venerdì 28 maggio 2010


Invece di firmare appelli, studiamoci l’ebraico

Ancora una volta si è ripresentata la scena di sempre. Qualcuno lancia un testo da firmare, altri lanciano contrappelli. Poi parte una discussione infinita. Ci sono buone ragioni che stanno in tutti i testi, sia quello promosso da Alain Finkielkraut e più noto come JCall, sia quello promosso da Pierre André Taguieff e Shmuel Trigano, nonché la versione italiana di quest’ultimo proposto da Fiamma Nirenstein, Giuliano Ferrara, Paolo Mieli. Il rischio della scomparsa di Israele, della minaccia nucleare che lo sovrasta, è reale. Il rischio di una classe politica inadeguata, quello di una situazione bloccata, sono altrettanto reali, E’ anche reale il fatto che la Diaspora deve assumere la propria responsabilità. Dunque perché non firmo? Perché il compito della Diaspora non è quello di darevoti a qualcuno, bensì quello di misurare con gravità le proprie lacune e carenze e di comprendere come “dare una mano” per essere consapevolmente e responsabilmente nella storia. Il rischio della scomparsa di Israele rende manifesto un fatto: ciò che è messo in dubbio è la capacità degli ebrei della Diaspora di produrre cultura ebraica e lo è perché oggi Israele è non solo la realtà che produce cultura ebraica, ma che la produce attraverso uno strumento che è universalistico, ovvero una lingua ebraica viva. Pensare di essere dei soggetti attivi e non solo dei supporter significa far parte del club di coloro che la usano e con quello strumento, creano qualcosa. O almeno, più modestamente, ci provano. Prima di dire di quale parte politica si è supporter, occorre dare una risposta a questa questione. Non si è più a fianco di Israele se si fa il tifo per Netanyahu, per Tzipi Livni o per l’area della pace. Gli uomini e le donne passano. Ma la macchina culturale non può decomporsi. La Diaspora non esce d’obbligo se dice con chi sta, bensì se diventa parte attiva, anche parziale, di un processo di produzione culturale. Questo aspetto è tanto più vero se si considera un fatto, apparentemente paradossale: senza Israele l’ebraismo religioso forse può sopravvivere, quello laico no. Per questa ragione è fondamentale che una parte consistente del mondo ebraico acquisisca uno strumento per studiare, riflettere, sapere. Uno strumento che non serva “per fare qualcosa”, ma per raggiungere la consapevolezza e crearsi un’opinione sulle proprie decisioni intorno all’identità. Prima ancora di essere uno strumento per un sapere libresco, la conoscenza dell’ebraico è una chance per riflettere sulla propria identità e per decidere chi si sia: in autonomia, responsabilmente, con cognizione di causa. Ciò detto entriamo nella questione. La storia ebraica è una storia di centri produttivi che nel tempo ed in luoghi diversi hanno disegnato la fisionomia di ciò che oggi chiamiamo la “cultura ebraica”. In ogni fase storica c’è stato un centro che ha ereditato il patrimonio culturale (o almeno una parte) o lo ha “riscritto”, incrementato e sviluppato. Un centro pensato per molte realtà diffuse per una rete che non era solo unidirezionale, dal centro verso le lontane periferie. In forma disomogenea, squilibrata, incerta anche le periferie contribuivano a pensare e a produrre sapere che quel centro riadattava, metabolizzava, accoglieva o marginalizzava. La storia ebraica, intesa come storia della produzione culturale, è l’atlante storico dei luoghi che nel tempo hanno prodotto in forma discreta - con salti, vuoti, differenze - ciò che con molta approssimazione noi chiamiamo “cultura ebraica”. Nella dispersione quei luoghi sono stati collocati in più punti e in tempi diversi. Un rapido elenco ne include vari: Babilonia, Alessandria d’Egitto, Cordova, Alsazia, Italia, Polonia, Stati Uniti, Israele. In mezzo ci sono molti luoghi che rappresentano nodi problematici in cui si sono consumate vicende singolari che hanno lacerato e riscritto le identità di un tempo: Amsterdam, Berlino, Istanbul, Chicago, Livorno, Padova. Accanto c’è tutta la questione dei marrani, una vicenda che è culturale e non solo l’indagine sull’albero genealogico. Ogni volta il centro successivo era in grado di ereditare la funzione di nucleo produttivo perché la lentezza del processo di distruzione e di dispersione consentiva passaggi di saperi, di testi, di gruppi umani. In breve la continuità era consentita e garantita da un sistema di rete. Dunque, una diaspora che si ponga il problema di come scongiurare la minaccia all’esistenza deve avere anche consapevolezza di partecipare a una produzione culturale. Per questo non si tratta di “fare il tifo” per qualcuno, ma cercare di dotarsi degli strumenti per essere una voce in qualcosa. Questo significa impegnarsi sul piano della produzione culturale, investendo risorse ed energie anche sul piano della conservazione dei beni culturali (che significa digitalizzazione, riproduzione). Il futuro ebraico esisterà solo se ci saranno uomini e donne in grado di produrlo e di leggere e capire ciò che rimarrà, ma anche se da qualche parte si crea un deposito di testi, documenti, di beni culturali che non “andranno in fumo”. Beni leggibili da una collettività pluralista, interculturale e non solo multiculturale. Riflettere sulla condizione ebraica di domani, agire per garantire la continuità non è solo conseguente a una scelta di schieramento politico. Non sostengo, né ritengo, che la dimensione politica sia inessenziale. Ma la concentrazione di tutte le energie solo su quella scelta ha significato, soprattutto per le Diaspore, non riflettere né impegnarsi su altri campi, non meno essenziali. Questi non sono solo altrettanto rilevanti, ma decisivi, se il tema che ci riguarda e ci coinvolge è quello relativo al futuro culturale e a una possibile condizione di produttori e non solo di consumatori.David Bidussa, storico sociale delle idee, Pagine Ebraiche, giugno 2010

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