lunedì 21 dicembre 2009


A Minneapolis, l’ebraismo a ritmo di reggae dei fratelli Ethan e Joel Coen

Siamo premi Oscar e raccontiamo il nostro ebraismoL’umorismo noir. Il desiderio di indagare le proprie radici, specie quando ci si avvicina ai 50 anni. l’impronta del mondo yiddish che si ammanta di esotismo. Parlano i due geniali enfant prodige del cinema americano, alle prese con il più “ebraico” dei loro film La nostra identità è legata al luogo dove siamo nati e cresciuti”. E questo luogo, nel caso dei fratelli Joel ed Ethan Coen, è la comunità ebraica di St. Louis Park, sobborgo di Minneapolis, Minnesota. Località non certo conosciuta dal grande pubblico fino a poco tempo fa, ma che oggi è sugli schermi cinematografici di tutto il mondo, grazie al nuovo film dei due noti registi americani, A serious man, uscito in Italia il 4 dicembre. “Il più ebraico dei loro film”, lo ha definito non a torto la stampa di tutto il mondo. D’altronde, l’incipit del film, con una scena parlata in yiddish e ambientata in un non ben identificati shtetl dell’Europa Orientale, annuncia subito in che mondo siamo entrati. Nella storia dell’ebreo Larry Gopnik (l’attore Michael Stuhlbarg), si tocca con mano e si respira l’aria di una autentica e reale comunità ebraica del Minnesota: quella in cui, negli stessi anni Sessanta in cui è ambientato il film, crescevano un tredicenne Joel e suo fratello Ethan di dieci anni. Il film è il ritratto tragicomico di un uomo che, afflitto da problemi lavorativi e famigliari - moglie che vuole lasciarlo, figli difficili -, cerca risposte nella sua identità ebraica, rivolgendo le proprie domande a tre diversi rabbini. Ma il risultato -che non anticipiamo-, sarà ancora più inquietante. Un film profondamente ebraico e insieme americano, spiazzante e irriverente, in cui trovano spazio un ragazzo che anziché studiare per il suo Bar Mitzvah fuma gli spinelli; e poi la Qabbala, il reggae e Jimi Hendrix, in un mix esplosivo di umorismo noir caratteristico dei fratelli Coen.“Non è un film autobiografico”, sottolineano i registi. Eppure ogni fotogramma è intriso di memoria, ricordi, atmosfere tratte dall’infanzia e giovinezza di allora. “È ovvio che avevamo in mente la comunità dove siamo vissuti”, precisano. “Ed è altrettanto normale che siamo intrisi del luogo dove siamo cresciuti. L’interesse per il proprio passato, per le radici e le origini, cresce quanto più si invecchia. E poi una certa distanza temporale ammanta gli eventi di esotismo, una dolce lontananza che avvolge di una luce rosata tutto ciò che abbiamo conosciuto e vissuto allora”. I due fratelli ammettono anche che i vari personaggi del film sono frutto di un mish-mash, un mix di elementi tratti da persone vere incontrate oggi e ieri. In particolare, per le figure religiose, “ci siamo ispirati al rabbino che conoscevamo da bambini: un vero saggio, che parlava poco, non diceva mai nulla, ma che era molto carismatico”. Personaggi veri e di fantasia convivono quindi nel quadro di un ebraismo anni Sessanta molto Midwest americano, perché, come dice Ethan, “la combinazione dell’essere ebreo e al tempo stesso originario del Minnesota è molto importante”. Ma ci tengono a precisare che, se l’ambientazione è autobiografica, non lo è invece la storia, frutto di pura invenzione: “Il contesto è personale, la storia no”.Comunque sia, quest’ultimo film racconta in modo esplicito quella che è stata l’infanzia e l’adolescenza dei due registi, il loro ambiente ebraico e le sue complessità. Nati a Minneapolis, Joel nel 1954 e Ethan nel 1957, crescono a St. Louis Park, un sobborgo della città del Minnesota. I genitori, Edward e Rena, sono entrambi ebrei liberal americani: l’uno docente di Economia all’Università del Minnesota e l’altra di Storia alla St. Cloud State University. “I nonni materni erano molto ortodossi”, spiega Joel, “e nostra madre era molto osservante, tanto che ci mandava tutte le settimane in sinagoga”. Mentre il padre Edward mangia taref fuori casa, lontano da occhi indiscreti. I due fratelli, quindi, fanno il Bar Mitzvah e frequentano la scuola ebraica, anche se, confessano, di aver provato da ragazzini l’irresistibile tentazione di assaggiare di nascosto il prosciutto, trasgressione poi avvenuta e considerata dalla madre cosa gravissima.Come quindi non vedere in Danny - il figlio del protagonista Larry alle prese con il Bar Mitzvah, gli spinelli, l’ossessione per gli show televisivi kitsch come F Troop e la musica - i giovani Coen in piena adolescenza? Sono infatti loro stessi ad ammettere che il Bar Mitzvah fu per loro un obbligo imposto dai genitori. “Lo abbiamo fatto perché non avevamo scelta, come era d’altronde frequente nella nostra comunità”, spiegano. “Avremmo volentieri rinunciato ai regali pur di non fare il Bar Mitzvah”. Ma il legame alla tradizione ortodossa della famiglia, soprattutto quella materna, ha la meglio. Fino a oggi. Le somiglianze fra film e vita, però, non finiscono qui. Nella scelta di non sottotitolare le scene delle lezioni di ebraico, si nasconde la volontà di ricreare il senso di sospensione annoiata che da giovani provavano a scuola. Ma in realtà elementi della identità ebraica dei Coen si ritrovano anche in molti dei film precedenti. Basti pensare a Walter Shobchak (John Goodman), il veterano del Vietnam compagno di bowling del protagonista (Jeff Bridges) ne Il grande Lebowsky, che dichiara di rispettare Shabbat: “Io non rollo gli spinelli di Shabbos, non guido, non parlo al telefono, non uso il forno. È Shabbat, il giorno di riposo per noi ebrei”. “Tutta l’idea di questo reduce dal Vietnam che si auto-proclama religioso ci pareva alquanto ironica e divertente”, dicono i Coen. Ma anche il protagonista di Barton Fink, un John Turturro nei panni di un giovane commediografo ebreo coinvolto in un’improbabile storia noir, ha molto carattere jewish. L’ebraismo dei fratelli Coen emerge quindi in diversi contesti: in quello surreale di Barton Fink, in quello più ironico del Grande Lebowsky, e in quello più reale e comune di A serious man.E anche nei racconti di Ethan Coen I cancelli dell’Eden, pubblicati nel 1998, c’è posto per Talmud e sionismo.Ma questi ritratti un po’ stereotipati non rischiano di dare un’immagine sbagliata dell’ebraismo? “Non ci interessa molto quello che pensa la gente”, spiega Joel. “Tutti i nostri film raccontano delle diverse identità e quando lo fai è normale che qualcuno si offenda. Accadrebbe comunque, a meno che la vicenda non sia poco interessante e astratta”. E il pessimismo che emerge nelle vostre storie, dove lo mettiamo? “Siamo ebrei”, dice Ethan Coen. “Un certo pessimismo c’è sempre, emerge qui e là mescolato allo humour”.di Ilaria Myr http://www.mosaico-cem.it/

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