazione di ranghi statali: oggi la Palestina ha 160 mila dipendenti, comprese le forze di sicurezza. «E la sicurezza, come si sa - dice il Governatore - è il prerequisito per ogni investimento». Queste cifre si riflettono bene in un solo sguardo alla capitale, Ramallah. Un ex villaggio divorato oggi da un incredibile boom di grattacieli, palazzi di uffici, condomini di lusso, nuovi quartieri, caffè e locali vari, che le hanno meritato la fama di «piccola città che non dorme mai». Proprio uno di questi locali, «Pesto», dove si riunisce la borghesia locale, ci conferma l’ottimismo della comunità economica Samir Huleileh, executive manager di Padico, la «Palestine development and investiment Company» che fa a capo a Munib Masri, il più ricco arabo dei Territori. Huleileh è un giovane cresciuto nella politica palestinese, e la sua approvazione prende subito questa angolazione: «Il vero passo avanti che Fayyad ci ha fatto fare è la riconciliazione fra politica e affari. Per lungo tempo in Palestina le due cose erano in contrasto. Non per ragioni morali, ma politiche: fare affari, agli occhi della Resistenza, ha sempre significato mettere in secondo piano la lotta per l'indipendenza nazionale». Spiega Mahdi Abdul Hadi, direttore dell'istituto di studi Passia, e forse l'analista più sincero degli affari interni del Paese: «Nella nostra politica si mischiano, e si condizionano, cinque elementi: Fatah, Hamas, la società civile, Abu Mazen e Fayyad. Il risultato finale uscirà dall'impatto di questi elementi fra di loro ». Il parere della politica su Fayyad, dice Mahdi, è questo: «Hamas considera il Primo Ministro un uomo degli americani, e su di lui ha posto il veto. Fatah non lo vede certo bene: ci sono troppe ambizioni per raccogliere l’eredità di Arafat, e ci sono ancora i vecchi signori dell’Olp che mantengono le loro zone di influenza, stanno a guardare Fayyad ma non si pronunciano». Uno dei potenziali competitor di Fayyad per l’eredità di Arafat è il nipote stesso del vecchio leader, uomo di Fatah, ex diplomatico a lungo in Usa, molto interno al partito, nonché presidente della Fondazione Arafat. Nasser Al Qudwa ci riceve nel suo ufficio, anche questo impeccabile e moderno. Dello zio ha solo le palpebre. Ma, a parlargli, si rivela erede anche dell'astuzia veloce. «Fayyad - dice - sta facendo uno straordinario lavoro da Ministro dell' economia, ma involontariamente, e sottolineo questo aggettivo, la sua posizione può offrire il fianco ai nostri nemici». Meglio detto: «La sua non è una posizione politica. La costruzione dello Stato va bene, ma non può venire prima della conquista dello Stato». È, insomma, la divisione fra politici e tecnocrati, con i primi che spingono per la supremazia delle «visioni» e gli altri che credono nell’inflessibile capacità delle regole e dei numeri. Forse, come spesso succede nella nostra società ai tecnocrati, si rivelerà presto che le intenzioni buone di chi maneggia i numeri sono buonemanon sufficienti a governare.

giovedì 27 maggio 2010



soldatesse israeliane


Ciao Chicca,Devo sfogare il nervoso che mi prende quando mi trovo di fronte alle prese per i fondelli…Circa un anno fa, osservando in un supermercato un prodotto della serie “commercio equo e solidale” che si trova un po’ in tutti i supermercati, ho visto un bellissimo “MADE IN PALESTINA”. Volevo rivolgermi al nucleo antisofisticazioni della Guardia di Finanza e all’associazione consumatori, ma ho finito per non fare nulla, nel timore di creare problemi a qualche poveraccio magari semplicemente sprovveduto.E oggi la COOP, che vende tali prodotti, si trincera dietro il problema della tracciabilità…!!! IPOCRITI. Non è sufficiente non andare alla COOP… anzi bisognerebbe andarci appositamente e nel caso di reperimento di un prodotto MADE IN PALESTINA fare le dovute denunce e un bel articolo sul giornale..Vista la faccia tosta potrebbero sempre dirmi che è un prodotto semplicemente scaduto dal 1948.!!!Un abbraccio Silvia


Israele, un evento per attrarre investitori stranieriIl Paese è a quota 3 milioni di arrivi internazionali

Attualmente gli arrivi internazionali in Israele sono circa 3 milioni, ma l'obiettivo dell'Ente è di arrivare a quota 5 milioni. "Per farlo abbiamo bisogno di investimenti, ad esempio sul fronte alberghiero, dove tra le catene internazionali sono presenti soprattutto gli americani, ma solo 2 o 3 nomi europei", fa presente Tzvi Lotan che insieme a Maria Concetta Patti ha presentato l'imminente meeting Federviaggio che si terrà in Israele.E il direttore anticipa anche un evento che dovrebbe tenersi nel Paese all'inizio di dicembre: "Israel, where else? Sarà una convention dedicata ad Europa ed Usa, con rappresentanti dal tour opetating, dagli hotel, possibili investitori, per sviluppare l'industria turistica nel Paese". 25/05/2010, http://www.guidaviaggi.it/


Kefar Giladi 1916

"La Coop dovrebbe pensare alla pace economica fra Israele e Palestina"

Intervista a Shimonal Alchasov
di Roberto Santoro 26 Maggio 2010http://www.loccidentale.it/
La Coop e la Conad sono state invitate da un gruppo di Ong e associazioni (Attac, Pax Christi, Federazione della Sinistra, Fiom Cgil, Forum Palestina, Un Ponte Per, Ebrei contro l’occupazione, Donne in Nero) a togliere dai loro scaffali le derrate agricole israealiane importate dalla società Agrexco, perché provenienti dai Territori della Giudea e della Samaria. Ne parliamo con Shimonal Alchasov, direttore amministrativo dell'azienda israeliana, convinto che una scelta del genere finirebbe per influenzare negativamente la "pace economica" in Medio Oriente.
Dottor Alchasov, Coop e Conad smentiscono di aver indetto un "boicottaggio" ai danni di Israele ma sono state pesantemente attaccate da alcuni politici italiani
Preferirei non parlare di politica. Lavoro dal ’73 in Agrexco, ho vissuto in Francia e anche nel vostro Paese. La nostra azienda si occupa di esportare derrate agricole che vengono da produttori ebrei, cristiani, musulmani. Noi pensiamo alla qualità del prodotto, non alle questioni politiche.Coop e Conad effettivamente sostengono di voler evitare che sugli scaffali arrivi merce non etichettata e di cui, dunque, non si può stabilire l’esatta provenienza e qualità Le dico una cosa: la nostra azienda esporta molto prodotti in Italia, dai pompelmi all’avocado, ma la quantità di merce che arriva da quelle che Lei ha definito “Colonie” si aggira intorno allo 0,4 per cento del totale. A parte qualche erba aromatica, onestamente mi sembra di poter dire che nel vostro Paese non arrivano derrate agricole coltivate nei territori di Giudea e Samaria.Allora perché tanto clamore?Conad o Coop sono aziende che hanno un grosso giro d’affari e non mi stupirebbe se alla fine scoprissero di non aver neppure comprato uno dei prodotti “incriminati”. Il rischio per loro è che da qui in avanti ogni risposta che daranno sull’argomento si presterà a pericolose strumentalizzazioni.Il senatore Furio Colombo ieri ha detto che il linguaggio di Coop e Conad è “ipocrita” e ricorda “le scuse usate dai nazisti per perseguitare gli ebrei”So che la Coop ha una lunga storia nell’economia italiana e che si è sempre impegnata a fondo per tutelare i consumatori. Non credo che la decisione presa dai gruppi italiani sia stata un pretesto per nascondere chissà cos’altro… mi è sembrato piuttosto un errore di ingenuità.Come uscire da questi fraintendimenti?
So solo una cosa avendo vissuto in Italia. Il vostro non è un Paese razzista. E in ogni caso l’Unione Europea prevede il divieto di ogni forma di boicottaggioSi parla tanto di “pace economica” fra israeliani e palestinesi. Fatti del genere non rischiano di complicare le cose?
Se Coop e Conad decideranno di non richiedere più i nostri prodotti noi non glieli invieremo. Ma la verità è un'altra: gran parte del nostro personale parla arabo ed è palestinese. Se i nostri prodotti non saranno più esportati significa che anche molti palestinesi perderanno il lavoro e questo potrebbe spingerli tra le braccia del terrorismo.Qual è la soluzione allora?Non c’è pace senza un'economia che funziona.


Per il romanzo “La Sposa Gentile”A Lia Levi il Premio Alghero Donna 2010

L’8 maggio al Teatro Civico di Alghero è stato consegnato alla scrittrice Lia Levi il Premio Alghero Donna 2010 (narrativa) per il suo romanzo “La Sposa Gentile” edita da E/O. Per il settore poesia il premio è andato a Gabriella Sica “Le lacrime delle cose” (ed. Moretti & Vitali) e per il giornalismo a Paola Saluzzi, conduttrice di Sky Tg 24.





Golan

Stop ai prodotti dei coloni il Pd filo-Israele attacca le coop

Repubblica — 26 maggio 2010 ALBERTO D' ARGENIO
ROMA - Il Partito democratico si schiera contro le cooperative rosse e definisce «inaccettabile» il boicottaggio dei prodotti israeliani da parte di Coop e Conad. Una condanna che insieme a quella del Pdl colpisce la scelta delle due grandi catene - le quali per la verità negano - di aver tolto dagli scaffali dei loro supermercati i prodotti di Agrexco, la società d' export controllata dal governo israeliano contro la quale è in corso una campagna mondiale per la mancanza di tracciabilità dei prodotti coltivati nei territori occupati. In una lettera aperta alle due cooperative i filoisraeliani del Pd guidati da Emanuele Fiano - direttore nazionale di Sinistra per Israele - si dicono «molto colpiti della notizia», perché un boicottaggio non fa altro che dare luogo a «strumentalizzazioni». E ancora, chiedere solo a Israele di indicare l' area di provenienza di una merce «è una scelta ideologica e discriminatoria da respingere». Una polemica scoppiata anche in Parlamento. Roberto Della Seta, senatore del Pd, parla di decisione «strabica». Gianni Vernetti dell' Api è ancora più esplicito: «È un fatto di una estrema gravità che denota una cultura razzista che ritenevo estranea al movimento cooperativistico». E il Pdl con Fabrizio Cicchitto e Fiamma Nierenstein chiede che ad essere boicottati siano i due giganti della distribuzione, mentre il loro collega di partitoe socio Coop Enzo Raisi annuncia che restituirà la tessera contro una scelta «razzista». L' unica voce fuori dal coro è quella del democratico Sandro Gozi, secondo il quale questa protesta contro gli insediamenti illegali «è un' iniziativa pacifica e non violenta con la quale Israele dovrebbe confrontarsi». In serata Conad ha respinto le accuse di boicottaggio, spiegando che l' unico prodotto sparito dagli scaffali è il pompelmo, che non è più di stagione. «Quando la stagione riprenderà - è stato spiegato - le forniture proseguiranno regolarmente». Le richieste di informazioni su questo prodotto - aggiunge Conad - sono solo tese a proteggere la salute dei consumatori e non a bollarlo come proveniente dalla Cisgiordania. Diversa la replica della Coop, che ha negato il boicottaggio ma ha confermato di avere chiesto la sospensione delle merci potenzialmente provenienti dai Territori per verificarne l' origine ed eventualmente etichettarla: «Spetta eventualmente ai singoli consumatori» decidere se comprarli o no. Come dire: se poi saranno i singoli a boicottare, noi non ci possiamo fare niente. Su questo punto Israele ha replicato che origine e identificazione dei prodotti esportati da Agrexo sono conformi alle regole Ue. - ALBERTO D' ARGENIO


I boicottaggi? Hanno fatto grande Israele

di R.A. Segre, 26 maggio 2010, http://www.ilgiornale.it/
Col boicottaggio Israele è abituato a convivere sin da prima della creazione dello Stato quando ancora al tempo del Mandato britannico, le merci degli ebrei di Palestina erano boicottate dalla Lega araba, fondata nel 1944. In tempi più recenti si è aggiunto il boicottaggio delle università israeliane da parte di università inglesi - ultimamente sudafricane - e una campagna per il ritiro degli investimenti fatti da fondi di pensioni inglesi o scandinavi, o dalle Chiese protestanti nel corso di un’estesa campagna anti israeliana modellata su quella contro l'apartheid sudafricano.Per quanto irritanti, queste forme di boicottaggio non solo non hanno avuto effetto ma hanno prodotto quello contrario, stimolando l'iniziativa di un piccolo paese che per motivi strategici ha fondato la sua politica sul principio della qualità contro quantità. Altre ragioni hanno contribuito a far fallire il boicottaggio arabo. Ad esempio la condanna di molti governi, Italia inclusa, di accettarlo. D'altra parte è difficile mantenere il boicottaggio contro uno Stato che con sette milioni di abitanti ha un commercio estero superiore a quello di tutti i 21 Stati arabi (petrolio escluso) messi assieme e si trova al terzo posto mondiale (dopo Stati Uniti e Cina) in fatto di creatività industriale. (Senza il pentium israeliano nessun computer funzionerebbe). L'arma anti israeliana del boicottaggio quasi universalmente spuntata sembra invece paradossalmente funzionare quando è usata dagli ebrei ortodossi in Israele e da fuori di Israele. Sono stati loro a far scomparire dalle fermate degli autobus in Israele la propaganda di abiti, lingerie, cibo, gioielli promossi con foto di donne anche se solo un po’ scollate. Sono stati loro a imporre alla società aerea nazionale di non volare nei giorni di sabato religiosamente festivi; a bloccare il movimento delle linee nazionali di autobus (all'infuori della città «rossa» di Haifa) e dei trasporti ferroviari nei giorni in cui la Bibbia - e l'interpretazione rabbinica - impone il riposo. Il che non ha certo fermato - e in molti casi aumentato - gli spostamenti in auto dei privati, o l'allargamento del numero dei negozi, ristoranti e luoghi pubblici che in base alla differenti autonomie municipali, restano aperti il sabato. Ci sono però stati altri casi in cui il boicottaggio degli ortodossi ha dimostrato la sua forza. Per esempio il boicottaggio, accompagnato da manifestazioni e lanci di pietre, contro il laboratorio a Gerusalemme del gigante tecnologico Intel, (vitale per l'economia israeliana) terminato con un compromesso che permette solo a personale non ebreo di lavorare il sabato. È facile comprendere da dove nasca la «forza d'urto» economica degli ortodossi. È la forza che nasce da un’assoluta obbedienza della comunità ultraortodossa - quella che in ebraico si chiama dei Haridim (i pii, i tremanti di fronte al volere divino) - alle decisioni dei loro rabbini, anche se il loro peso economico non supera il 10%. È però una percentuale che ha effetto, se diretta contro una specifica istituzione economica, bancaria, industriale aperta alla logica della concorrenza. Ma cosa succede quando il tribunale rabbinico di uno dei segmenti più religiosamente radicali dell'arcipelago religioso israeliano sfida la Borsa. Ordinando, ad esempio, di investire dalle società quotate in Borsa, in Israele. Un libretto di «istruzioni per l'uso» distribuito recentemente dal Badatz - l'alta autorità giuridica ultra ortodossa - spiega che è proibito detenere o comprare azioni collegate con «strumenti di investimento, specialmente fondi di pensione, che traggono profitti dal commercio nel sabato o persino - che Dio non voglia - il giorno di Kippur o da canali televisivi pieni di sudiciume e pubblicità oscena... in cui sei inconsciamente parte». Il libretto continua specificando che attratti da promesse di alti guadagni si diventa senza saperlo coinvolti in società sussidiarie a peccaminose di fondi di investimento. Menziona ad esempio, la grande compagnia di cemento Nesher, quella dei trasporti aerei cargo Maman «che operano di sabato come se fossero giorni feriali» e persino «azioni innocenti» della Banca Leuni partner nella catena di mode Fox... o Strauss che con la Coffee Togo opera di sabato». Secondo un’inchiesta condotta da una società di pubblicità ortodossa, questo settore della popolazione israeliana controlla capitali di risparmio e investimenti del valore di 500 milioni di dollari all'anno. Saranno sufficienti a piegare il «mostro» della Borsa? È tutto da vedere anche se le perdite registrate nel corso del mese e che gli economisti legano a cause internazionali stanno convincendo non pochi ortodossi che anche in questo campo di battaglia il Signore sa da che parte stare.


La barba di Herzl

Alquanto in sordina, nel nostro Paese, è passato il centocinquantesimo anniversario (2 maggio) della nascita di Theodor Herzl. Eppure, se c’è un uomo di cui si possa dire, senza tema di smentita, che abbia “fatto la storia” (smentendo la pessimistica considerazione di Braudel, secondo cui l’uomo si illuderebbe di poter “fare la storia”, in quanto sarebbe sempre, al contrario, la storia a “fare gli uomini”), questi è sicuramente lui. E, l’ha fatta, diversamente da tutti i grandi condottieri e regnanti, di tutti i tempi (i vari Cesari e Napoleoni, per non dire Hitler, Stalin ecc.), con la sola forza della fede, del pensiero e della parola, senza mai ordinare che si compisse un solo atto di forza o che si versasse una sola stilla di sangue.Come illustrato in un articolo di David Tarkover, apparso in un inserto speciale di Haaretz, pubblicato il 30 aprile, in occasione dell’anniversario, il padre del sionismo divenne una leggenda vivente già nel corso delle sua breve vita, diventando oggetto di uno straordinario culto della personalità, e la sua immagine fu riprodotta infinite volte, sugli oggetti più disparati (quadri, arazzi, tazze, tappeti, pacchetti di sigari, orologi, medaglie ecc.), come simbolo del nuovo ideale che infiammava gli animi degli ebrei di Europa, da Londra a Parigi, da Varsavia a Odessa a San Pietroburgo. Spesso tali ritratti non erano di altissima qualità, ma la loro esecuzione era facilitata dal fluente barbone di Herzl, la cui riproduzione non lasciava margini di dubbio sull’identità del personaggio effigiato, cosicché sovente gli artisti procedevano, semplicemente, col tratteggiare una grande barba nera, limitandosi a pochi lineamenti approssimativi per il resto del volto. Il ritratto di Herzl, così, divenne la più diffusa e riconoscibile icona del sionismo, la prima vera “bandiera di Israele”, mezzo secolo prima che Israele nascesse. Tanto che, nel 1900, in occasione di un ricevimento offerto a Londra da Sir Moses Montefiore, in occasione del quarto Congresso Sionista, un ufficiale inglese ebbe a dire: “La pubblicità del sionismo dipende completamente dalla bellezza del suo presidente. Se Herzl si tagliasse la barba, il sionismo finirebbe”.Un’esagerazione, probabilmente. Ma è senz’altro vero che Herzl, oltre ad avere creato il sionismo e ad avere permesso - quarantaquattro anni dopo la sua morte - la nascita dello Stato di Israele, è stato fra i primi ad avere mostrato, nella storia moderna, non solo la forza della personalità, ma anche dell’immagine, al servizio di un’idea. Un’idea che (a differenza di tutte le altre che hanno animato il Novecento, spesso rivelatesi tragiche illusioni) conserva ancora intatto il suo fascino, la sua forza, la sua razionalità. Ringraziamo, a centocinquant’anni dalla sua nascita, il suo creatore. E anche, perché no, la sua barba.Francesco Lucrezi, storico, http://www.moked.it/


a tavola in kibbutz

Tracciabilità e boicottaggi

"Territori Occupati", riferita ad Israele, è da tempo espressione obsoleta e direi altamente nostalgica. Infatti, anche a sottoscrivere il concetto, in realtà assai opinabile, ormai da anni si tratta di ben poca cosa visto che esistono i Territori dell'Autorità palestinese concessi a suo tempo da Israele.Nel caso si potrebbe parlare di "territorio occupato" pensando alla dittatura integralista dei terroristi di Hamas! Comunque, dinanzi a questa realtà il boicottaggio del quale si legge in questi giorni, ad opera di realtà appartenenti a Conad e Coop (rivolto appunto ai prodotti venduti da Israele e originari dei "territori") appare ancor di più anacronistico e destinato, pur stanti i distinguo espressi in particolare da Coop, a portare solamente acqua al mulino della stantia tradizione estremista, in questo caso spesso di sinistra, antisraeliana "a prescindere".Allergico, da buon liberale, ai boicottaggi economici che sanno di ipocrisia quando si vuole operare nel mercato, potrei invece apprezzare quanto dichiarato da Coop, ovvero che la decisione ostracista riguarderebbe solo quei prodotti (pare si parli dello 0,4 per cento dell'import da Israele!), originari dei "Territori", per carenza di tracciabilità, ovviamente sempre che ciò sia corretto: ovvero il cliente non capirebbe esattamente quale provenienza abbia il prodotto e non potrebbe quindi determinare pienamente e liberamente la propria scelta.Dicevo che potrei capire se tale rigoroso metodo venisse applicato a tutto campo: quindi vorrei sapere se dell'uvetta turca proveniente magari dai territori curdi, se qualche prodotto spagnolo origina forse da quelli baschi o se, tanto per citare un altro esempio, del "made in China" o "PRC" che dir si voglia è invece di fonte tibetana.Da ultimo ma certo non da meno, vorrei anche sapere se qualche prodotto importato, con lodevole intento benefico, dai Territori dell'Autorità palestinese sia "made in Gaza" e quindi contribuisca ad arricchire i terroristi di Hamas.Insomma, "tracciabilità totale" per tutti e non solo per i soliti.Gadi Polacco, http://www.moked.it/


Menachem Klein: “Credere nel compromesso”

Parlare con uno dei principali protagonisti del travagliato processo di pace israelo-palestinese non è occasione di tutti i giorni. Menachem Klein, professore di Scienze Politiche all’Università Bar Ilan e tra i firmatari degli accordi di Ginevra del 2003, lavora a stretto contatto con i leader mediorientali da molti anni. A Firenze come lettore del prestigioso European University Institute, è stato invitato dalla Comunità ebraica a tracciare una panoramica sugli ultimi sviluppi e sulle prospettive future nei rapporti diplomatici tra governo israeliano e palestinese.Il suo bilancio sulla situazione attuale è molto negativo. “Sono passati 43 anni dalla Guerra dei sei giorni, 17 anni dagli accordi di Oslo, 10 anni dal summit di Camp David e sette dagli accordi di Ginevra. Ma non è ancora tempo di pace, ogni tentativo fatto per arrivare ad una soluzione positiva della controversa è fallito”. La colpa, secondo il professor Klein, è nella grave miopia e nello scarso potere coercitivo esercitato da entrambi gli schieramenti politici. “Manca una leadership forte”, ripete più volte nel corso della serata. Leadership debole che “non è in grado di contrastare in modo adeguato la radicalizzazione religiosa dei coloni e dei supporter di Hamas” e che “rischia di causare danni sempre maggiori”. Klein si sofferma sulla questione degli insediamenti dei coloni nella West Bank. “Da quando Israele ha firmato gli accordi di Oslo, il numero dei coloni è raddoppiato. È un grosso problema, anche perché è stato causato intenzionalmente”. "Gli insediamenti sono un progetto di rilevanza pubblica e non privata": ruota intorno a questo concetto gran parte del suo intervento, in cui insiste molto sul fatto che i vari partiti succedutisi al governo da Rabin in poi abbiano sempre avallato le iniziative dei coloni. “Anche quello di Ehud Olmert, che prometteva accordi generosi alla controparte palestinese e allo stesso tempo favoriva l’espansione degli insediamenti”. Per Klein c’è una sola possibilità per la fine delle ostilità: “Dobbiamo raggiungere un compromesso”. La gente è stanca, dice. “Non credo che gli israeliani possano ancora resistere a lungo combattendo per la propria sopravvivenza ogni giorno”. Utilizza una metafora per descrivere il problema: “Le colonie e tutte le altre questioni in sospeso sono un continuo e fastidioso mal di testa”. Israele ha tante motivazioni per l’atteggiamento (“talvolta aggressivo”) tenuto finora nei confronti dei palestinesi, spiega il professore. Ma resta un fatto, insiste, “ed è che lo stile di vita adottato dalla sua popolazione non è normale”. Il problema si dilata anche oltre i confini nazionali e diventa un nodo da sciogliere anche a livello internazionale. “I politici israeliani sono molto preoccupati di perdere il supporto del mondo liberal occidentale”, rivela Klein. Non solo estrema sinistra e estrema destra come antagonisti dello Stato ebraico: il partito dell’astio contro Israele guadagna crescenti consensi al centro. “È un trend che deve far riflettere i nostri governanti”. Ma nelle sue parole c’è spazio anche per un timido ottimismo. Una convinzione si è fatta largo negli anni: “Se nel passato ci siamo seduti ad un tavolo di pace, questo significa che un accordo è tecnicamente possibile”. Ripartire da Ginevra 2003, dunque. Trattative che non hanno portato alla pace ma che hanno messo a punto una tecnica negoziale valida e da riproporre in futuro: “Composizione dei team incaricati di negoziare, modalità di conduzione delle trattative, scelta delle tematiche da affrontare, individuazione degli eventuali punti di incontro e firme sui documenti apposte dalle due parti senza essere delegate a terzi”. Le premesse per sviluppi positivi ci sono, ribadisce. “Passare dalla teoria alla pratica dipende solo da noi”. Una mano la possono dare i numerosi intellettuali e uomini di cultura che Israele può mettere in campo.Adam Smulevich http://www.moked.it/


I motivi di "Con Israele, con la Ragione"

"Ho letto la lettera di Giorgio Gomel apparsa ieri su questo notiziario e avendo io stilato personalmente l’appello "Con Israele, con la Ragione" firmato da cinquemila persone, ci sono alcuni punti che mi sembra doveroso chiarire al lettore.Innanzitutto stupisce il tono sferzante di Gomel verso chi non la pensa come lui. Pensando di leggere un’allusione al nostro appello quando parla di firme raccolte “sguaiatamente” mi domando cosa lo possa autorizzare a un pensiero così volgare. Ci sembra inoltre che il suo principale problema, come quello dei promotori di JCall, non sia quello di raggiungere la pace ma piuttosto di come appoggiare i movimenti che attaccano Israele. Ciò è legittimo, ma poiché a noi interessa soprattutto realizzare un percorso di pace e niente affatto sostenere questo o quel governo, non ci resta altro che spiegare una incontrovertibile verità storica, che, sola, può condurre alla soluzione di due stati due popoli.E’ la verità della necessità di una presa di responsabilità da partre della leadership palestinese e del mondo arabo in generale. E’ dal novembre del 1947, quando l’ONU sancì la spartizione con la Risoluzione 181, che l’atteggiamento arabo è stato quello di un susseguirsi di sanguinosi "no" alla presenza di uno Stato ebraico nell’area mediorientale. Questa scelta, che negli anni si è sempre più dipinta dei colori dell’islamismo e della esaltazione del terrorismo suicida, è letteralmente esplosa in faccia a Isreale ogniqualvolta esso si sia affacciato alle più decise profferte territoriali, dal 48 al dopo guerra del 67, via via fino a Camp David nel 2000 e alle offerte di Annapolis nel 2007, quelle di Olmert. Israele ha dato segno di grande responsabilità nei vari sgomberi, non ha mai rifiutato di trattare il problema territoriale, ha lasciato il Sinai, il Libano, tutte le città palestinesi, Gaza…E’ impossibile non vedere che ciò che manca non è la volontà di Israele di cedere territorio, ma quella del mondo arabo e palestinese di procedere sulla strada della pace accettando la richiesta di Netanyahu di accogliere l’esistenza di uno Stato del popolo ebraico. Impossibile non accorgersi che l’incitamento antiebraico, con l’esaltazione incessante del terrorismo, è il più grande ostacolo sulla strada della pace e che occorre richiedere ai palestinesi una presa di responsabilità che garantisca almeno in parte la sicurezza di Israele, straziata da tante morti innocenti.E’ inoltre assurdo gravare Israele anche di responsabilità che non può affrontare, quella dell’intero processo di pace, in un momento di pericolo estremo per la sua stessa esistenza. Tutto questo è spiegato nel nostro appello che invito tutti a leggere e a firmare e che, insieme a quello analogo firmato da più di 10 mila persone promosso in Francia da Shmuel Trigano, sarà presentato il 12 luglio nel corso di un evento pubblico.Fiamma Nirenstein Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, http://www.moked.it/




Se il Congresso ratificherà la nomina di Elena Kagan, la Corte Suprema degli Stati Uniti sarà composta da tre giudici ebrei e sei cattolici. Senza includere alcun protestante ovvero un esponente della fede che segnò la nascita dell'America e che oggi accomuna, nelle sue varie denominazioni, la maggioranza degli abitanti. E' una novità che descrive l'identità dell'America tanto quanto l'elezione di un presidente nero. MaurizioMolinari,giornalista http://www.moked.it/


"Ve lo racconto io che cosa vuol dire essere Italo-Marocchina"

di STEFANO JESURUM, da Corriere della Sera - SETTE del 20 maggio 2010
«Anna. Babbo e mamma mi hanno chiamato Anna perché è un nome facile da pronunciare in ogni lingua». Lo dice parlando lenta e sottovoce, gli occhi che sorridono senza strafare, la cantilena e le aspirate da toscanaccia qual è. Elegante e minuta, Anna ha fatto bene ad aprire Italo marocchina (Diabasis edizioni) con un albero genealogico, il suo. Nessuno snobismo aristocratico ma la raffigurazione di un'identità mista europea e araba, un'identità ricca, una identità che in questa Italia 2010 in troppi chiamano "bastarda" (o lo pensano e non hanno il coraggio di dirlo). Nonna Marcella e nonna Kebira, nonno Abdullah, babbo Mario e mamma Manal. Le sei zie - Fatna, Leila, Samia, Khadija, Amina - più zio Ahmed: nomi e volti, suoni, colori e storie che hanno riempito i lunghi mesi estivi, da quand'era piccola fino all'altro ieri.
Anna Mahjar Barducci è nata a Viareggio il 23 gennaio 1982; è cresciuta tra la Versilia, il Marocco, lo Zimbabwe, il Senegal (ecco cosa significa avere un papà agronomo che gira il mondo per governi e ong) Ha studiato in Italia e a Tunisi, e in Pakistan. Laurea nostrana, master in Spagna, Diritto europeo. Quindi a Washington, assistente del caporedattore dell'influente quotidiano Asharq al-Awsat. E oggi dove vive? A Gerusalemme! (in procinto di trasferirsi a Roma per qualche tempo con il marito Yigal Carmon e la loro piccola Hili - che in ebraico significa "lei è mia"). «Recentemente ero a giro (tipica espressione toscana per dire a spasso, ndr) per Viareggio e mi sono ricordata che devo rinnovare il passaporto. Entro da un fotografo, chiedo di farmi la fototessera e lui mi fa: "Sono per il permesso di soggiorno, vero?". Ancora: l'altro giorno, al supermercato con la mia bambina, si avvicina una signora, anche gentile, fa un sacco di complimenti a Hili, poi mi guarda: "Come mai è più chiara di lei?". E da ragazza, studentessa, mi chiedevano se volessi fare la badante... Quanta ignoranza, e di conseguenza quanto razzismo».
Gli eterni e imperterriti sostenitori di "Italiani brava gente" sosterrebbero che non le è successo nulla di importante, tanto meno di grave. «Lo racconti a mia madre, rimasta traumatizzata da un uomo che un pomeriggio, lungo lo "struscio" di Viareggio, l'ha guardata in faccia e si è passato un dito sul collo nel tipo gesto del "ti tagliamo la gola"». Anna abbassa ancor più il tono della voce: «...andare alla Polizia non serve a niente». Nelle pagine di Italo marocchina così come nelle parole di Anna Mahjar Barducci, a colpire sono il coraggio dell'intelligenza (non ama i luoghi comuni) e la vergogna controllata (non è facile narrare la saga familiare di parte marocchina - molte ombre, poche speranze). Quei due mesi all'anno, in estate, a Kenitra («al-Qunaytra, si affaccia sull'Atlantico, una volta c'era una base americana»), non era facile tornare a casa. «Solo da pochi anni, con la Riforma, i figli di madre marocchina sono marocchini, prima contava la paternità e basta». Breve intervallo politico. L'intervista, che è presidente dell'associazione Arabi Democratici Liberali, concorda - giustamente - sulla tesi espressa da Emma Bonino proprio durante la presentazione del libro di Mahjar: vero che le evoluzioni della società portano a legislature più avanzate, però altrettanto vero che leggi avanzate, le buone leggi, aiutano le società a evolversi. E in Italia siamo parecchio indietro. Intervallo finito. Già, quei due mesi all'anno, in estate, a Kenitra, "a casa", l'islam, le tradizioni. «Conta poco che tu sia religiosa o no, osservante o no, ma che vivi in Europa sì, che vai a scuola regolarmente, che fai un'altra vita. Per questo sei vissuto "diverso", l'islam no c'entra molto. Se non appartieni all'alta società marocchina, conta che tu venga e vada in aereo, cha parli altre lingue, che viaggi, che tuo padre non faccia il manovale». Revanscismo sociale? «Poco verso di me. Molto verso mia madre, è lei che si è "emancipata". Io sono banalmente vista come frutto della scelta di mia madre». E la sottomissione al maschio? «La viviamo quotidianamente attraverso le sofferenze delle mie zie e delle mie cugine». E lei? «Dopo qualche fidanzato italiano/cristiano, mi è capitato di innamorarmi di un ebreo, per giunta israeliano». Diciamo un "nemico". «E che nemico!», ride per la prima volta Anna. «Il mio Colonnello. Yigal, askenazita, famiglia scomparsa nella Shoà, consigliere dei primi ministri Shamir e Rabin, fondatre del Middle East Media Research Institute, ex ufficiale a capo dell'intelligence militare, ex negoziatore israeliano con la Siria...». E non le hanno detto niente? «La mia è una famiglia di donne, non c'è un uomo che comanda, che lancia anatemi, il punto di vista femminile è più tollerante. Loro guardano se sono felice. E in Italia mi chiedono se voglio fare la badante... vi rendete conto?». BOMBE A OROLOGERIA E la piccola Hili? «E' nata a Gerusalemme e questo è bellissimo anche per i musulmani». E in Israele? «Hanno fatto arrabbiare "il Colonnello"... ci siamo sposati a Cipro perché non esiste il matrimonio civile, Yigal ha riconosciuto la bambina. Però per ottenere la cittadinanza di Hili abbiamo dovuto fare un esame del Dna di padre e figlia... per essere sicuri che sia sua. Piuttosto umiliante, no?». Anna non perde il buon umore, fa battute dissacranti, usa l'arma dell'ironia. «In questo sono molto israeliana, ebrea e israeliana». Chapeau. Tanto di cappello. È così che si diventa insegnamento per le società che vogliono divenire aperte e libere. Abbassa lo sguardo. Cita il giornalista e scrittore marocchino Fouad Laroui: «Vorrei insegnarti una parola. Che cosa ne pensi della seguente: individuo». Consigli per l'integrazione? «Non esiste un modello perfetto...inglesi, tedeschi, francesi, americani comunque sono molto più avanti di noi. Non basta mettere "il musulmano" in lista e poi stop». Paure? «La mia preoccupazione vera è il problema dei figli degli immigrati. Totalmente allo sbando, non hanno punti di riferimento. Qualcuno addirittura vuole contingentare la loro presenza nelle scuole. Certo in tv trovano l'extracomunitario di turno, una sorta di quota stranieri. Talk show e programmi dove si cerca a ogni costo la ragazzina velata...se non porta il velo ed è intelligente? Peccato, senza velo, per antonomasia non ha nulla da dire di interessante. Così i più furbi - magari fanno pure bene - si inventano l'associazione dei musulmani rockettari o il circolo delle iper-minigonne-ma-arabe, e conquistano il loro microspazio di notorietà» Autocritiche? «Eccome. Il marocchino che viene in Italia a cercare lavoro è un poveraccio con figli da sfamare, una moglie che non sa leggere né scrivere, lui stesso è ignorante e si sente spaesato. Facile preda dei più temibili complessi di inferiorità, e di conseguenza arrogante. Vera e propria bomba a orologeria. Pronti a rivolgersi alla moschea/garage di turno, futura preda di un imam che si è improvvisato tale. Da qui al comunitarismo integralista il passo è breve. Nei loro Paesi non si preoccupavano della carne hallal, proibita, e adesso sono rigidissimi, si autoghettizzano... Uomini che si permettono di apostrofarmi per strada perché non sono al braccio di un marocchino». Vien da pensare che l'imminente ritorno di Anna Mahjar Barducci a Roma sia un colpo di fortuna. Chissà che questa Italia dall'integrazione/disintegrata non abbia qualcosa da chiederle.


Cari fratelli,Immagino che siate infuriati quanto me per il boicottaggio di prodotti israeliani effettuato a partire da questa settimana dalle catene di supermercati Coop e Conad.Non so quanto effetto avrebbero delle lettere di protesta dato che i nostri nemici sono più numerosi di noi; stesso problema per un nostro boicottaggio di questi complici del terrorismo islamista.Quello che suggerisco è di seguire l'attività dei nostri fretelli danesi quando, più di 20 anni fa, una catena di supermercati si fece influenzare dagli antisemiti locali travestiti da antisionisti:Che ha una mezz'ora di tempo disponibile dovrebbe recarsi nel supermercato Coop e/o Conad più vicino, caricare il carrello di ogni tipo di articoli, meglio tanti piccoli che pochi voluminosi, e meglio ancora se si tratta di congelati. Poi si va alla cassa e si impacchettano subito doo che il personale di cassa li passa sul registro.Appena il personale annuncia il totale da pagare, bisogna dire: "A proposito, ho cercato gli articoli X, Y e Z, ma non gli ho trovati". Alla risposta che non sono più venduti bisogna replicare: "In questo caso, non compro niente; si lascia il tutto sul bancone e che ci pensino loro a rimettere tutto a posto, con speciale cura per i congelati.Allora, in boicottaggio in Danimarca durò una settimana.Passare parola e agire.Shalom a tutti Johnny Mardkhah


CAMERA: NIRENSTEIN (PDL), MINACCE NON FERMERANNO COMITATO ANTISEMITISMOSTUDIARE COME FERMARE ODIO CONTRO ISRAELE CHE CORRE SUL WEB

Roma, 26 mag. (Adnkronos) - ''Le minacce? Le vedo come una vittoria, perche' significa che stiamo lavorando bene''. Fiamma Nirenstein, presidente del Comitato di indagine conoscitiva sull'Antisemitismo, risponde cosi' alle minacce apparse su diversi siti internet contro di lei e i 29 membri del comitato. In una conferenza stampa alla Sala del Mappamondo, a Montecitorio, Nirenstein denuncia i ''gravi atti'' e spiega che ''sul web, in diversi siti, oltre a minacce 'esoteriche' alla mia persona, si attacca il lavoro della nostra commissione, e dunque il Parlamento. Questo e' inaccettabile''.''Io -aggiunge la parlamentare Pdl- sono il bersaglio preferito delle loro invettive, perche' sono ebrea. Mi vedono come una sorta di capo della 'mafia ebraica', ma nel mirino ci sono anche altri componenti del comitato. Per alcuni di questi ultimi, l'accusa rivolta e' di essere al soldo di Israele, altri vengono invece ritenuti agenti del Mossad. Quanto a me -denuncia- un sito arriva ad auspicare l'intervento di un 'kamikaze dell'anima' che possa salvare la mia anima. Questo, al di la' del linguaggio, a me pare un invito ad agire''.''Ma continueramo a lavorare -assicura il presidente del comitato- non ci arrenderemo. Stiamo studiando a fondo come fermare l'odio antisemita che corre sul web e vedremo se le leggi che esistono possono essere ritoccate. Nel 1995 -ricorda- esistevano nel mondo 5 siti che incitavano all'odio contro Israele, oggi se ne contano piu' di 8.000. La risposta -rimarca Nirenstein- non puo' essere solo nazionale, perche' se grazie alla legge Mancino e' possibile in Italia oscurare un sito che incita all'odio razziale o religioso, e' anche vero che lo stesso sito puo' esere riaperto all'estero. E gia' ora qualcuno parla di riaprire siti nel 'libero Iran', aggirando i controlli''.Nirenstein, che spiega di avere ''dal 2001 una scorta'' per la propria sicurezza, sottolinea poi che non aiuta a favorire ''un clima benevolo verso gli ebrei l'esclusione dai banchi Coop dei prodotti israeliani. Una scelta -rimarca- che ha un forte risultato pregiudiziale''.Per Paolo Corsini, deputato del Pd, ''non si tratta solo di una minaccia ma di un vero e proprio 'appello' all'aggressione personale''. Altrove, sulle pagine web, fa notare il membro del comitato, ''si invita a fermare l'odio razzista ebraico, si nega l'Olocausto o si equipara Israele al 'IV Reicht', mentre spesso di fa riferimento al 'libero Iran'. Siamo in presenza -dice- di un attentato alla libera iniziativa parlamentare''.''Nei siti -fa notare il deputato Pdl Renato Farina- ci sono le schedature di ciascun membro del comitato, e alcuni nomi sono anche in 'rosso'. Ma quello che piu' si nota e che e' emerso anche dall'audizione, ieri in commissione, di Domenico Vulpiani, dirigente della Polizia di Stato, e' il fatto che in questo momento c'e' un incontro perfetto tra le tesi dell'estrema destra e quelle dell'estrema sinistra'', unite contro Israele.''Esiste un protocollo del 2003 del Consiglio d'Europa -ricorda Farina- che si riferisce alla lotta antisemita su internet e coinvolge l'impegno di 47 paesi a cooperare in questo progetto. Questo protocollo non e' stato ancora ratificato dal governo italiano. Ci impegniamo a spingere -assicura- perche' possa essere firmato al piu' presto''. Un altro strumento, conclude Farina, ''per fermare questa catena di odio molto operativa''.