martedì 22 dicembre 2009


Bodies of dead Jews lie in the rubble along Tel Aviv waterfront after Arab raid. May 1948


Il furto di Auschwitz Noi ebrei, ossessionati dall’antisemitismo

di R.A. Segre, 22 dicembre 2009, http://www.ilgiornale.it/
(...) per precedenti furti che si è lasciata acciuffare a 72 ore da un’operazione, compiuta senza pericolo venerdì scorso, che ha emozionato il mondo.Sembra che abbiano operato per conto di un collezionista di orrori, affermano le autorità polacche, liete che l’affare si sia sgonfiato, di aver dimostrato la loro buona volontà, l’efficienza della loro polizia incassando le congratulazioni del presidente dello Stato di Israele e di numerose organizzazioni ebraiche. Questa lugubre storia come tutte le storie ha una morale. Anzi in questo caso almeno due morali di cui sarà bene ricordarsi in futuro.La prima concerne il cosiddetto «problema ebraico». Ci hanno provato molti a risolverlo: con le conversioni forzate, con l’assimilazione volontaria, con la persecuzione sociale e religiosa, con «soluzioni finali» di alta efficienza industriale; con le guerre totali. Non è servito a nulla. Il «problema» resta immutato anche dopo la creazione dello Stato di Israele, che agli ebrei ha dato dignità ma non sicurezza collettiva nuova. I nervi degli ebrei restano scoperti come spesso quelli di chi ha, nel bene o nel male, a che fare con loro. Perché? Mistero, almeno secondo il detto di Jacques Maritain, un mistero che accompagna il fenomeno ebraico dal suo inizio biblico lungo tutta la sua straordinaria storia. Una storia che - a partire dal racconto del Vitello d’Oro - è quella di un popolo che porta il peso di una «elezione» dalla quale non riesce a sottrarsi. Per cui in attesa di saperne forse un giorno di più e tenendo conto della globalizzazione spesso isterica della comunicazione, sarebbe saggio usare prudenza prima di conoscere i fatti e soprattutto di condannare. Non tutto quello che concerne gli ebrei è antisemitismo o filosemitismo come non tutto quello che concerne il popolo di Israele è puro.La seconda morale concerne ciò che questo furto mette in luce. Se gli ebrei a causa delle loro vicende hanno i nervi sempre scoperti, vivono spesso nel sospetto, reagiscono spesso in maniera eccessiva agli avvenimenti che li toccano da vicino o da lontano, una giustificazione ce l’hanno. È quella di chi troppe volte si è bruciato le dita. Ma coloro che, per una ragione o per un’altra, questa giustificazione non ce l’hanno, non dovrebbero trivializzare l’antisemitismo. È vero che ebrei, Israele, antisemitismo sono argomenti che fanno notizia, perché in ciò che li concerne sembra sempre esserci qualcuno che morde la coda del cane piuttosto che vedere il cane che li morde. Fortunatamente il furto della scritta all’entrata del lager di Auschwitz, quella scritta così arrugginita nel dolore, così falsificata nella speranza della liberazione, così vile non rappresenta nulla. Nulla se non la forza di attrazione di un mercato in ricerca, come nella perversione sessuale, di possessi sempre più eccitanti, eclatanti. In questo caso è dunque lecito trarre un sospiro di sollievo. Ma anche un avvertimento contro ogni forma di esagerazione. È esagerazione volgare ma non necessariamente manifestazione di antisemitismo, parlare di Shoah per una sconfitta al calcio, anche se qualcuno vuol vederci un traviamento dell’Olocausto. È antisemitismo, quando in Spagna il giorno della Memoria della Shoah diventa ufficialmente anche quello della memoria dell’eccidio palestinese. Primo Levi diceva che lo scopo della sua vita di sopravvissuto era quello di cercare di raccontare ciò che le parole non possono esprimere. È saggio ricordare che un modo per onorare i morti è anche quello di saper parlare di loro abbassando la voce.


Gerusalemme

La ministro Meloni nel campo profughi dei palestinesi: «Studiate per essere liberi»

La titolare della Gioventù in Israele per tre giorni. A Betlemme ha firmato un protocollo d'intesa con un piccolo aiuto all'inserimento dei giovani laureati nelle imprese: 200mila euro per un biennio. «Vedere con i propri occhi la situazione del Medioriente aiuta a capire»
Duecentomila euro, una goccia. Una goccia per sperare. Il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, da ieri a Gerusalemme per una tre giorni che la porterà anche a incontrare parlamentari israeliani alla Knesset, ieri ha visitato il campo profughi di Deisha, a un tiro di schioppo da Gerusalemme. Ma qui sparano sul serio, qui c'è il muro e la vita di ognuno è appesa a un filo tenue, la pace, che va incoraggiato in ogni modo. «Studiare, conoscere è la via migliore per essere liberi», dice la Meloni alle bambine della scuola femminile di Deisha. Poi lo ripete ai giovani studenti universitari dell'ateneo di Betlemme. Proprio alla «Betlem University» Meloni firma insieme al rettore, padre Peter Bray, un protocollo d'intesa che vuole testimoniare l'impegno dei governo italiano e del ministero della Gioventù per sostenere l'imprenditoria giovanile nei territori palestinesi. Si tratta di un progetto di durata biennale, duecentomila euro in tutto che saranno impiegati per finanziare l'impiego di giovani laureati. «La conoscenza - sottolinea Meloni - è la strada giusta, lo strumento migliore per costruire un futuro diverso dalla guerra e dalla povertà». Il ministro della Gioventù ha visitato stamane il centro scolastico femminile di Deisha, gestito dall'Agenzia Onu per i rifugiati, poi un centro per le donne del campo. A loro che, pur impegnate nella gestione di un asilo nido e occupate in attività di sartoria, lamentano una mancanza di fondi, Meloni ha ricordato l'impegno dell'esecutivo italiano, ma ha anche promesso di farsi portavoce delle loro istanze, perché «si può sempre fare di più». Una visita, quella al centro scolastico, allietata anche dai canti in classe delle piccole alunne, un modo per accogliere l'esponente del governo italiano. E sempre con la musica gli studenti universitari dell'ateneo di Betlemme hanno ringraziato il ministro della Gioventù per la firma del protocollo che punta sul microcredito. Un'iniziativa per sostenere chi «prova a gettare il cuore oltre l'ostacolo», ha spiegato Meloni. «È facile per questi giovani sentirsi isolati, abbandonati - ha spiegato il rettore - qui ci sono i check point, c'è la guerra. La sua presenza - ha aggiunto rivolgendosi a Meloni - fa sentire ai ragazzi che non sono abbandonati».Di questione mediorientale si dibatte spesso, ma «guardare le persone negli occhi è un'opportunità per capire», ha proseguito Meloni, «e io ho visto tante persone che pur con la guerra, la povertà e l'assenza di speranza cercano di ritagliarsi una vita dignitosa». La missione proseguirà con la visita alla camera di commercio di Betlemme, mentre nel pomeriggio il ministro della Gioventù assisterà al concerto di Natale presso la chiesa della Natività. martedì 22 dicembre 2009, http://www.ilgiornale.it/


I paradossi di Israele sul gioco on line

Se è permesso a molti gruppi di gaming di operare sul territorio israeliano, la stessa tolleranza non è affatto applicata quando si tratta di lasciar giocare gli israeliani su qualsiasi sito.Dopo un’operazione sotto copertura durata svariati mesi la polizia ha proceduto all’arresto di 5 persone implicate sul sito internet 1×2.com, un portale di gioco dedicato agli scommettitori israeliani.Due fratelli sono sospettati di essere a capo dell’organizzazione mentre gli altri occupavano ruoli di amministrazione, dalla contabilità ai pagamenti al supporto tecnico.Sembra che il sito abbia operato su servers situati in Europa dell’Est e nell’obbiettivo erano direttamente i players israeliani visto che il sito era scritto in ebraico e dedicato totalmente a questo target di giocatori.Playtech, 888, Pokerstars, sono solo alcuni esempi, i più grandi, dei siti di Poker e Casinò online che contano centinaia di milioni di giocatori e miliardi di dollari di incassi, e che sono situati proprio in territorio israeliano.Una situazione paradossale senza dubbio. Se i colossi aziendali citati possono operare indisturbati facendo riferimento ai mercati di tutto il mondo, non si capisce perchè chi vuole giocare sui siti come quelli appena denunciati, debba essere perseguito in maniera così spietata. Ma ancor più bizzarra è la decisione di questi piccoli operatori di insistere ad operare con le proprie società in terra d’Israele senza fuggire in altri paradisi fiscali dove potrebbero condurre le proprie attività senza timore di essere preseguiti e depauperati dei propri profitti.21 December 2009, http://poker.sky.it/


Gerusalemme

Nella lunga notte di Israele si decide il destino di Shalit

di Fiamma Nirenstein, 22 dicembre 2009, http://www.ilgiornale.it/
GerusalemmeSe questo non è un Paese perseguitato da una forma di odio e di terrorismo senza precedenti, allora nessuno lo è mai stato. Eppure nessuna organizzazione per i diritti umani, nessun governo si è affacciato per dire ai governanti di Israele che il dilemma che devono risolvere in queste ore è terribile, e a sostenerlo nel più nobile e anche folle fra tutti gli antagonismi storici e filosofici, quello fra la vita e la morte, fra il bene e il male. Ieri un popolo intero intorno all’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyhau circondato da sagome a grandezza naturale di Gilad Shalit, ostaggio di Hamas da più di tre anni, ha ingoiato le lacrime, diviso fra opinioni diverse. Il gabinetto del premier, formato da sei membri più Netanyahu, si è riunito per due giorni consecutivi e ieri ha rinnovato gli incontri ancora e ancora fino a tardi per la discussione definitiva su uno scambio che sembra metafisico e assurdo. Hamas vuole un numero esorbitante di assassini e di terroristi, intorno a mille, in cambio del ragazzo rapito lungo il confine di Gaza mentre era di ronda. I palestinesi di Hamas minacciano dicendo che la trattativa è finita e che i genitori di Gilad non lo vedranno mai più se Israele non accetterà di liberare una quantità di assassini che, come le statistiche degli scambi precedenti garantiscono, torneranno a uccidere nelle strade, sugli autobus, nei ristoranti di Israele. Durante la Guerra dei Sei Giorni, Yitzhak Rabin sovrastato dalla responsabilità, si rinchiuse a casa per molte ore; Netanyahu in mezzo a una giornata come quella di ieri, in cui ha rivisto oltre ai suoi sei ministri anche i genitori di Shalit, il capo di Stato Maggiore Gabi Ashkenazi, il capo del Mossad, Meir Dagan e quello dei servizi segreti interni, lo Shin Beth, Yuval Diskin è stato a casa in preda a un malessere per un paio d’ore. La responsabilità che grava su di lui è fatale: i suoi ministro sono divisi tre contro tre. Il responsabile degli Esteri Avigdor Liebermann, quello degli Affari strategici Moshe Ya’alon, Benny Begin, ministro senza portafoglio, pesante per il nome e la rettitudine morale, si oppongono. Ehud Barak, alla Difesa, Eli Ishai, Interno, e Dan Meridor, Servizi segreti, sono a favore. Ci possiamo immaginare in quale stato di concentrazione e di pressione sia Bibi Netanyahu, il fratello del grande Yoni ucciso mentre capeggiava la spedizione di Entebbe, nel 1976; l’uomo che fra i primi capì l’indefettibilità del terrorismo islamico: egli sta forse per caricare fuori del carcere, sugli autobus che li porteranno nella gioia sfrenata dei palestinesi a casa, i militanti armati di Hamas che hanno ucciso migliaia di suoi compatrioti. Il suo dilemma comprende una quantità di punti delicati, fra tutti il più importante quello del limite: quando si tratta di salvare la vita di un soldato, uno dei ragazzi che a diciotto anni vanno per tre nell’esercito, spesso in guerra, per difendere una società e famiglie che pretendono severamente che lo Stato garantisca il suo impegno a salvare la vita dei suoi fino in fondo. Ma che conta tanti genitori già colpiti dal terrorismo che non sopportano che gli assassini dei loro cari siano rimessi in libertà. L’altro grande dilemma riguarda il futuro dei palestinesi: per Abu Mazen, unico interlocutore moderato, la vittoria di Hamas sarebbe un colpo fatale, e Israele si troverebbe di fronte, rafforzato, il nemico foraggiato dall’Iran e che ha giurato la sua morte. Mentre il presidente egiziano Hosni Mubarak si allontana sempre di più dalla mallevadoria della trattativa e costruisce un significativo muro lungo il suo confine con Hamas, di cui teme l’estremismo, il mediatore tedesco che fa la spola fra Il Cairo e Gerusalemme, conduce una discussione sugli assassini più terribili come Abdullah Barghouti, che uccise almeno 46 prsone, Abbas Sayyed che ne uccise 30, Ibrahim Hammed che ne ha ucciso 76, e la loro destinazione, perché Israele non vuole rilasciarli e almeno richiede che non restino in Cisigordania, ma che siano destinati a siti remoti. È terribile che Israele sia trascinato in una discussione di questo genere con un’organizzazione integralista e omicida, e che il mondo non abbia mosso un dito in tre anni per obbligare Hamas a liberare Gilad.


Londra, Hamas chiede arresto leader israeliani (Times)

Costituito dal gruppo palestinese un comitato ad hoc Roma, 21 dic. (Apcom) - Il gruppo estremista palestinese Hamas sta utilizzando la legislazione britannica per richiedere l'arresto dei leader politici israeliani per crimini di guerra, quando si recano in visita in Europa. Lo ha detto un alto responsabile di Hamas, direttamente impegnato in questa campagna anti-israeliana, al quotidiano britannico The Times. La scorsa settimana si è aperta una controversia diplomatica tra Gran Bretagna e Israele, dopo che un tribunale britannico aveva spiccato un mandato di cattura nei confronti dell'ex ministro degli Esteri e attuale leader di Kadima, Tzipi Livni, per il suo coinvolgimento nell'offensiva israeliana dello scorso inverno nella Striscia di Gaza. L'ordine di arresto, emesso alla vigilia di una visita di Livni a Londra, è stato poi ritirato dopo che è stato accertato che l'ex capo della diplomazia israeliana non si trovava nel Regno Unito. La campagna orchestrata da Hamas - scrive il Times - sfrutta una norma vigente in Inghilterra e in Galles, che permette a chiunque di richiedere un mandato di arresto per presunti crimini di guerra. L'identità della persona e dell'organizzazione che hanno richiesto l'arresto di Tzipi Livni non si conosce, ma Hamas ha ammesso di aver promosso l'iniziativa. Diya al-Din Madhoun, che dirige il comitato di esperti costituito dal gruppo palestinese per coordinare la campagna, ha detto al Times che "tutti i leader politici e militari dell'occupazione sono nel mirino". "Questa è diventata la nostra politica". Il comitato, allestito dopo l'offensiva di Gaza per indagare sui presunti crimini di guerra commessi dalle forze israeliane sulla popolazione palestinese, sta incoraggiando le vittime del conflitto a denunciare i leader israeliani in Paesi come Gran Bretagna, Spagna, Belgio e Norvegia.



Gerusalemme - Santo Sepolcro

Pio XII, Israele: «Il Vaticano apra gli archivi, gli storici devono poter giudicare »

di Eric Salerno, http://www.ilmessaggero.it/
ROMA (21 dicembre) - L’avvicinarsi del Natale e i preparativi per le cerimonie a Betlemme dove è previsto l’arrivo di decina di migliaia di pellegrini che dovranno attraversare il Muro eretto da Israele, vede accentuarsi le polemiche tra il mondo ebraico da una parte e il Vaticano dall’altra. Sono anni che i governi israeliani e la Santa Sede tentano invano di raggiungere un accordo sulle questioni concernenti le proprietà economiche e fiscali della Chiesa nel territorio israeliano, a Gerusalemme e nelle zone occupate illegalmente dopo la guerra del 1967.A rendere più cupo il clima è venuto il riconoscimento di «virtù eroiche» a papa Pacelli da Benedetto XVI. In Israele, a livello popolare l’atto che fa parte del processo di canonizzazione di Pio XII non ha suscitato grande interesse. I media si sono limitati a riprendere qualche dichiarazione riguardo il dibattito storico sul comportamento del pontefice di fronte agli orrori dell’Olocausto. Se si vuole chiudere la polemica, sottolineano gli storici non soltanto ebrei, è indispensabile poter accedere agli archivi della Santa Sede.Israele «non intende interferire» nel processo di canonizzazione perché «è un affare interno della Chiesa cattolica», ma questo non significa che si può restare in silenzio di fronte al sospetto ben motivato che Pio XII non abbia fatto abbastanza quando fu informato di ciò che stava accadendo nella Germania nazista. Il portavoce del ministero degli Esteri Ygal Palmor ha esposto con chiarezza la posizione del suo governo: «Crediamo che gli storici debbano essere in grado di determinare e valutare il significato della sua azione nel contesto dei tempi. E per questo riteniamo di vitale importanza per il Vaticano consentire l’accesso agli archivi». Non è la prima volta che questa richiesta viene avanzata senza essere accolta.Sulla base degli elementi finora raccolti, gli storici di Yad Vashem (il memoriale all’Olocausto di Gerusalemme) sono convinti che già verso la fine del 1941 il Vaticano fu informato delle uccisioni sistematiche di ebrei e che nel marzo 1942 il papa non agì in alcun modo per impedire la deportazione ad Auschwitz degli ebrei della Slovacchia. Pio XII si sarebbe limitato a denunciare gli orrori della guerra «in maniera laconica», per usare una frase del direttore di Yad Vashem, evitando di condannare la Germania nazista. La giustificazione della Santa Sede, più volte ripetuta, è che il pontefice mantenendo una linea non troppo critica nei confronti di Hitler è riuscito a evitare che l’Olocausto si estendesse ai cattolici europei.Nel corso di un recente seminario, esperti di Yad Vashem e dello Studium Theologicum Salesianum erano apparsi concordi nel sollecitare la declassificazione degli archivi vaticani. E per la parte ebraica sarebbe stato più giusto sospendere il processo di canonizzazione in attesa di fare luce sulle vicende di quegli anni. «Mentre il processo di beatificazione è una questione interna della Chiesa - ribadisce ora la portavoce del memoriale Iris Rosenberg - noi avevamo inteso che in questa occasione la Chiesa si sarebbe astenuta dal compiere nuovi passi fino all’apertura degli archivi ed è, dunque, spiacevole che il Vaticano abbia scelto di agire prima che tutti i documenti essenziali siano stati messi a disposizione dei ricercatori».




LAICI AUGURI A TUTTI

lunedì 21 dicembre 2009



L'amica ritrovata Recensione del film Il canto delle spose (2008)

Il delicato ma a tratti pungente affresco di una difficile amicizia nella Tunisi del 1942, sconvolta dai bombardamenti e dalla temporanea occupazione nazista.
Potrà apparire scontato, banale, ma è grazie a una sensibilità spiccatamente femminile che Karin Albou, regista francese di origine maghrebina, ha saputo dar voce a emozioni spezzate e a turbamenti così intimi, manovrando abilmente sullo sfondo di una Tunisi travolta nel 1942 dagli eventi bellici, capaci di arrecare pesanti condizionamenti al contesto politico e sociale della città. Il canto delle spose è pertanto il racconto di un'amicizia profonda, resa difficile da circostanze storiche, culturali, più inclini a dividere che ad unire. Tunisi alla vigilia del coinvolgimento nella Seconda Guerra Mondiale viene raffigurata come una città tollerante, con evidenti tracce di multietnicità, laddove può capitare che ebrei e musulmani convivano senza particolari attriti. In questa cornice, sapientemente metaforizzata attraverso le scene girate nell'hammam (luogo di aggregazione che diverrà strada facendo l'epicentro di aspri conflitti), si sviluppa l'amicizia tra Nour e Myriam, che vivono in case quasi attaccate tra loro sin dall'infanzia. Delle due ragazze la prima viene da una famiglia araba, mentre Myriam appartiene alla minoranza ebraica, piuttosto consistente nella città nordafricana. Il rispetto reciproco reggerà fintantoché l'esercito tedesco, coadiuvato dai francesi di Vichy, non deciderà di occupare la Tunisia, fomentando lì come altrove l'odio razziale. La propaganda nazista cercherà sin dall'inizio di scaricare la responsabilità del conflitto sugli Alleati, accusati di favorire un presunto complotto internazionale di matrice sionista; e i riflessi di questa becera campagna ideologica avranno purtroppo un peso sugli ambienti nazionalisti del paese maghrebino, scossi molto presto da ondate di antisemitismo. Fragili equilibri sono destinati così a incrinarsi per sempre. Qualche crepa comincia a comparire nello stesso rapporto di amicizia che lega le due ragazze, entrambe alle prese con situazioni sentimentali rese ancor più delicate dal complicarsi della vita attorno a loro. Nour non vuole ammettere che il carattere del fidanzato, Khaled, stia cambiando pericolosamente, in seguito alla scelta di schierarsi con gli occupanti e appoggiarne le azioni persecutorie rivolte contro gli ebrei. Myriam, a sua volta, sembra guardare con un misto di preoccupazione ed invidia alla loro relazione, anche perché nel frattempo la madre Tita (interpretata dalla stessa regista) sta organizzando un matrimonio combinato tra lei e quel medico ricco, altezzoso, che la ragazza non ama, ma che potrebbe aiutare concretamente la loro famiglia in frangenti così difficili. I casi della vita finiscono quindi per allontanare brutalmente le due giovani donne, ma proprio nel momento di maggior pericolo verrà offerta loro la possibilità di riaccostarsi l'una all'altra. Con sguardo finissimo, Karin Albou riesce a coniugare la grande Storia con le tensioni individuali, posando la propria attenzione su un mondo femminile pressato da vecchie costrizioni famigliari e da nuove ansie, dovute alla durezza del tempo di guerra. Pur indulgendo forse troppo sull'estetica dei primi piani, e dei dettagli, la regista sa restituire un clima di intimità che all'occorrenza diviene quasi sfacciato, ad esempio nella scena della depilazione del pube, che precede il matrimonio di Myriam. Persino nel descrivere la brutalità dell'occupazione nazista non si ricorre a violenze eclatanti, ma a un modo di violare gli spazi privati (e così l'immagine delle donne soggette a un rastrellamento nell'hammam acquista ulteriore significato) che lascia un segno altrettanto doloroso, un marchio nell'identità collettiva. In questo oscillare tra dimensione corale e psicologie individuali ferite, la disponibilità a mettersi in gioco dimostrata dalle attrici che interpretano le due adolescenti, Lizzie Brocheré (Myriam) e Olympe Borval (Nour), ha rivestito senz'altro un ruolo importante, così come la cura riservata alle riprese, perfettamente in grado di costruire un'atmosfera densa e carica a partire dallo stesso tessuto sonoro. La Tunisi dei primi anni '40 sembra vivere di suoni ovattati, silenzi notturni, ai quali si sostituiscono con improvvisa e funesta drammaticità le sirene dei bombardamenti, oppure i passi ordinati di stivali teutonici in marcia.
Data di pubblicazione: 17.12.2009 http://www.movieplayer.it/ Stefano Coccia












Frank: tra ossessione e leggerezza . Ebrei del Novecento

Jean Michel Frank, cugino di Anna, fu uno dei più grandi interior-decorator del Novecento, un maestro di stile che rivoluzionò il gusto di un secolo. Una mostra a Parigi oggi gli rende omaggio "Mi piacerebbe che gli artisti, sempre di più, partecipassero alla creazione delle case e del loro design. Il risultato sarebbe qualcosa di vivo, di profondamente legato ai nostri tempi”. Siamo nel 1914, e a pronunciare queste parole è Jean Michel Frank, forse uno dei più grandi designer e decoratori d’interni del Novecento. Con queste parole Frank pensava soprattutto ai set teatrali e alla sintesi di tutte le arti postulata da Sergej Diaghilev e dai suoi Balletti russi, veri capolavori alla cui realizzazione avevano partecipato Picasso, Derain, Matisse, Braque e che avevano lasciato un segno indelebile nella sua giovane immaginazione. Dopo questa esperienza, per tutta la sua breve vita (1895-1941), Jean Michel Frank chiederà ad amici come Alberto Giacometti, Salvador Dalì e altri, di disegnare dei mobili apposta per lui e per le case che via via concepiva, destinate all’aristocrazia e all’alta borghesia di Parigi, New York e Buenos Aires. A ripercorrere quella che è stata l’avventura estetica di uno dei più grandi maestri dell’interior design del secolo scorso, vissuto tra le due Guerre mondiali, cugino di Anna Frank, figura tormentata e infelice di ebreo in fuga dall’Europa incendiata dal nazismo e dall’antisemitismo, arriva oggi una mostra (Parigi, fino al 3 gennaio, Fondation Pierre Bergè e Yves Saint Laurent, 5 Av Marceau, tel. 0144316431, www.fondation-pb-ysl.net), che ne ricostruisce gli ambienti, i decori, lo stile e la vicenda umana, tracciando la storia di quella che fu la “rivoluzione Frank” in fatto di gusto. Di fatto, quello che Coco Chanel rappresentò in termini di sovvertimento dei linguaggi della moda e del look delle donne, Frank lo è stato per le case e l’interior decoration: la sua fu una concezione che coniugò il senso del bello al confort, l’arte dell’abitare con una lussuosa semplicità, l’enfasi sul non-colore (“esistono seimila tonalità di beige!”, diceva), con linee semplici e squadrate di oggetti, sedie, divani, armadi, tutti ricoperti di materiali preziosi, nuovissimi e mai usati fino allora.Dal travertino al galuchat, e poi gomma, paglia intrecciata, pergamena, gesso, lacca, avorio, mica, grafite, zigrino, terracotta, fino alla pelle delle poltrone trattata in modo unico da un artigiano che allora si chiamava Hermès. Il suo gusto innovò integralmente lo stile degli interni. Nel 1921 i suoi primi clienti furono gli amici di sempre: gli scrittori Pierre Drieu La Rochelle, Louis Aragon, Jean Cocteau, il milieu surrealista, tutti innamorati della sua estetica del vuoto e della riduzione. Una visione, per l’epoca, di implacabile modernità. Non dimentichiamoci che durante gli anni Venti e Trenta, Parigi fu il crocevia del mondo, il fonte battesimale delle avanguardie storiche: Balthus e Chagall, De Chirico e Klee, Ernst, Mondrian, Mirò, Luis Bunuel e il suo film L’Age d’or... La svolta nella carriera di Frank avviene con la progettazione nel 1926-27 dei salons di Marie Laure e Charles de Noailles a Parigi. Fotografati da Man Ray all’indomani dall’inaugurazione, quegli interni diventeranno il suo biglietto d’ingresso nel tout Paris, ciò che farà conoscere al mondo intero lo “stile Frank”.Come meravigliarsi quindi se diventa il beniamino dei più grandi couturier dell’epoca? Iniziano a chiamarlo praticamente tutti. Marcel Rochas, Guerlain, ma soprattutto Elsa Schiapparelli che sarà l’artefice della sua fortuna mondana con la richiesta di inventargli lo stile dell’appartamento di boulevard Saint Germain. È a questo punto che il bel mondo impazzisce letteralmente per Frank, per l’audacia dei suoi divani porpora, le sedie scarlatte e le librerie bianche sormontate da pennacchi dorati... Fino a oggi: non a caso, gran parte della sua riscoperta, la si deve, in tempi più recenti a Yves Saint Laurent e Giorgio Armani.Ma quali furono i cardini della sua “rivoluzione”? In linea con l’ultima generazione di storici, va detto innanzitutto che Frank, contrariamente alla vulgata corrente, non era un minimalista. Il suo “lusso ascetico”, la sua “estetica della rinuncia” (la definizione è di Francois Mauriac), la passione per le linee pure e per un certo geometrismo, non ne fanno un apostolo del gusto minimal e nemmeno quel maestro dell’understatement, come fu percepito per decenni. “Il bianco e il beige erano i suoi colori preferiti. La verità è che la sua creatività non rientra in schemi rigidi e codificati: di fatto mio zio adora mescolare gli stili”, scrisse nel 1935 Alice Frank, sua nipote, ricordandone la boutique aperta nel 1938 con il socio Adolphe Chanaux in Rue du Faubourg Saint Honorè 140. Dal 1928 al 1941, successo e creatività esplodono. Crea divani dalla cremosa consistenza di un guanto di pelle, piccoli armadi rettangolari ricoperti di pelle di pescecane. Per lui gli amici inventeranno gli oggetti più folli: Salvador Dalì disegna nel 1938 il canapè Labbra in velluto rosso ispirato alla bocca di Mae West, la lampada in legno ricoperto da foglie d’oro Dalì.Trasversalità, pensiero laterale, capacità di connettere cose e stili lontanissimi tra loro. Per alcuni questo fu il tratto ebraico di Frank e insieme la cifra dei suoi interni, fatta di spoliazione e di sontuosa essenzialità, un lusso sobrio, una tensione al vuoto tipico degli ambienti sinagogali, quel vuoto assoluto del Kodesh-haKodashim.Quanto alla biografia, la sua vita è avvolta da un alone noir, spesa tra futilità e mistero, solitudine e sfrenate feste mondane. Terzo figlio del banchiere Leon Frank e di Nanette Loewi (figlia di un rabbino di Filadelfia), la tragedia lo colpisce in piena Prima Guerra Mondiale, nel 1915, con la morte dei due fratelli maggiori. Essendo ebrei di nazionalità tedesca, quindi nemici, i suoi genitori sono agli arresti domiciliari mentre i due fratelli maggiori, nati francesi come lui stesso, combattono al fronte per la “patria”. Una beffa atroce. Con la morte sul campo di battaglia dei due figli, distrutto dal dolore, il padre Leon si suiciderà subito dopo. Una scia di sangue che non lascerà mai Jean Michel, sempre in lotta con la depressione tanto da avere sempre al fianco due psicanalisti. Ancora una volta, sarà un’altra guerra a decidere del destino di Frank. Iniziate le persecuzioni antisemite, da protagonista del bel mondo, Jean Michel si vede precipitare nella condizione di rifiuto della società. Nel 1939 chiude l’atelier, fugge dalla Francia per l’Argentina e poi per New York. Sconvolto da quanto sta succedendo agli ebrei d’Europa, ossessionato dai ricordi dei fratelli e dal suicidio del padre, si getterà da un grattacielo di Manhattan l’8 marzo 1941. Di lui resta fino ad oggi questo melange unico di leggerezza e rigore, sogno e poesia, l’eleganza impareggiabile di un dandy ebreo impegnato a creare una nuova armonia per le case del XX secolo.Fiona Diwan http://www.mosaico-cem.it/


A Minneapolis, l’ebraismo a ritmo di reggae dei fratelli Ethan e Joel Coen

Siamo premi Oscar e raccontiamo il nostro ebraismoL’umorismo noir. Il desiderio di indagare le proprie radici, specie quando ci si avvicina ai 50 anni. l’impronta del mondo yiddish che si ammanta di esotismo. Parlano i due geniali enfant prodige del cinema americano, alle prese con il più “ebraico” dei loro film La nostra identità è legata al luogo dove siamo nati e cresciuti”. E questo luogo, nel caso dei fratelli Joel ed Ethan Coen, è la comunità ebraica di St. Louis Park, sobborgo di Minneapolis, Minnesota. Località non certo conosciuta dal grande pubblico fino a poco tempo fa, ma che oggi è sugli schermi cinematografici di tutto il mondo, grazie al nuovo film dei due noti registi americani, A serious man, uscito in Italia il 4 dicembre. “Il più ebraico dei loro film”, lo ha definito non a torto la stampa di tutto il mondo. D’altronde, l’incipit del film, con una scena parlata in yiddish e ambientata in un non ben identificati shtetl dell’Europa Orientale, annuncia subito in che mondo siamo entrati. Nella storia dell’ebreo Larry Gopnik (l’attore Michael Stuhlbarg), si tocca con mano e si respira l’aria di una autentica e reale comunità ebraica del Minnesota: quella in cui, negli stessi anni Sessanta in cui è ambientato il film, crescevano un tredicenne Joel e suo fratello Ethan di dieci anni. Il film è il ritratto tragicomico di un uomo che, afflitto da problemi lavorativi e famigliari - moglie che vuole lasciarlo, figli difficili -, cerca risposte nella sua identità ebraica, rivolgendo le proprie domande a tre diversi rabbini. Ma il risultato -che non anticipiamo-, sarà ancora più inquietante. Un film profondamente ebraico e insieme americano, spiazzante e irriverente, in cui trovano spazio un ragazzo che anziché studiare per il suo Bar Mitzvah fuma gli spinelli; e poi la Qabbala, il reggae e Jimi Hendrix, in un mix esplosivo di umorismo noir caratteristico dei fratelli Coen.“Non è un film autobiografico”, sottolineano i registi. Eppure ogni fotogramma è intriso di memoria, ricordi, atmosfere tratte dall’infanzia e giovinezza di allora. “È ovvio che avevamo in mente la comunità dove siamo vissuti”, precisano. “Ed è altrettanto normale che siamo intrisi del luogo dove siamo cresciuti. L’interesse per il proprio passato, per le radici e le origini, cresce quanto più si invecchia. E poi una certa distanza temporale ammanta gli eventi di esotismo, una dolce lontananza che avvolge di una luce rosata tutto ciò che abbiamo conosciuto e vissuto allora”. I due fratelli ammettono anche che i vari personaggi del film sono frutto di un mish-mash, un mix di elementi tratti da persone vere incontrate oggi e ieri. In particolare, per le figure religiose, “ci siamo ispirati al rabbino che conoscevamo da bambini: un vero saggio, che parlava poco, non diceva mai nulla, ma che era molto carismatico”. Personaggi veri e di fantasia convivono quindi nel quadro di un ebraismo anni Sessanta molto Midwest americano, perché, come dice Ethan, “la combinazione dell’essere ebreo e al tempo stesso originario del Minnesota è molto importante”. Ma ci tengono a precisare che, se l’ambientazione è autobiografica, non lo è invece la storia, frutto di pura invenzione: “Il contesto è personale, la storia no”.Comunque sia, quest’ultimo film racconta in modo esplicito quella che è stata l’infanzia e l’adolescenza dei due registi, il loro ambiente ebraico e le sue complessità. Nati a Minneapolis, Joel nel 1954 e Ethan nel 1957, crescono a St. Louis Park, un sobborgo della città del Minnesota. I genitori, Edward e Rena, sono entrambi ebrei liberal americani: l’uno docente di Economia all’Università del Minnesota e l’altra di Storia alla St. Cloud State University. “I nonni materni erano molto ortodossi”, spiega Joel, “e nostra madre era molto osservante, tanto che ci mandava tutte le settimane in sinagoga”. Mentre il padre Edward mangia taref fuori casa, lontano da occhi indiscreti. I due fratelli, quindi, fanno il Bar Mitzvah e frequentano la scuola ebraica, anche se, confessano, di aver provato da ragazzini l’irresistibile tentazione di assaggiare di nascosto il prosciutto, trasgressione poi avvenuta e considerata dalla madre cosa gravissima.Come quindi non vedere in Danny - il figlio del protagonista Larry alle prese con il Bar Mitzvah, gli spinelli, l’ossessione per gli show televisivi kitsch come F Troop e la musica - i giovani Coen in piena adolescenza? Sono infatti loro stessi ad ammettere che il Bar Mitzvah fu per loro un obbligo imposto dai genitori. “Lo abbiamo fatto perché non avevamo scelta, come era d’altronde frequente nella nostra comunità”, spiegano. “Avremmo volentieri rinunciato ai regali pur di non fare il Bar Mitzvah”. Ma il legame alla tradizione ortodossa della famiglia, soprattutto quella materna, ha la meglio. Fino a oggi. Le somiglianze fra film e vita, però, non finiscono qui. Nella scelta di non sottotitolare le scene delle lezioni di ebraico, si nasconde la volontà di ricreare il senso di sospensione annoiata che da giovani provavano a scuola. Ma in realtà elementi della identità ebraica dei Coen si ritrovano anche in molti dei film precedenti. Basti pensare a Walter Shobchak (John Goodman), il veterano del Vietnam compagno di bowling del protagonista (Jeff Bridges) ne Il grande Lebowsky, che dichiara di rispettare Shabbat: “Io non rollo gli spinelli di Shabbos, non guido, non parlo al telefono, non uso il forno. È Shabbat, il giorno di riposo per noi ebrei”. “Tutta l’idea di questo reduce dal Vietnam che si auto-proclama religioso ci pareva alquanto ironica e divertente”, dicono i Coen. Ma anche il protagonista di Barton Fink, un John Turturro nei panni di un giovane commediografo ebreo coinvolto in un’improbabile storia noir, ha molto carattere jewish. L’ebraismo dei fratelli Coen emerge quindi in diversi contesti: in quello surreale di Barton Fink, in quello più ironico del Grande Lebowsky, e in quello più reale e comune di A serious man.E anche nei racconti di Ethan Coen I cancelli dell’Eden, pubblicati nel 1998, c’è posto per Talmud e sionismo.Ma questi ritratti un po’ stereotipati non rischiano di dare un’immagine sbagliata dell’ebraismo? “Non ci interessa molto quello che pensa la gente”, spiega Joel. “Tutti i nostri film raccontano delle diverse identità e quando lo fai è normale che qualcuno si offenda. Accadrebbe comunque, a meno che la vicenda non sia poco interessante e astratta”. E il pessimismo che emerge nelle vostre storie, dove lo mettiamo? “Siamo ebrei”, dice Ethan Coen. “Un certo pessimismo c’è sempre, emerge qui e là mescolato allo humour”.di Ilaria Myr http://www.mosaico-cem.it/



IRÈNE NÉMIROVSKY GIORNO D’ESTATE

Trad. Antonio Castronuovo, Ed. Via del Vento, Pistoia, Luglio 2009, pp. 36
“Oh! Tutto è finito da tempo, mormorò lei sfinita”
Capita a volte di scoprire veri e propri gioielli letterari quando meno te lo aspetti. Un paio di mesi fa, all’uscita dalla Libreria Mel Bookestore nella mia città, lo sguardo mi cadde su un volumetto posto sul bancone di fianco alla cassa. Un piccolo quaderno color beige chiaro: Irène Némirovsky, Giorno d’estate. La casa editrice, per me sconosciuta, portava un nome quanto mai evocativo: Via del vento. Da una rapida visura sul web venni a sapere che “C'è una via a Pistoia dove il vento spira anche quando la calura agostana come una cappa di piombo soffoca la città. Questa via, per tale singolarissima caratteristica, fu battezzata ‘via del Vento’ e mantenne questo nome sino alla fine dell'Ottocento, quando le fu mutato in ‘via Ventura Vitoni’ per ricordare il celebre intagliatore e architetto pistoiese…..”. Ed ancora, nella stessa via del Vento avevano vissuto, negli anni, in modo pressoché continuativo, scrittori e uomini di lettere, tra i quali Gianna Manzini. Per iniziativa del pittore Fabrizio Zollo, al numero 14 di detta strada, sono nate nel 1991 le Edizioni “Via del Vento”, allo scopo di far conoscere e proseguire la tradizione letteraria del luogo. Le Edizioni pubblicano, in numero limitato, testi inediti e rari dell’Ottocento e Novecento di autori italiani e stranieri in tre collane “I quaderni di via del Vento” e “Ocra gialla”, entrambe inaugurate con testi di Piero Bigongiari e Gianna Manzini, nonché “Acquamarina”.
Tra gli Autori pubblicati nei vari quaderni troviamo Franz Kafka (Il ponte) , Isaak Babel’ (Nello scantinato), Bruno Schulz (L’epoca geniale; ricordate?); ma ci sono pure, pensate, sommi pittori, come Pablo Picasso, Paul Cézanne o Gustav Klimt, desiderosi di cimentarsi con forme espressive diverse da quelle loro più familiari. Quali nuovi mondi, ad esempio, avrà dipinto Klimt in Lettere a un’amata ? La scelta di dare alla stampe un breve racconto di Irène Némirovsky esprime attenzione nei confronti di questa scrittrice, nota alla maggioranza dei lettori italiani da pochi anni. Infatti, a parte Come le mosche d’autunno (Feltrinelli, 1989) e Il bambino prodigio, edito nel 1995 da Giuntina con la traduzione di Vanna Vogelmann (entrambi conosciuti da una relativamente ristretta cerchia di appassionati), è solo con la pubblicazione presso Adelphi nel 2005 di Suite francese che vengono apprezzate la figura e l’opera di un’Autrice, da considerare tra i maggiori narratori del Novecento. Nata nel 1903 a Kiev da una ricca famiglia ebraica di origini francesi, Irène cresce senza l’affetto dei genitori: il padre, potente banchiere, sempre impegnato con i suoi affari; la madre è una donna fredda ed egocentrica. La ragazzina si appassiona ben presto alla letteratura -in primo luogo francese-, alla scrittura ed alle lingue. Dopo russo e il francese (conosciuto grazie alla governante) ella studia e impara il polacco, l’inglese, il basco, il finlandese, lo yiddish. Nel 1917, a causa della Rivoluzione, la famiglia lascia la Russia e si stabilisce definitivamente in Francia. Laureatasi alla Sorbona e pubblicato il suo primo lavoro letterario nel 1921, nel 1926 Irène sposa Michel Epstein, giovane ingegnere, dal quale avrà due figlie (Dénise, nel 1928, e Élisabeth, nel 1937). Il suo primo romanzo David Golder (1929), pubblicato da Grasset, riscuote grande successo. Segue un periodo fecondo di rilevante produzione letteraria. Per gli Ebrei si preparano tempi cupi.
Nella vana speranza di salvarsi dal nazismo dilagante in Europa, negli anni successivi Irène si converte al cristianesimo e fa battezzare le figlie. Invano. Arrestata, muore ad Auschwitz nell’agosto 1942 (non si sa se di tifo o perché uccisa nella camera a gas); il coniuge amato subirà la medesima sorte poco tempo dopo. Nei mesi che precedettero il suo arresto ella aveva composto di getto i primi due romanzi di una grande "sinfonia in cinque movimenti" con l’intento di raccontare, per così dire in tempo reale, la tragica parabola della Francia conquistata dai nazisti: Tempesta in giugno (la fuga in massa dei parigini alla vigilia dell'arrivo dei tedeschi) e Dolce (l’amore impossibile tra una "sposa di guerra" e un giovane militare tedesco). Dopo l’arresto dei genitori, Dénise e Élisabeth si nascondono grazie all’aiuto di alcuni amici di famiglia e portano in salvo, nascosti in una valigia (loro inseparabile compagna per tanto tempo!), i manoscritti inediti della madre, tra cui Suite francese, che riunisce i due racconti di cui sopra.
Grazie a Dénise, cui per troppi anni il dolore aveva impedito di leggere quelle pagine, il romanzo è pubblicato con enorme successo, in Francia, nel 2004 dalle Edizioni Denoël, e, l’anno dopo, nel nostro Paese, da Adelphi. Tornerò entro breve tempo sulle opere maggiori di questa grande scrittrice. Al momento focalizzo l’attenzione su Jour d’été, uscito, com’è scritto nell’esauriente postfazione di Antonio Castronuovo, nel 1935 su La Revue des Deux Monde, quale primo di quattro racconti pubblicati da Nèmirovsky sul prestigioso periodico letterario francese.
Ideale introduzione è una foto estiva dell’Autrice, seduta sul muretto di una casa di campagna, tra due piante in vaso. Una donna giovane, magari non bella secondo i prevedibili canoni tradizionali, ma dallo sguardo forte, lievemente interrogativo. Col pollice e l’indice della mano destra regge un oggetto, non ben identificabile: magari si tratta di un sassetto con cui ha appena giocato a farlo rimbalzare sullo specchio d’acqua poco lontano. Il racconto è ambientato in una grande villa di campagna posta nell’Île de France, la regione attorno a Parigi. La piccola Anna Maria si appresta a festeggiare il suo quinto compleanno; è felice e gioca, apparentemente spensierata. Tutta la natura di un giorno d’estate sembra esistere grazie a lei e per lei. La gioia della bambina è tuttavia velata da una certa inquietudine perché ella, sotto le filastrocche recitate a più riprese, percepisce in modo istintivo, com’è tipico dell’età, il contrasto che oppone l’un l’altro i genitori, entrati in scena poco dopo. La madre, Simone, le si rivolge con voce “pungente e irritata”, quasi che la figlia avesse combinato qualcosa…..Irène evoca il ricordo della propria madre, così lontana e avara di affetto.Il padre, Francis Morcenx, precocemente invecchiato, insoddisfatto, è uno di quegli uomini all’antica che ritengono comportamento obbligato il non parlare alla moglie dei propri problemi.Tra i due coniugi vi è incomprensione, incapacità di dialogo vero, fastidio per un nonnulla e quel non so che di risentimento, un rinfacciarsi qua e là…il continuo brontolio vittimistico di lei, pronto a deflagare in scenate di gelosia, con il materializzarsi nella mente di un’ipotetica rivale dell’esistenza della quale, tuttavia, ella non ha né indizi, né tantomeno prove; ma ciò, si sa, interessa poco. I due hanno, come terreno comune, ormai solo un frettoloso (e freddo) trattare i problemi pratici quotidiani e il biasimo nei confronti del padre di Simone, il padrone della casa. Realtà incapsulata nelle convenzioni che scandiscono i vuoti riti di ogni giorno. Un solo momento di spontaneità: sulla strada polverosa, “oltre il cancello, passarono dei bambini a piedi nudi…”, una simbolica danza ancestrale, visione scomparsa ben presto. Eccolo, il padrone di casa, il vecchio Ferdinand Lucain, ritratto con poche, efficaci pennellate. Freddo, sicuro del dominio esercitato sugli altri, considerati solo come esseri a sua disposizione, a cominciare dai più stretti familiari. La sicurezza gli deriva dalla posizione socio economica di cui gode, ma l’ombra della morte gli s’insinua accanto pian piano per prendersi gioco di lui…Racconto brevissimo, molto intenso proprio per questa sua concentrazione, che si svolge su due piani, ad una prima occhiata estranei, ma in realtà intimamente collegati tra loro. E’ il padre di lei la vera causa del dissidio tra Simone e Francis; quest’ultimo sconta la scelta di un “matrimonio d’interesse” e ritiene di prendere una decisione da uomo di carattere andandosene di casa, cioè rimuovendo il problema; ma probabilmente non andrà lontano e ritornerà, prima o poi, inevitabilmente, per godersi le lagnanze della consorte e il disprezzo del suocero. Sotto il cielo di una natura calma e indifferente, pulsa il cuore della novella: il contrasto drammatico tra il desiderio di vita della piccola e le miserie degli adulti, sempre più soli e incapaci di amore partecipato ed autentico.
Mara Marantonio http://www.angolodimara.com/


Gerusalemme Yad Vashem


«Non possiamo dimenticare quel treno partito per Auschwitz nel silenzio»

Roma - Usciti dallo Shabbat, gli ebrei riaccendono i telefoni e si confrontano, cercando le parole adatte a esprimere il disagio, fortissimo, ma anche la distanza, e l'equilibrio sembra impossibile. In serata arriva il comunicato congiunto, che rappresenta la valutazione ufficiale del mondo ebraico italiano sulla spinosa vicenda. «A proposito della firma del decreto sulle virtù eroiche di papa Pio XII precisiamo che non possiamo in alcun modo interferire su decisioni interne della Chiesa che riguardano le sue libere espressioni religiose. Se tuttavia la decisione di oggi dovesse implicare un giudizio definitivo e unilaterale sull'operato storico di Pio XII ribadiamo che la nostra valutazione rimane critica». A firmarlo sono il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni, il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) Renzo Gattegna e il presidente della Comunità di Roma Riccardo Pacifici. La critica, che parte da lontano, da quando per la prima volta si ipotizzò la beatificazione del Papa colpevole a giudizio di gran parte del mondo ebraico di un silenzio troppo grande, viene così articolata: «La commissione congiunta degli storici del mondo ebraico e del Vaticano - prosegue la nota - è ancora in attesa di accedere agli archivi di quel periodo. Non dimentichiamo le deportazioni degli ebrei dall'Italia e in particolare il treno di 1021 deportati del 16 ottobre 1943 che partì verso Auschwitz dalla stazione Tiburtina di Roma nel silenzio di Pio XII. Il mondo ebraico - concludono Di Segni, Pacifici e Gattegna - continua ad essere riconoscente ai singoli e alle istituzioni della Chiesa che si adoperarono per salvare gli ebrei perseguitati». «La questione degli archivi del Vaticano resta apertissima - spiega Marcello Pezzetti, direttore della Fondazione Museo della Shoah di Roma - Noi storici non abbiamo mai avuto accesso ad alcun documento successivo al settembre del '43, abbiamo potuto analizzare solo una selezione scelta dalla Santa Sede. Si dice che Pio XII poco dopo il rastrellamento del ghetto emanò una direttiva con cui chiedeva alle istituzioni religiose di accogliere gli ebrei: bene, ma questo documento noi non l'abbiamo mai visto. Se le carte fossero pubbliche si porrebbe fine a queste ipotesi e illazioni che non depongono certamente a favore di Pio XII. Ritengo che questa decisione intaccherà negativamente i rapporti col mondo ebraico; come si fa a fare santa una persona che non ha scomunicato un regime dichiaratamente omicida, che ha ucciso i disabili, gli ebrei, gli zingari... Si avvicina la visita di Ratzinger in sinagoga, il 17 gennaio: penso che i sopravvissuti allo sterminio esprimeranno la loro legittima protesta». Dubbi, critiche, sconcerto agitano la comunità ebraica. La storica Anna Foa dichiara di «essere contraria sia alla leggenda nera su Pio XII», che lo vuole connivente col regime nazifascista «che alla leggenda rosa», ritenendo entrambe deformazioni della realtà, ma riconosce «alla Chiesa il diritto di far santo chi vuole». Stesso concetto esprime Giuseppe Laras, presidente dell'Assemblea rabbinica italiana: «Il processo di beatificazione è una questione interna della Chiesa che va rispettata. Ma non posso non pensare a ci che accadde al tempo della Shoah. La figura di questo pontefice controversa: comunque non seppe gridare forte il suo sdegno e la sua opposizione allo sterminio». «Bisogna scindere l'aspetto teologico dal giudizio storico - aggiunge Guido Vitale, direttore del periodico Pagine ebraiche - Ma sarebbe ingenuo pensare che il dialogo sia una strada facile, senza ambiguità». E a questo proposito Vitale descrive la vignetta di Enea Riboldi che uscirà sul prossimo numero: Benedetto XVI a mo' di funambolo che attraversa il Tevere sul filo col bilanciere: uno dei due pesi dice dialogo, l'altro conversione . Come a dire, tutto ancora. in salita.Francesca Nunberg, Il Messaggero, 20 dicembre 2009


Gerusalemme il Santo Sepolcro

Pio XII e gli ebrei. Analisi insoddisfacente
Giovanni Sale è direttore dell’Istituto storico della Compagnia di Gesù e redattore della Civiltà Cattolica. Il suo nuovo libro si intitola Le leggi razziali in Italia e il Vaticano (Jaca Book, 303 pagine) e Pagine Ebraiche è stato tra i primi a ottenerne una copia. Il volume si occupa prevalentemente del periodo che va dal 1937 alla morte di Pio XI nel febbraio 1939, ciò a causa sia della perdurante chiusura agli studiosi dell’archivio storico di Pio XII sia del fatto che comunque fu nel secondo semestre del 1938 che la vicenda ebbe il massimo sviluppo. A voler essere precisi un fatto nuovo lo si ebbe nella complessa estate 1943, quando si informò il ministro dell’Interno del nuovo governo Badoglio che alcune norme della legislazione antiebraica fa fascista erano per la Chiesa cattolica “meritevoli di conferma”. Su ciò però Sale non si sofferma: la sua narrazione si conclude rigorosamente prima della caduta di Mussolini e dell’inizio del processo di abrogazione. Il libro è interessante e insoddisfacente. E’ interessante perché il gesuita pubblica vari documenti inediti del ricco archivio della rivista La Civiltà Cattolica e rende noti ulteriori testi dell’archivio vaticano. E’ insoddisfacente perché il volume è gravemente non curato. Che dire, ad esempio, della riproduzione di una lettera a Pio XI recante in calce la firma collettiva “un fortissimo numero di Cattolici di Sesto San Giovanni” e pubblicata sotto il titolo “lettera di un gruppo di ebrei”? (la missiva comunque vale la firma, perché è una protesta contro la “ingiustizia grande” fatta ai “nostri fratelli”). La lettura dei documenti di questo libro quindi non può sostituire la consueta ricerca in archivio. Però essa propone comunque alcune novità. Come alcuni scritti vaticani del 1937, che attestano una sorta di apprezzamento divergente del Vaticano verso il decreto legge fascista contro il concubinato tra bianchi e nere (per il governo era una questione di “difesa della razza”, per la Chiesa cattolica era una moralizzazione opportuna da non estendere però ai matrimoni veri e propri). Per quanto concerne gli aspetti principali della politica della Santa Sede, possiamo riassumere che la documentazione offertaci da Sale non contiene novità né riguardo al giudizio di Pio XI sulla nota bozza di “enciclica mancata” su razzismo e antisemitismo (continua a esserci del tutto ignoto), né riguardo ad altre sue espressioni pubbliche contro l’antisemitismo oltre a quelle pronunciate il 6 settembre 1938. La narrazione dell’autore inoltre conferma (al di là del proprio molto ottimistico approccio) che il Vaticano si mosse innanzitutto per difendere le persone di “razza” ebraica e di religione cattolica: soprattutto relativamente al loro diritto a coniugarsi con cattolici, poi anche a quelli di studiare, a evitare il lavoro precettato, eccetera. Il libro si apre con un saggio introduttivo di Emma Fattorini e tra lei e Sale si sviluppa una netta divergenza riguardo a una particolare questione (il fatto non è usuale nell’editoria ed è indice di vitalità). Per il gesuita, i documenti inediti da lui riprodotti confermano che il vertice della Compagnia di Gesù non bloccò l’iter della bozza di enciclica pontificia e che furono “ambienti vaticani” e lo stesso Pontefice a ritenere quel testo “non opportuno o semplicemente controproducente”. La storica scrive invece che la nuova documentazione, “lungi dall’allontanare i sospetti”, “rinforza” i già numerosi indizi che portano a un “attivo rallentamento e insabbiamento” attuato proprio dal generale dei gesuiti. A me pare che abbia ragione Fattorini, senza però escludere il possibile intervento di altri alti esponenti antigiudaici e reazionari. Aggiungerei anche, per usare le parole di Giovanni Miccoli del 1997, “tutta la difficoltà del pensiero cattolico di avviare un discorso positivo sugli ebrei”. Certo è che nell’autunno-inverno 1938-1939 Oltretevere vi fu guerra su questo tema. E, anche a seguito di malattie e morti, vinse la linea di Pacelli. Michele Sarfatti, direttore della Fondazione Cdec, tratto da Pagine Ebraiche - gennaio 2010


GerusalemmeYad Vashem

Nel furto dell’insegna di Auschwitz, oltre alla stupidità, o alla “banalità del male” c’è sicuramente l’oltraggio alla memoria. Ma non solo. E mi spiego. In un film a episodi di Dino Risi, “I mostri”, c’è un brano, dal titolo “Scenda l’oblio”, in cui si vede una coppia di spettatori, interpretati da Luisa Rispoli e Ugo Tognazzi, che al cinema sta vedendo un film sulla Resistenza. La scena è quella di un gruppo di partigiani che addossati a un muretto di una casa in campagna, sono fucilati da una squadra di SS. Compiuta l’esecuzione, il personaggio interpretato da Tognazzi si rivolge alla moglie e le dice: “Ecco, nella nostra villetta al mare dovremmo costruire un muretto proprio come quello!”. Qualcosa del genere mi immagino sia accaduto l’altra notte. Qualcuno deve aver pensato che aveva bisogno di una bella insegna in ferro battuto per poter dare un tocco “casual” al proprio cancello o al muro spoglio della propria tavernetta e, non avendo tempo, - Natale è alle porte - ha pensato che la maniera non solo migliore, ma anche più celere, fosse quella di rubarlo. Non c’è bisogno di essere neonazisti, basta essere indifferenti.
David Bidussa,storico sociale delle idee, http://www.moked.it/unione_informa/


Targa Auschwitz, offerta ricompensa

25mila euro per informazioni utili
Il museo del campo di sterminio nazista di Auschwitz ha promesso una ricompensa di circa 25mila euro (100mila zloty) per ogni informazione che possa contribuire al ritrovamento della storica iscrizione "Arbeit macht frei" ("Il lavoro rende liberi"), rubata nella notte fra giovedì e venerdì. "Informiamo - si legge in un comunicato - che il direttore del museo nazionale di Auschwitz-Birkenau, promette una ricompensa per ogni informazione". Nel frattempo migliaia di agenti sono in prima linea nella caccia ai ladri profanatori. La polizia sta esaminando i video delle telecamere e privilegia l'ipotesi di un furto su commissione, opera di professionisti che potrebbero aver agito per conto di un ricco mandante. "Gruppi estremisti, o folli collezionisti di cimeli del Terzo Reich", come ha suggerito una portavoce delle forze dell'ordine.Tra il 1940 e il 1945, nel campo di Auschwitz-Birchenau i nazisti sterminarono oltre un milione di persone, di cui un milione di ebrei. Fra le altre vittime, soprattutto polacchi non ebrei, rom e prigionieri di guerra sovietici. Le autorità del museo hanno già provveduto a installare all'ingresso del campo una copia della scritta, realizzata in occasione di un periodo di restauro dell'originale, divenuto il drammatico simbolo dell'Olocausto.Reazioni di sdegno si sono susseguite in tutto il mondo, a partire da Israele dove il presidente Shimon Peres si è detto "profondamente scioccato". "L'iscrizione ha un profondo significato per gli ebrei come per i non ebrei come simbolo dell'oltre milione di vite perite a Auschwitz", ha dichiarato nel corso di un incontro speciale con il primo ministro polacco, Donald Tusk, a margine del summit sul clima a Copenaghen. "Lo stato di Israele e la comunità ebraica internazionale vi chiedono di fare tutto il possibile per trovare i criminali e rimettere l'iscrizione al suo posto".19/12/2009, http://www.tgcom.mediaset.it/

domenica 20 dicembre 2009





"Nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. ... E anche quando qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti ... e crederà a noi che negheremo tutto" (Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986)