sabato 31 maggio 2008

























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Vivere in Israele al confine con Gaza
Impressioni di viaggio.

11 maggio 2008, sono su un aereo, diretto a Tel Aviv per motivi di lavoro. Ormai a metà viaggio, scopro che la signora seduta a fianco a me è Avirama Golan, una giornalista del quotidiano Ha'arez, che gode di grande popolarità in Israele. E’ di ritorno dalla fiera del libro di Torino (dove anche io sono stato nel giorno dell’inaugurazione) così ci scambiamo le sensazioni che ne abbiamo colto dalle nostre diverse angolazioni: io ebreo della diaspora e lei ebrea israeliana e in questo caso autrice di libri. Avirama infatti vi ha preso parte non in qualità di giornalista inviata, bensì di scrittrice e a Torino ha presentato la sua opera prima “I Corvi”, edito in lingua italiana da Giuntina. E’ molto stanca perché ha sostenuto numerose interviste e mi spiega che i suoi colleghi italiani oltre a rivolgerle domande sul contenuto del libro, spesso le hanno chiesto di parlare del problema della sicurezza per chi vive in Israele. Pur senza saperlo i giornalisti italiani hanno rivolto queste domande ad una persona che può davvero rispondere con cognizione di causa, infatti la vita della Golan si divide tra due città israeliane, una delle quali è Sderot, la città a nord della striscia di Gaza che da alcuni anni ormai subisce continuamente il lancio di razzi da parte di Hamas. A me aspetta una settimana di lavoro intenso e ancora non posso immaginare che saranno giorni segnati da diversi episodi di sangue. In coincidenza con la visita di George Bush a Gerusalemme, Hamas darà il suo “benvenuto” al Presidente americano e alla delegazione internazionale che prenderà parte al convegno organizzato dal presidente Peres, con un fitto lancio di razzi dalla striscia di Gaza. Lunedì muore una donna anziana del kibbutz Gvar-am mentre è in visita ad alcuni amici in un moshav presso Askelon, martedì muore un medico membro del kibbutz Kfar-aza, colpito da un razzo kassam mentre si dedica al giardinaggio fuori da casa, e mercoledì un missile Grad centra in pieno il centro commerciale “Canyon Hutzot” di Askelon, sfondando il tetto e i due piani sottostanti. Sotto le macerie verranno estratti 29 corpi, nessun morto, ma alcuni feriti gravi. Di queste tre notizie nessuna verrà diffusa dai Media italiani.Il mio lavoro mi spinge proprio in quei giorni nei pressi di Askelon e poi passerò il fine settimana sempre in zona, presso il kibbutz Yad Mordechay, dove vivono dei miei conoscenti. Il kibbutz sorto nei primi anni ’40 porta questo nome in ricordo e in onore di Mordehai Anilevich, il giovanissimo eroe che condusse la rivolta del ghetto di Varsavia nel 1943, poi ucciso dai nazisti. Questo nome eroico fu in qualche modo premonitore di quelle che sarebbero state le sorti di questo bel kibbutz. Nel 1948 quando tutti gli stati Arabi del Medioriente dichiararono simultaneamente guerra a Israele all’indomani della dichiarazione di indipendenza, Yad Mordechay fu teatro di scontri durissimi e drammatici. I carroarmati egiziani partirono alla conquista di Tel Aviv certi di cogliere impreparati i nemici e di non trovare resistenza particolare lungo la strada. Ma a Yad Mordechay una “soffiata” permise ai suoi residenti di farsi trovare pronti ad opporre resistenza. Le forze in campo erano ovviamente impari ma per 6 giorni i membri del kibbutz riuscirono ad arrestare la corsa degli egiziani pagando un prezzo molto alto in vite umane, dando però il tempo all’esercito israeliano di organizzarsi. Il kibbutz fu conquistato e occupato, ma pochi chilometri più a nord i soldati israeliani riuscirono a bloccarne definitivamente l’avanzata.A distanza di tanti anni Yad Mordechay vive nuovamente una situazione molto negativa dal punto di vista della sicurezza dei suoi abitanti. Il confine con Gaza è talmente vicino che per vedere al di là non serve un binocolo e dall’anno 2000, con l’inizio della seconda intifada, la pioggia di razzi è continua. Si tratta prevalentemente di razzi kassam, cioè razzi piuttosto rudimentali dal punto di vista balistico e con una forza esplosiva relativamente limitata, che però grazie a ciò possono essere lanciati con dei semplici mortai a corta gittata. In pratica i terroristi di Hamas si muovono all’interno della striscia di Gaza con semplici auto sulle quali trasportano razzi e mortai, poi sono in grado di fermarsi in qualunque posto e in qualunque momento, montare velocemente il mortaio e lanciare i loro razzi, senza che l’esercito israeliano possa far nulla per evitarlo. Non è possibile cioè colpire preventivamente coloro che compiono queste azioni, perché le loro postazioni sono mobili. E così Israele è corsa ai ripari realizzando un sistema di difesa elettronico in grado di rilevare quando avviene un lancio: con l’appoggio anche di un dirigibile che stazione permanentemente sulla fascia di confine tra Israele e Gaza, un’antenna principale e una serie di ripetitori sparsi nella zona, il sistema è in grado di registrare il decollo dei razzi e di lanciare immediatamente un allarme sonoro tramite forti sirene. Dal momento del lancio al momento della deflagrazione trascorrono solo 15-20 secondi. In questo breve intervallo di tempo le persone non possono far altro che accovacciarsi nei pressi di un muro portante (in casa, in ufficio, a scuola, in un centro commerciale) e sperare qualora il razzo colpisca l’edificio in cui si trovano, che il crollo di muri e pavimenti li lasci illesi o solo contusi. Presso Yad Mordechay sono già caduti dei razzi più volte negli ultimi anni, ma miracolosamente non hanno fatto morti. Morti no, ma molta paura si. La gente vive con l’ansia di chi sa che in qualunque momento potrebbe accadere il peggio. In particolare per preservare la vita dei bambini e dei ragazzi sono stati presi alcuni provvedimenti. Asili nido e scuole materne sono state coperte con costruzioni di cemento armato realizzate e finanziate dall’Esercito che possono reggere l’urto di un razzo. Per gli studenti sono state costruite delle nuove aule: delle casette col tetto rinforzato e porte e finestre con lastre d’acciaio da chiudere quando il suono delle sirene avverte che scatta lo stato di allerta: “zeva adom” letteralmente “colore rosso”. Le aule “normali”, cioè non ancora protette in questo modo, hanno fuori dall’ingresso una sorta di ricovero di cemento armato, molto rudimentale, dove gli studenti devono correre durante quei 15-20 secondi fatidici. Ma i razzi cadono prevalentemente di notte: nel silenzio rotto dal suono assordante della sirena, ognuno sa ormai quello che deve fare, bambini, genitori e gli insegnanti responsabili del Campus in cui vivono sia studenti nati in Kibbutz, sia studenti provenienti da alcuni Paesi dell’Est Europa. A volte di notte suona anche una sirena differente: è quella che scatta quando da Gaza qualcuno cerca di entrare in territorio israeliano forzando la recinzione metallica che funge da confine. Anche in questo caso presso il Kibbutz Yad Mordechay viene messo in pratica un sistema di difesa, per prevenire che i terroristi possano penetrare all’interno del kibbutz attraversando quel paio di chilometri che lo separano da Gaza.In passato i membri del kibbutz Yad Mordechay vivevano nella speranza che un giorno, una volta abbandonata militarmente e civilmente la striscia di Gaza da parte degli israeliani, la pace sarebbe “scoppiata” e loro avrebbero potuto condurre una vita serena. Oggi, a distanza ormai di un paio d’anni dall’evacuazione di Gaza, le loro condizioni sono assolutamente critiche e si ritrovano a fronteggiare un problema che pare aggravarsi ogni giorno e che non offre speranze per il futuro. Nel loro pragmatismo tipico da israeliani, i miei amici di Yad Mordechay mi spiegano che ad oggi con il lancio dei kassam hanno potuto ancora sopravvivere, ma che se lo scontro subirà un’ulteriore escalation e da Gaza cominceranno a piovere razzi più pesanti e precisi (come il Grad lanciato sul centro commerciale di Askelon), si avranno conseguenze gravissime in termini di vite umane e ciò non potrà che portare ad una inasprimento del conflitto Israelo-palestinese. La paura è che il cessate il fuoco di cui si parla in questi giorni, grazie alla mediazione dell’Egitto, possa in realtà consentire ad Hamas di attrezzarsi molto più pesantemente in termini di armamenti.Quando sabato sera riparto alla volta di Tel Aviv, dove la vita pulsa frenetica, mi rendo conto che non solo al di fuori di Israele nessuno ha chiaro ciò che vivono quotidianamente gli abitanti della regione di Askelon e di Sderot, ma che gli stessi Israeliani ne conoscono solo una parte.
Ancora: Le aule di nuova costruzione per le scuole superiori presso il kibbutz Yad Mordechay. Muri in cemento armato e coperture in acciaio per porte e finestre. Presso il kibbutz Yad Mordechay fuori dalle aule “normali”, cioè non protette, sono stati collocati dei ricoveri provvisori di cemento armato, dove gli studenti corrono per ripararsi quando scatta l’allarme razzi. Gli asili sono stati recintati con doppia rete metallica per prevenire eventuali intrusioni e sugli edifici sono state costruite delle protezioni in cemento armato anti-razzo. Le classi delle scuole elementari hanno un ricovero in cemento armato collegato dall’interno, nel quale si chiudono i bambini in caso di allarme rosso.
Marco KrivacekMilano 29/05/08
dal sito della comunità ebraica di Milano - inviatomi da Solange


La difficile situazione di Israele a 60 anni dalla sua nascita: il paese con i peggiori vicini al mondo

Due nuovi stati religiosamente identificabili sono emersi dai frammenti dell'Impero britannico successivamente alla Seconda guerra mondiale. Ovviamente, uno era Israele e l'altro il Pakistan.
Essi formano una coppia interessante, anche se i due paesi di rado sono messi a confronto. L'esperienza del Pakistan con la dilagante povertà, i pressoché costanti disordini interni e le tensioni esterne, culminanti nella sua attuale condizione di stato canaglia "in pectore", fa venire in mente i pericoli che Israele ha evitato grazie alla sua stabile e progressista cultura politica, a un'economia dinamica, a un settore high-tech all'avanguardia, a una cultura pulsante e ad una impressionante coesione sociale.
Ma a causa di tutti i suoi successi, lo Stato ebraico vive con una spada di Damocle sul capo, un'insidia che il Pakistan e la maggior parte di altri stati non hanno mai dovuto fronteggiare: la minaccia dell'eliminazione. I suoi notevoli progressi conseguiti nel corso dei decenni non lo hanno liberato da un pericolo proveniente da più fronti che annovera quasi tutti i mezzi immaginabili: armi di distruzione di massa, attacchi militari convenzionali, terrorismo, sovversioni interne, blocchi economici, assalti demografici e indebolimenti ideologici. Nessun altro stato si trova a dover fronteggiare una serie di minacce del genere. Anzi, per meglio dire, probabilmente nel corso della storia nessuno stato ha mai dovuto far fronte ad esse.
I nemici di Israele si suddividono in due principali schieramenti: la Sinistra (ovviamente solo la parte radicale nr) e i musulmani, con l'estrema Destra che costituisce un terzo elemento minoritario. La Sinistra include una fanatica frangia estrema (International ANSWER, Noam Chomsky) e un centro più diplomatico (l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Liberal Party canadese, i media tradizionali, le principali chiese, i libri di testo). Ma in ultima analisi, la Sinistra è poco meno di una forza ausiliaria rispetto al principale attore antisionista per eccellenza, vale a dire la popolazione musulmana. Quest'ultima, a sua volta, può essere divisa in tre raggruppamenti distinti.
Il primo equivale ai paesi stranieri. Cinque forze armate che invasero Israele al momento della proclamazione della sua dichiarazione di indipendenza nel maggio 1948 e poi gli eserciti dei paesi vicini, le forze aeree e navali che combatterono nelle guerre del 1956, 1967, 1970 e 1973. Se la minaccia convenzionale è andata scemando, la proliferazione delle armi da parte dell'Egitto, finanziata dagli Stati Uniti, costituisce un pericolo e le minacce rappresentate dalle armi di distruzione di massa (specialmente da parte dell'Iran, ma altresì provenienti dalla Siria e in fieri da molti altri paesi) costituiscono un'insidia ancor più grave.
Nel secondo gruppo rientrano i palestinesi residenti all'estero, quelli che vivono fuori i confini di Israele. Messi in disparte dai governi dal 1948 al 1967, Yasser Arafat e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) ebbero la loro opportunità al momento della sconfitta di tre eserciti nazionali nella guerra dei Sei Giorni. I successivi sviluppi, come la guerra del Libano del 1982 e gli Accordi di Oslo del 1993, confermarono la centralità dei palestinesi residenti all'estero. Oggi, essi conducono il conflitto, attraverso la violenza (terrorismo, lancio di missili da Gaza) e cosa ancor più importante, veicolando l'opinione pubblica mondiale contro Israele grazie a uno sforzo di pubbliche relazioni, con ampia risonanza tra i musulmani e la Sinistra.
Del terzo gruppo fanno parte i cittadini musulmani di Israele, le cellule dormienti dell'equazione. Nel 1949, essi ammontavano appena a 111.000 ovvero il 9 percento della popolazione israeliana, ma nel 2005 il loro numero si è decuplicato fino a toccare punte di 1.141.000, il 16 percento della popolazione. Costoro hanno beneficiato della mentalità aperta di Israele, crescendo demograficamente ed evolvendosi da docile e inefficiente comunità in una assertiva, di quelle che rifiutano sempre più la natura ebraica dello stato israeliano, con delle conseguenze potenzialmente profonde per la futura identità di quello stato.
Se questa lunga lista di pericoli differenzia Israele da tutti gli altri paesi occidentali, costringendolo a tutelarsi quotidianamente dalle fila dei suoi innumerevoli nemici, la difficile situazione in cui esso versa lo rende stranamente simile ad altri paesi mediorientali, che fronteggiano altresì una minaccia di eliminazione.
Il Kuwait sconfitto dall'Iraq è di fatto scomparso dalla faccia della terra tra l'agosto del 1990 e il febbraio 1991 e se non fosse stato per una coalizione guidata dagli Stati Uniti, esso di certo non sarebbe mai risorto. Il Libano è sotto il controllo della Siria dal 1976 e se gli sviluppi dovessero giustificare un'annessione formale, esso potrebbe essere ufficialmente incorporato da Damasco. Il Bahrein è occasionalmente reclamato da Teheran come parte del territorio iraniano, come è accaduto nel luglio 2007, quando un portavoce dell'Ayatollah Ali Khamenei, leader supremo iraniano, asserì che "oggi la principale richiesta del popolo del Bahrein consiste nel restituire questa provincia (...) alla madrepatria, l'Iran islamico". L'esistenza della Giordania come stato indipendente è sempre stata precaria, in parte, perché esso è ancora considerato uno stratagemma coloniale di Winston Churchill e, in parte, perché diversi stati (Siria, Iraq, Arabia Saudita) e i palestinesi lo ritengono un'ottima preda.
Il fatto che Israele si trovi in compagnia di questi paesi ha delle diverse implicazioni. Ciò mette in prospettiva il dilemma esistenziale dello Stato ebraico. Se nessun paese al di fuori dell'area mediorientale rischia l'eliminazione, all'interno della regione ciò costituisce un problema di pressoché ordinaria routine, denotando che lo status non-definito di Israele non troverà una repentina soluzione. Questo paradigma evidenzia altresì la vita politica unicamente crudele, instabile e fatale del Medio Oriente. Senza ombra di dubbio, si ritiene che la regione annoveri i peggiori vicini al mondo. Israele è il bambino con gli occhiali che cerca di andare bene a scuola, pur vivendo in una zona della città infestata da gang.
La grave ed estesa malattia politica del Medio Oriente dimostra quanto sia errato considerare il conflitto arabo-israeliano come la forza motrice dei suoi problemi. È più ragionevole considerare la difficile situazione di Israele come il risultato della politica tossica della regione. Prendersela con l'autocrazia mediorientale, il radicalismo e la violenza contro Israele è come biasimare lo scolaro diligente per le gang. Viceversa, risolvere il conflitto arabo-israeliano non fa altro che dirimere solamente quello specifico conflitto senza sanare i problemi della regione.
Se tutti i membri di questo quintetto in pericolo si preoccupano per l'estinzione, i guai di Israele sono quelli maggiormente complessi. Essendo lo Stato ebraico sopravissuto alle innumerevoli minacce alla sua esistenza nei passati sessant'anni, ed avendolo fatto senza perdere l'onore, ciò offre un motivo di festeggiamento alla sua popolazione. Ma il giubilo non può durare a lungo, poiché Israele è giusto che torni sulle barricate per difendersi dalla prossima minaccia.
Daniel Pipes National Post 6 maggio 2008 http://it.danielpipes.org/article/5560


Pezzo in lingua originale inglese: Israel's Predicament at 60: World's worst neighbourhood

L'Hapoel Holon festeggia il titolo

Israele, Premier League: dinastia Maccabi al capolinea!

Esito della Final-Four del campionato israeliano a dir poco clamoroso. Dopo un dominio assoluto durato 38 stagioni (37 titoli, 14 dei quali vinti consecutivamente) il Maccabi Tel Aviv abdica ed il titolo passa nelle mani del neopromosso Hapoel Holon. Il killer dei maccabei ha un nome ed un cognome: Malik Dixon, soprannominato il “mago” e già visto furoreggiare a suon di canestri dalle nostre parti, a Biella e Pavia. Alla Nokia Arena finisce 72-73, proprio grazie ad un canestro del “tweener” di Chicago a 2.3 secondi dalla sirena finale. Sorpresa si, ma fino ad un certo punto, dato che l'Hapoel aveva regolato il Maccabi già in regular-season; a dire la verità, segnali poco incoraggianti per il Maccabi c'erano stati anche in semifinale, dove i vice-campioni d'Europa hanno dovuto faticare le proverbiali “sette camicie” per avere la meglio sul non irresistibile Bnei Hasharon (57-55). http://www.basketnet.it/

venerdì 30 maggio 2008

deserto del Neghev - parco Golda
Biografia di Moshe Bejski

L’infanzia in Polonia, la Shoah e l’incontro con Schindler
Moshe Bejski nasce nel villaggio di Dzialoszyce, in Polonia, nei
pressi di Cracovia, il 29 dicembre del 1920. Cresciuto nell’ambiente
ebraico, sente fortemente il peso dell’antisemitismo polacco e,
ancora adolescente, aderisce a un movimento sionista che organizza
il trasferimento in Palestina dei giovani ebrei polacchi per la
costruzione di una nuova patria nella terra promessa. Poco prima
dell’invasione tedesca del 1939 deve rinunciare al suo sogno
sionista a causa di una grave malattia al cuore, che gli impedisce di
partire insieme ai suoi compagni. Nel 1942 tutti gli ebrei vengono
internati. La famiglia Bejski è smembrata: Moshe, insieme ai fratelli
Uri e Dov, finisce nel campo di lavoro di Plaszow, reso tristemente
famoso nel film di Spielberg Schindler’s List per il suo comandante
sadico, Amon Goeth, che si divertiva a usare i prigionieri come
bersagli di un allucinante tiro a segno dalla finestra della sua
camera da letto. I genitori e la sorella, invece, vengono fucilati sul
posto. Moshe riesce ad eludere la sorveglianza delle guardie durante
un turno di lavoro fuori dal campo e cerca invano rifugio presso i
vicini di casa polacchi, i cui figli sono stati, fino al giorno prima,
suoi compagni di scuola e di giochi. Solo un fattorino, suo collega di
lavoro in una ditta di Cracovia, gli offre ospitalità, pur in condizioni
molto disagiate e rischiose, ma anche in questo caso la curiosità
malevola dei vicini vanifica l’unico gesto di generosità di un polacco
verso un ebreo che Moshe abbia conosciuto. Costretto a ritornare
“spontaneamente” nel campo di Plaszow, dove ritrova Uri e Dov,
ottiene fortunosamente di essere inserito con loro nella famosa lista
della fabbrica di Oskar Schindler. In questo modo i tre fratelli Bejski
riescono a salvarsi e sono liberati dall’Armata Rossa nel maggio del
1945. Scoprono la tragica sorte dei genitori e della sorella e
decidono di emigrare in Israele: la Polonia, ormai, non è più la terra
a cui ritornare, ma solo il paese dell’antisemitismo e della
persecuzione del loro popolo.
Moshe inizia una nuova vita nel luogo dei sogni che non aveva
potuto raggiungere da ragazzo. Il sogno sionista si infrange subito
contro la dura realtà: suo fratello Uri viene ucciso da un cecchino
palestinese il giorno del riconoscimento ONU dello Stato ebraico.
Il sogno di diventare ingegnere si scontra invece con le necessità
della vita quotidiana. Moshe è costretto a scegliere una facoltà che
gli permetta di lavorare per mantenersi agli studi e con molti
sacrifici si laurea in giurisprudenza, con una tesi sui diritti deuomo
nella Bibbia. Diventato uno dei più stimati avvocati di Tel Aviv,
sente tuttavia il dovere di sostenere lo Stato d’Israele appena nato e
sceglie la carriera di giudice, fino ad occupare, alla fine degli anni
Cinquanta, l’incarico più prestigioso, di membro della Corte
Costituzionale.
Il processo Eichmann e la Commissione dei Giusti
Moshe Bejski ha lasciato alle spalle il passato in Polonia, di cui non
vuole più parlare. Nessuno conosce la sua storia drammatica e tutti
lo considerano un sionista giunto in Palestina prima della
persecuzione nazista, se non addirittura nato in quella terra.
Solo nel 1961, durante il processo Eichmann, i suoi amici ne
scoprono la vera origine. Chiamato dal pubblico ministero Hausner
a testimoniare sul campo di Plaszow, Bejski fornisce un racconto
sconvolgente di quell’esperienza e trasmette al Tribunale la
sensazione drammatica dell’impossibilità di comunicare il senso di
disperazione e di impotenza dei prigionieri in quelle circostanze.
Per la prima volta in Israele viene alla luce il profondo disagio dei
profughi dell’Europa sopravvissuti alla Shoah, incapaci di inserirsi e
di farsi accettare da una popolazione che li considera con
sufficienza e li accusa, tra le righe, di vigliaccheria o di non essersi
saputi ribellare ai nazisti. Si apre un grande dibattito nel paese,
fomentato anche dall’intervento polemico della filosofa tedesca di
origine ebraica, Hannah Arendt, fuggita in America negli anni ’30, e
finalmente si affrontano i problemi legati alla storia degli ebrei
nell’Europa del Novecento.
Acquisisce la giusta notorietà il Mausoleo di Yad Vashem, eretto a
Gerusalemme a perenne ricordo delle vittime della Shoah e viene
finalmente messo in pratica il punto 9 della sua legge istitutiva del
1953, con il quale lo Stato d’Israele di impegnava a rendere omaggio
ai non ebrei che avevano salvato delle vite ebraiche, concedendo
loro la sua onorificenza più alta, il titolo di Giusto tra le Nazioni.
Viene istituita la Commissione dei Giusti, con il compito di condurre
le inchieste per accertare gli atti di salvataggio e stabilire a chi
assegnare il riconoscimento. Ne diventa presidente il più famoso
giudice d’Israele, Moshe Landau, che aveva diretto il processo
Eichmann, redigendone la sentenza di condanna a morte. Landau
tuttavia lascia presto l’incarico e propone la candidatura di Bejski,
che lo sostituirà nel 1970, mantenendo la presidenza fino al 1995,
quando darà le dimissioni. Nel frattempo, quasi diciottomila Giusti
sono stati insigniti e hanno piantato un albero nel viale a loro
dedicato a Yad Vashem per ricordarne il gesto. Oggi Moshe Bejski,
ormai in pensione, vive a Tel Aviv occupandosi dell’educazione dei
ragazzi, a cui trasmettere la conoscenza della storia della Shoah e le
riflessioni che la sua esperienza gli ha suggerito.
L’eredità
Il ruolo di Moshe Bejski nell’attività della Commissione dei Giusti è
stato decisivo. Mentre Moshe Landau pensava a un organismo che si
occupasse di pochi casi emblematici, Bejski ha ribaltato questa
posizione, con la volontà di attribuire il titolo a tutti coloro che
avevano espresso l’intenzione di andare in soccorso a un ebreo
perseguitato, anche se non erano riusciti a salvarlo o lo avevano
fatto senza correre il rischio della vita. Per il nuovo presidente della
commissione, non era necessario essersi comportati da eroi per
ottenere il riconoscimento. Il gran numero di casi segnalati a Yad
Vashem dimostrava che vi era stato un reale coinvolgimento di
molte persone, di gente comune, nel tentativo di strappare gli ebrei
allo sterminio. Far conoscere le loro storie significava sfatare il mito
che l’opposizione al nazismo fosse un’impresa quasi impossibile, che
non ci fosse la possibilità concreta di aiutare i perseguitati senza
correre rischi estremi. Molte volte sarebbe bastato un piccolo
intervento per impedire una grande tragedia. Ecco perché è
importante valorizzare e rendere pubblico ogni gesto di opposizione
che si è manifestato a favore degli ebrei nell’Europa occupata dai
nazisti.
Per ottenere questo risultato Bejski non si è risparmiato: vi ha
dedicato i suoi anni migliori, rinunciando a gran parte della sua vita
privata, trattenendosi fino a tardi per dirigere le riunioni della
commissione dopo le giornate intense di lavoro alla Corte
Costituzionale. La sua attività, del tutto volontaria, ha saputo
coinvolgere e trasmettere entusiasmo agli altri membri,
allargandone le competenze, creando le sottocommissioni per poter
affrontare più casi, sostenendo il dibattito interno senza mai
rinunciare a indagare fino all’ultimo elemento utile per una
valutazione corretta e leale.
I dilemmi che si è trovato di fronte sono stati enormi: come
giudicare chi ha salvato un ebreo, ma dopo la guerra ha ucciso un
altro uomo, o la donna che ha nascosto dei perseguitati mentre si
prostituiva con gli ufficiali nazisti, o chi ha salvato decine di ebrei in
Polonia senza tuttavia venir meno alle sue convinzioni antisemite, o
ancora, chi ha aiutato ricevendo in cambio del denaro?
Non solo. L’idea della responsabilità personale, del debito morale
dei sopravvissuti, di gratitudine verso chi li aveva salvati, ha spinto
Bejski a occuparsi in prima persona del suo salvatore, Oskar
Schindler. Dopo averlo ritrovato all’inizio degli anni ’60 e averlo
strappato dalla bancarotta e alla prigione in Germania, lo ha
invitato in Israele e si è impegnato strenuamente per il
riconoscimento della sua azione, costretto a scontrarsi con la ferma
opposizione di Landau, fino all’apoteosi del film di Spielberg, che lo
ha reso famoso in tutto il mondo. Oltre a Schindler, Bejski si è
impegnato ad aiutare altri Giusti che vivevano in condizioni
precarie nei paesi dell’Europa Orientale o che avevano bisogno di
assistenza medica e ha condotto una dura battaglia per ottenere
l’impegno dello Stato israeliano nei loro confronti.
Moshe Bejski ci lascia una preziosa eredità. La sua ricerca dei Giusti
ci ha insegnato che si può intervenire contro il Male, con un atto di
Bene, anche senza diventare martiri; che si può aiutare un
perseguitato con un semplice gesto, purché si abbia la spinta morale
a farlo; che non esistono barriere, né di etnia, né di religione, né di
credo ideologico o politico, quando si mette l’uomo al centro del
proprio mondo di valori. Infine ci ha dimostrato che il modo
migliore per salvaguardare l’esempio dei Giusti è di sentirci noi
tutti, in prima persona, responsabili verso di loro, come loro si sono
sentiti responsabili verso degli altri esseri umani.
Raccogliere l’eredità di Moshe Bejski significa ripercorrere la sua
strada, per valorizzare i Giusti di ogni parte del mondo, dovunque e
ogni volta che sono stati perpetrati dei genocidi o altri crimini
contro l’umanità.
da Solange

Gerusalemme

Sabra e Shatila secondo Romano. Disinformazione o amnesie al Corriere

Già diplomatico a Mosca, imbevuto di Realpolitik, editorialista e da qualche anno anche titolare della popolare rubrica delle "Lettere" che fu di Montanelli, l’ex ambasciatore Sergio Romano si è sempre giovato del tono distaccato che devono avere i funzionari delle cancellerie e anche i commentatori e gli storici. Ma a differenza di Montanelli, Romano nasconde sotto il kilt del perfetto conservatore una certa qual benevolenza verso il mondo arabo e i Palestinesi, che lo porta facendo il verso dell’ "equanime" a chiudere un’occhio sulle loro malefatte, e ad essere invece sempre troppo severo con gli ebrei.La sua risposta, sul Corriere della Sera (27 maggio) alla lettera d’un lettore sui fatti di Sabra e Shatila (Libano) ha indignato Honest Reporting Italia*, un’agenzia né di destra né di sinistra che si batte contro gli episodi di disinformazione giornalistica che riguardano Israele. Honest Reporting ha emesso il seguente comunicato (NV):
I CAMPI DI SABRA E SHATILA. LA TRAGEDIA E I SUOI EFFETTI Grazie a un recente film è tornato alla ribalta, dopo 26 anni, il massacro degli arabi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila alla periferia di Beirut. Contrastanti sembrano essere le opinioni sulle effettive responsabilità dell’accaduto, ma comunque non convincenti: può aiutarmi a capire come andarono realmente le cose? Michele Toriaco, Torremaggiore (Fg),.
Risponde Sergio Romano (in nero). Le contestazioni di Honest Reporting* sono in colore: .

Caro Toriaco, L’esercito israeliano invase il Libano nel giugno 1982 mentre da sette anni infuriava in quel Paese la guerra civile.
Guerra civile scatenata dai palestinesi scampati al massacro messo in atto dall'esercito giordano nel Settembre Nero (oltre diecimila morti, secondo le stime più attendibili), che avevano qui trovato rifugio: perché non ricordarlo? Guerra civile che ha provocato circa 160.000 morti, la cancellazione di intere comunità cristiane e la distruzione di uno dei più ricchi, belli e civili Paesi del Medio Oriente: perché non ricordarlo? (1).
Israele voleva impedire alle formazioni palestinesi di utilizzare il territorio libanese per operazioni di guerriglia,
Israele voleva impedire alle formazioni TERRORISTICHE palestinesi di CONTINUARE A UTILIZZARE il territorio libanese per incursioni armate e attacchi terroristici in territorio israeliano, come stavano facendo da anni .
ma si proponeva altresì uno scopo meno confessabile: la tutela di un piccolo Stato vassallo, nel Libano meridionale, governato per procura dalle milizie cristiane del maggiore Saad Haddad.
più che altro la creazione di un cuscinetto che proteggesse Israele dai continui assalti terroristici. Cuscinetto corrispondente al 5% del territorio libanese, mentre il restante 95% era occupato dalla Siria, fatto che non sembra però turbare troppo il signor Romano. (2).
Vi fu quindi, sin dall’inizio dell’operazione, una sorta di collusione tra forze israeliane e gruppi cristiani.
Che cosa significa esattamente "gruppi cristiani"? Non sarebbe auspicabile una maggiore chiarezza, tanto perché si sappia di che cosa si sta parlando? (3).
Dopo avere sconfitto rapidamente le forze siriane e palestinesi schierate alla frontiera, i 75.000 uomini del corpo di spedizione israeliano puntarono sui campi profughi, vivaio delle reclute che Yasser Arafat arruolava tra le famiglie di coloro che avevano abbandonato la Palestina nel 1948 e nel 1967.
Forse, più che "vivaio di reclute" sarebbe più corretto chiamarli "covi di terroristi", considerando che al momento dell'evacuazione dei campi furono trovati 5630 tonnellate di munizioni, 1320 fra carri armati e altri veicoli pesanti, 623 pezzi di artiglieria e lanciamissili, 33.303 armi leggere, 1352 armi anticarro, 2387 attrezzature ottiche, 2024 apparecchi di telecomunicazione, 215 mortai, 62 lanciarazzi katiuscia (elenco non definitivo, fornito nel comunicato ufficiale israeliano del 18 novembre 1982)..
Gli invasori speravano che l’operazione avrebbe permesso l’annientamento dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina)
organizzazione nata nel 1964, quando NON c'erano i "territori occupati", ma il signor Romano si guarda bene dal precisarlo, poiché tale precisazione rende lampante il fatto che questa organizzazione non è nata allo scopo di creare uno stato di Palestina, ma unicamente per quello di distruggere Israele essendo, all'epoca, lo stato di Israele l'unico territorio occupato da Israele..
e la cattura, "vivo o morto", di Arafat. Ma dovettero accontentarsi di un accordo, negoziato grazie alla mediazione degli Stati Uniti, che avrebbe permesso a una parte delle milizie palestinesi (circa 15.000 uomini) di lasciare il Paese verso la fine di agosto.
Detto in altri termini, ancora una volta il mondo intero - Stati Uniti compresi - si è mobilitato per salvare i terroristi, per impedire a Israele di averne ragione e di chiudere finalmente una volta per tutte la partita, e per perpetuare quindi questa guerra che sembra ormai non poter avere fine..
In quegli stessi giorni il Libano ebbe finalmente un nuovo presidente nella persona di Bashar [Bashir] Gemayel, leader delle Falangi cristiane. Ma la sua presidenza durò soltanto sino al 14 settembre quando il capo dello Stato morì con venticinque uomini in un attentato organizzato forse dai siriani.
Forse? Come mai quando si tratta della Siria sono sempre d'obbligo le formule dubitative?.
Fu quello il momento in cui il governo Begin e il suo ministro della Difesa Ariel Sharon decisero di occupare nuovamente Beirut per espellere i palestinesi rimasti nella città.
Per espellere i terroristi palestinesi rimasti nella città..
L’operazione sarebbe stata condotta dalle milizie cristiane, ma gli israeliani, installati a 200 metri da Shatila, crearono una cinta intorno ai campi e fornirono i mezzi necessari all’operazione. Il massacro durò due giorni e provocò, secondo stime difficilmente verificabili, circa 3.000 vittime.
"Secondo il rapporto del Procuratore Generale libanese, nei due campi non ci sarebbe stato un massacro di inermi contro armati, ma una vera e propria battaglia che ha coinvolto l'intera popolazione. "... Furono i terroristi palestinesi - riferirà un maggiore dell'esercito danese, Joern Mehedon - a cominciare la sparatoria ... Sapevamo che i guerriglieri si facevano normalmente scudo di donne e bambini. ..."." (Fausto Coen, Israele: 50 anni di speranza, Marietti, p. 160). Naturalmente non abbiamo modo di sapere se questa testimonianza sia attendibile e se questa ricostruzione dei fatti sia corretta, ma in presenza di versioni contrastanti ci si aspetterebbe che un giornalista degno di questo nome le fornisse entrambe. Quanto alle vittime, secondo la Procura Generale della Repubblica libanese sarebbero state 470, per la Croce Rossa 663, mentre la Commissione di inchiesta israeliana - la più severa - in base a sopralluoghi, riprese aeree e testimonianze ha calcolato che le vittime siano state fra le 700 e le 800. La cifra di 3000 vittime non risulta da alcuna "stima": è solo la cifra spacciata dalla propaganda palestinese, ma per qualcuno, evidentemente, è di gran lunga preferibile alle stime vere..
In Israele vi fu una grande manifestazione di protesta, a cui parteciparono quattrocentomila persone,
ossia il 10% dell'intera popolazione israeliana, mentre non si ha notizia di proteste, in altri Paesi, contro gli autori della strage .
e venne costituita una commissione d’inchiesta che attribuì a Sharon la responsabilità del massacro e lo costrinse a dimettersi.
che attribuì a Sharon la responsabilità INDIRETTA del massacro, ossia per non averlo saputo prevedere e impedire, scagionandolo invece quella diretta, appannaggio di Eli Hobeika che aveva guidato le milizie che lo avevano perpetrato. Operazione per la quale fu ricompensato dai suoi padroni siriani - padroni anche dell'intero Libano - con un ministero. (4).
L’operazione non impedì ai palestinesi di riorganizzarsi ed espose Israele alle critiche della società internazionale.
Difficile che Israele non sia esposta alle critiche, finché l'informazione è in mano a personaggi come il signor Romano! .
Ma la maggiore e più grave ricaduta politica del massacro fu l’apparizione di un nuovo nemico: un movimento politico e religioso che si chiamò Hezbollah, "partito di Dio", e riunì i gruppi di militanti sciiti che avevano sino ad allora partecipato in ordine sparso alla guerra civile.
Il movimento Hezbollah nasce nel giugno 1982: un po' difficile attribuirne la nascita alla strage di Sabra e Chatila avvenuta fra il 16 e il 17 settembre dello stesso anno..
Fu quello il momento in cui la lotta contro Israele smise di essere prevalentemente laica per divenire anche e soprattutto religiosa.
Le dice qualcosa, signor Romano, il nome Damour? È una cittadina a venti chilometri da Beirut. Quasi seicento cristiani massacrati, donne stuprate, cadaveri smembrati, uomini trovati evirati e coi genitali in bocca, il cimitero devastato, le tombe scoperchiate e le ossa sparse per tutto il campo. L'assalto, ad opera degli uomini di Arafat, era avvenuto al grido di "Allahu akhbar". Era il gennaio 1976 (giusto per fare un esempio. Se ne potrebbero fare molti altri, volendo, magari partendo dal Gran Mufti Haji Amin al Husseini che nel 1948 incitava al jihad contro il neonato stato di Israele). .
E fu quello infine il momento in cui l’Iran, dove gli Ayatollah avevano conquistato il potere poco più di tre anni prima, poterono contare su un amico libanese di cui si sarebbero serviti, da allora, per influire sugli avvenimenti della regione.
Cioè, l'Iran ha aspettato Sabra e Chatila per decidere di influire sugli avvenimenti della regione? Ma per piacere, signor Romano!".HONEST REPORTING ITALIA.

COMMENTI ULTERIORI. Ma alle puntuali precisazioni di Honest Reporting*, per buon peso voglio aggiungere qualche commento davvero interessante che debbo all'incredibile memoria di alcuni amici:.(1)
UN BENELUX ISRAELE-PALESTINA. Nessuno ricorda che Hussein di Giordania aveva proposto ad Arafat di formare una confederazione giordano-palestinese, una monarchia all'inglese con lui re e Arafat primo ministro, col fine ultimo di formare un Benelux medio orientale con Israele. I laburisti israeliani erano in fibrillazione, e tutto era pronto, compresi miliardi di dollari per finanziare il tutto. Ma Arafat rifiutò e iniziò a far assassinare dirigenti giordani e a fare di Amman la base di partenza di azioni terroristiche in Europa. Quando passarono a uccidere ufficiali della Legione araba (quella fondata da Lorenz) e a far esplodere aerei sulle piste giordane, i beduini giordani persero la pazienza e fu il massacro. Re Hussein non riuscì a fermarli. Anzi, in quell' occasione Israele aprì il ponte Allemby per consentire ai civili palestinesi di mettersi in salvo. E Sharon propose perfino di intervenire in difesa dei palestinesi, detronizzare il re e regalare la Giordania ai Palestinesi. Ma non se ne fece niente, per fortuna (o sfortuna)..
CRIMINI DEI PALESTINESI. E ancora, l'assassinio del presidente della repubblica e la terribile strage di 500 civili, compresi donne e bambini, a Damour (20 gennaio 1976), cittadina cristiana a 25 km a sud di Beirut dagli uomini di Arafat provenienti dal campo profughi libanese di Tell el-Za'tar. Fu uno dei più feroci e ignobili crimini contro l’umanità tra i tanti delitti dei Palestinesi. Per obiettività va aggiunto che voleva essere una vendetta contro il massacro perpetrato dalle Falangi Libanesi cristiano-maronite nel campo profughi di Karantina (Beirut) che aveva causato la morte di oltre 1.000 persone. Orrori della guerra civile libanese, in cui i Palestinesi ebbero gran parte. Ma che cosa c’entrano gli Israeliani? Esiste anche un'impressionante sequenza fotografica del rastrellamento casa per casa e dell'uccisione di molti abitanti di Damour..(2)
PARTITO PRESO. Una cosa è la fascia di sicurezza, altra cosa uno "stato vassallo", come dice per partito preso Romano. .
CONVERSIONI IMPROVVISE. C'è chi sostiene - ma noi non lo crediamo - che l’ex ambasciatore in origine fosse filoisraeliano, ma che poi si sia lasciato convincere dalla politica "buonista" e di relazioni pubbliche che i Palestinesi inaugurarono in una conferenza a Dubai. Fatto sta che è divenuto, sia pure con i suoi tipici toni sfumati da diplomatico, filopalestinese e anti-Israele..(3)
VITTIME DEGLI STESSI TERRORISTI. La cosiddetta "collusione" era dovuta al semplice fatto di essere bersaglio dei medesimi cecchini. Romano dimentica i Drusi, perseguitati nel mondo arabo ed eroi nazionali in Libano. In Israele sono cittadini liberi..(4)
CHE AVREBBE POTUTO FARE SHARON? Come pochi sanno o ricordano, Sharon su questa sempre ripetuta ma infondata accusa vinse una causa per diffamazione col New York Times che gli dovette pagare un milione di dollari. In realtà, Sharon era al Ministero della difesa e non presente ai fatti. In fondo, tirando per i capelli le situazioni storiche, c’è una certa analogia con D’Alema primo ministro durante il massacro di Sebrenica, con la differenza che questo massacro era stato annunciato con largo anticipo. La commissione attribuì la maggiore responsabilità al Mossad, per non aver previsto la reazione assassina dei cristiani. Una specie di "culpa in vigilando" impossibile. Ricorda un amico di aver chiesto al consulente militare d'un ex Presidente della Repubblica che cosa mai avrebbe dovuto inventarsi Israele per impedire il massacro. Quello rispose che avrebbero dovuto fare quello che nelle scuole di guerra si chiama " interdizione d'area", ovvero circondare i cristiani e massacrarli. Cioè avrebbe dovuto fare una strage di cristiani (alleati) per evitare una strage di mussulmani (nemici dichiarati), e questo prima che le intenzioni maronite fossero palesate. Assurdo. Pensiamo solo alle reazioni internazionali..*

Honestreporting è stato fondato da un gruppo di persone che non appartengono né alla destra, né alla sinistra e non è affiliato ad alcuna organizzazione politica. Il nostro unico interesse è quello di assicurare che le notizie riguardanti Israele siano presentate in modo corretto nei media. Noi esaminiamo i media; quando troviamo esempi di evidente parzialità informiamo i nostri iscritti sugli articoli scorretti, chiedendo di protestare direttamente presso le testate interessate. In questo caso le lettere, firmate con nome, cognome e città, vanno inviate a: lettere@corriere.it oppure sromano@rcs.it.*HonestReporting ha oltre 155.000 membri nel mondo ed è in continua crescita. (C) 2006 Honestreporting. Tutti i diritti riservati. HR-Italia@honestreporting.com .Per iscriversi a HonestReportingItalia inviare una e- mail vuota a: join-HonestReportingItalian@host.netatlantic.com
da http://salon-voltaire.blogspot.com/

Top ten al 29.05.08

Yehoshua B. Abraham
Fuoco amico
Narrativa Israeliana – 19,00

Shaham Nathan
Quartetto Rosendorf (Il)
Narrativa Israeliana – 15,00

Shilo Sara
Pazienza della pietra (La)
Narrativa Israeliana – 15,00

Leshem Ron
Tredici soldati Libano 2000: un assedio disperato
Narrativa Israeliana – 17,00

Liebrecht Savyon
Donne di mio padre (Le)
Narrativa Israeliana – 18,00

Benaya Seri Dan
Biscotti salati di nonna Sultana (I)
Narrativa Israeliana – 13,00

Gur Batya
Delitto letterario (Un)
Narrativa Israeliana – 16,00

Hareven Shulamith
Città dai molti giorni (Una)
Narrativa Israeliana – 15,00

Doron Lizze
Perché non sei venuta prima della guerra?
Narrativa Israeliana – 12,00

Keret Etgar - Samir El-Youssef
Gaza blues
Narrativa Israeliana – 8,50

giovedì 29 maggio 2008

Eilat - museo oceanografico

Avvio d'anno in forte crescita per Israele 934mila i turisti nei primi cinque mesi

Dall'inizio dell'anno sono stati 934mila i turisti in visita in Israele, contro i 650mila dei primi cinque mesi del 2007 (+43%). Tra i mercati in maggiore crescita i russi (+139%). Il ministero del Turismo pensa che si potrà raggiungere l'obiettivo di 2,8 milioni di turisti nel 2008. Previsti per il 2009 3 milioni di visitatori, che dovrebbero arrivare ad essere 5 milioni nel 2012.

martedì 27 maggio 2008

Gerusalemme

No. 403 - 1.2.08

Uno studio: dal 75% al 94% dei bambini di Sderot di età compresa tra i 4 e i 18 anni manifesta sintomi da stress post-traumatico

Secondo uno studio del Natal, il Centro Israeliano per le Vittime del Terrore e della Guerra, dal 75% al 94% dei bambini di Sderot di età compresa tra i 4 e i 18 anni manifesta sintomi da stress post-traumatico.La ricerca del Natal, che verrà pubblicata a giorni, si basa su un campione rappresentativo. Lo studio ha evidenziato che il 28% degli adulti e il 30% dei bambini di Sderot soffre di disturbi da stress post-traumatico (PTSD). Lo studio è stato coordinato dalla dr. Rony Berger, direttore del Dipartimento dei Servizi Comunitari del Natal e dal dr. Marc Gelkopf, con l’assistenza della dr. Mina Tzemach, che ha condotto il sondaggio.La città di Sderot e il Negev occidentale nel suo complesso sono stati sottoposti al fuoco di fila dei razzi lanciati dai militanti palestinesi nella striscia di Gaza per più di sette anni.Berger sottolinea la differenza tra sintomi da stress post-traumatico, come difficoltà a dormire e problemi di concentrazione, e il PTSD vero e proprio, che può interferire seriamente con la vita di ogni giorno. Berger dice che lo studio ha evidenziato che i bambini di età scolare hanno gravi sintomi di ansia e ha richiamato l’attenzione su una correlazione tra l’ansia del genitore e quella del figlio.Secondo il prof. Muli Lahad, direttore del Centro Comunitario per la prevenzione dello Stress Mashabim presso il college accademico Tel Hai, evacuare i bambini di età inferiore agli 11-12 anni senza i loro genitori non farebbe altro che accentuare i sintomi da stress post-traumatico.Dalia Yosef, direttore del centro per il trauma Hosen di Sderot, afferma che il numero dei bambini di 1-6 anni che soffrono di ansia e che hanno bisogno di cure di lungo termine è in aumento. La dottoressa sostiene che fino allo scorso maggio dei 305 bambini in questo gruppo di età che soffrivano di ansia, solo il 30% aveva bisogno di cure psicologiche di lungo termine. Gli altri hanno ricevuto solo cure immediate. Negli ultimi mesi, invece, sempre più bambini hanno avuto bisogno di cure ad ampio raggio per prevenire lo sviluppo del PTSD. Da maggio altri 105 bambini, il 70% dei quali ha ora bisogno di lunghe ed estese cure psicologiche, sono stati diagnosticati come sofferenti da trauma. Yaron Ben Shimol, la cui figlia Lior di 5 anni è stata ferita venerdì quando un razzo qassam ha colpito la casa dei vicini mentre lei stava giocando con i loro figli, ricorda che la bambina era stata curata da uno psicologo prima dell’incidente. Lior non è sola: 120 bambini di Sderot stanno ora seguendo una terapia di lungo termine per curare l’ansia. Yosef fa notare che alcune delle cure per l’ansia che vengono sviluppate a Sderot e in altre comunità vicino al confine con Gaza si concentrano sulla cura di stress costanti, senza poter prevedere una conclusione della terapia. Continua la dottoressa Yosef: “È un problema serio curare e prevenire lo stress post-traumatico quando non è post”. Noi prendiamo modelli esistenti per la cura dello stress e li adattiamo a una situazione in cui la minaccia non passa mai. Lavoriamo con i genitori per creare una dimensione in cui i loro bambini possano continuare a sorridere, a ricevere amore e a giocare, così che vengano creati per tutti ambienti positivi e sicuri”. Yosef racconta che al centro Hosen genitori e figli ricevono vari strumenti per gestire l’ansia, tra cui lezioni di respirazione e di tecniche di rilassamento. Va notato che a questo proposito il consiglio regionale dello Sha'ar Hanegev ha modificato il gioco del Monopoli per permettere ai giocatori di “lanciare” razzi Qassam come un modo per ridurre lo stress. È tutto finalizzato alla gestione di una situazione di lungo termine senza soluzione in vista.L’esperto: non portate via i bambini da soli Secondo il prof. Muli Lahad, direttore del Centro Comunitario per la prevenzione dello Stress Mashabim presso il college accademico Tel Hai, evacuare i bambini di età inferiore agli 11-12 anni senza i loro genitori non farebbe altro che accentuare i sintomi da stress post-traumatico. Quando i bambini vengono lasciati soli, lontani dalla loro comunità, immaginano che accadano cose orribili alla loro famiglia che è rimasta a casa. I bambini si convincono che tutto sia stato distrutto e ciò che vedono e sentono dai media non fa che rafforzare questa convinzione. “Quando è l’intera famiglia a venire evacuata, i problemi diminuiscono di molto, ma solo se si tratta di un’evacuazione di breve durata, per riposarsi e recuperare le forze”. Secondo una ricerca condotta dal centro Mashabim nelle comunità dell’Alta Galilea dopo la seconda guerra del Libano, l’evacuazione di una zona sotto bombardamento non è – come si crede di solito – la prima priorità per i residenti. La maggior parte delle persone intervistate ritiene che la preparazione dei rifugi pubblici sia la principale priorità per le autorità locali, quella che loro considerano la più importante. Di seguito nella lista delle priorità vengono la cura degli anziani e delle persone disabili e quindi i servizi sanitari.Quando è stato chiesto loro se erano disposti a rimanere nelle rispettive comunità senza i figli, la maggior parte dei residenti della Galilea ha risposto di no. “Chi pensa all’evacuazione senza considerarne le conseguenze, lavora sconsideratamente e non capisce qual è il prezzo da pagare”, dice Lahad, che in quanto residente di Kiryat Shmona, ha vissuto il problema sulla sua pelle.
L'Agenzia Ebraica per Israele sta offrendo assistenza finanziaria immediata alle vittime dei bombardamenti di razzi kassam a Sderot, grazie alla recente decisione di usare i fondi del Fondo per le Vittime del Terrorismo per assistere subito questi cittadini.Questa assistenza d'emergenza viene offerta dal fondo per le Vittime del Terrorismo dell'Agenzia Ebraica, che è sottoscritto dall'Unione delle Comunità Ebraiche e dal Keren Hayesod.La decisione del mese scorso ha fatto sì che venissero stanziati 300.000 dolari per gli abitanti di Sderot, per offrire un primo soccorso alle vittime dei bombardamenti di razzi kassam, in attesa dell'aiuto che riceveranno dal governo.


MARIE NON RIMASE INCINTA……

Nel ricordo della gloriosa Jewish Brigade

In concomitanza con la celebrazione del 60° Anniversario della fondazione dello Stato di Israele il Museo Ebraico di Bologna, in collaborazione con la Cineteca comunale e l’Ambasciata di Israele, ha organizzato, nei giorni scorsi, un’interessante rassegna del cinema israeliano per conoscere attraverso di esso la complessa realtà di quel Paese.
Negli ultimi tempi il cinema israeliano è andato crescendo d’importanza: ogni anno vengono prodotti nel Paese circa una quindicina di film, che attraggono l’interesse del pubblico, non solo nazionale, e ottengono premi europei; due esempi tra gli altri: “Beaufort” di Joseph Cedar (tratto da “Tredici soldati” di Ron Leshem), Orso d’Argento al 57° Festival di Berlino, e “Meduse” di Etgar Keret e Shira Geffen, Premio “Camera d’Or" al Festival di Cannes 2007.
La rassegna bolognese (14/24 maggio 2008) ha scelto un serie di pellicole, alcune ancora inedite da noi, proiettate con sottotitoli in italiano, che colgono diverse tematiche, una in primo luogo: l’identità personale e il rapporto con l’ “altro”, inteso anzitutto come l’ “arabo” o il “palestinese”, ma pure come il “lavoratore straniero”; o anche il parente stretto di una generazione diversa (madre o padre) con il quale si cerca il confronto.
- La Banda (Bikur Ha-Tizmoret; Titolo internazionale The Band’s Visit, Israele /Francia /USA, 2007) di Eran Kolirin
-Désengagement (Hitnatkoot, Germania/Italia/Israele/Francia, 2007) di Amos Gitai
-Aviva, my Love (Aviva Ahuvati, Israele, 2006) di Shemi Zarhin
-My Father, my Lord (Hofshat Kaits, Israele, 2007) di David Volach
-Sweet Mud (Adama Meshuga’at, Israele/Germania/Giappone, 2006) di Dror Shaul
-What a wonderful Place (Eize Macom Nifla, Israele, 2005) di Eyal Halfon
-Meduse (Meduzot, Francia/Israele, 2007) di Etgar Keret e Shira Geffen
-Souvenirs (Souvenirs, Israele, 2006) di Shahar Cohen e Halil Efrat.
Mi soffermo sull’ultima opera, dal carattere insolito, intimo, ma, nello stesso tempo, collegato ad un’importante, quanto sconosciuta a troppi, vicenda della recente storia ebraica (e non solo). Il film rappresenta l’esordio, toccante e sarcastico, dei giovani Shahar Cohen e Halil Efrat.
Shahar Cohen è un giovane simpatico di circa trentacinque anni, pettinatura “rasta” e aria sbarazzina. Si è brillantemente laureato in cinema, ma, come purtroppo capita, è disoccupato.
Suo padre, Sleiman, un ottantaduenne yemenita, gli propone di girare un film sulla gloriosa Brigata Ebraica, nella quale egli militò durante la Seconda Guerra Mondiale. Sulle prime Sahar è titubante, ma cambia parere quando, in occasione di una rimpatriata tra reduci ai quali partecipa, scopre di avere, forse, un fratello o una sorella in Olanda, che non ha mai conosciuto, lasciati dal padre sul posto come una sorta di “souvenir” del tempo in cui questi era giovane militare.
I due partono alla ricerca: giungono in Italia e, a bordo di un’Autobianchi un po’…scassata, iniziano l’avventura.
Fanno tappa a Fiuggi, dove si fermano in un albergo dove Sleiman rievoca persone e vicende diverse; poi giungono in Romagna, nei luoghi che videro la gloriosa “Jewish Brigade” battersi con coraggio, nel marzo/aprile 1945, dapprima contro la 4° Divisione di paracadutisti tedeschi, poi contro i cacciatori della 114 ° (Divisione). Molto suggestive e commoventi sono le immagini in cui l’anziano padre ripensa alle drammatiche vicende vissute e piange sulle tombe dei compagni che riposano nel cimitero di Piangipane, vicino a Ravenna, oltre alle scene degli incontri con persone del luogo che, lungo le rive del fiume Senio, ricordano ancora molto bene gli….israeliani.
Il viaggio riprende a tappe forzate verso la meta principale, l’Olanda. Sottofondo musicale: la famosa marcetta del film “Il ponte sul fiume Kway”, in una libera interpretazione.
Nella variopinta Amsterdam Shahar, utilizzando i dati fornitigli da Sleiman -tra un sorrisetto e l’altro, tra una battutina e l’altra, con le malizie ed i sottintesi tipici delle persone anziane- prende contatti con la titolare di un’agenzia investigativa ed ecco, forse, c’è…..una sorella! Un’ancora graziosa signora sessantenne, anno più anno meno, capelli grigi a caschetto, occhiali, sorriso contagioso, racconta al giovane (che potrebbe essere suo figlio, più che suo fratello) che, sì certo, la propria madre aveva avuto una relazione con un militare della Brigata Ebraica, quell’esercito di prodi colà presente per accogliere i sopravvissuti alle deportazioni. Dall’amore tra i due era nata lei, Franche, il cui più grande desiderio era di conoscere finalmente suo padre, o almeno, di averne notizie indirette. Purtroppo si tratta di una falsa pista: non solo Sleiman non è il padre di Franche, ma, a quanto è dato capire, nemmeno ha mai incontrato il giovane amato dalla madre di lei (certo David).
Padre e figlio non si perdono d’animo; si guardano attorno e partecipano, in qualità di unici rappresentanti della Jewish Brigade, come ironicamente rileva il giovane, ad un’importante manifestazione ufficiale organizzata dal governo olandese in memoria dei liberatori della Seconda Guerra Mondiale, con plotoni di attempati reduci provenienti da diversi Paesi, alcuni –intrepidi- in carrozzella, ma più che mai orgogliosi di “esserci”.
Finalmente si trova il bandolo della matassa: Marie!
Da informazioni diverse, fotografie confrontate e altro prende corpo la figura dell’amata di tanti anni prima: una delicata ragazza olandese, dal timido sorriso. L’incontro tra i due, dopo sessant’anni, è toccante ed emoziona sia il regista che il pubblico. E poco importa che la lieve, graziosissima Marie sia ora una olandesona che sovrasta di parecchio, quanto a statura e mole, il suo antico cavaliere! Ella è un tipo gioviale, che ride e scherza, mentre racconta di avere tre figli e un numero rispettabile di nipoti.
No, a seguito della nostra storia d’amore non rimasi incinta, afferma con sicurezza, ma questo non ci interessa,vero? Manteniamoci in contatto, tornate ancora a trovarmi, intesi?
La vicenda si chiude così, con un velo di malinconica nostalgia e tanta tenerezza.
Il film ti coinvolge perché rappresenta un viaggio alla riscoperta di se stessi attraverso il rinsaldarsi del rapporto tra generazioni lontane -tra i due c’è, a causa di diverse vicende della vita, una notevole differenza d’età-: il padre anziano introverso e un po’ scaltro, e il figlio giovane, espansivo e a volte ingenuo. A Shahar non interessa che suo padre non sia stato, per la verità, né un intrepido combattente -di quelli da assalto alla baionetta, per intenderci!- poiché il suo compito, pur importante, era solo quello di evacuare i feriti; né un campione di pugilato, come egli riteneva da ragazzo, bensì un volonteroso dilettante. Poco importa: è suo padre, al quale ha regalato un’esperienza indimenticabile, dopo che questi gli aveva suggerito lo spunto per il suo primo, vero film.
Molto interessanti sono i documentari originali che narrano le gesta della Jewish Brigade: un tassello importante, quanto ancora poco conosciuto, nel mosaico della nostra Storia e Memoria.
Mara Marantonio Bernardini, 26 maggio 2008

domenica 25 maggio 2008


I soldati ebrei di Mussolini

Mursia, Milano 2008 di Giovanni Cecini

La complessa vicenda dei soldati e degli ufficiali ebrei «traditi» dalle leggi razziali di Mussolini. Chi erano e che cosa accadde ai collaboratori ebrei del Duce. Una pagina complessa e mai indagata del Ventennio: il rapporto tra i soldati ebrei e il fascismo. La linea di demarcazione è, inevitabilmente, il 1938, anno dell’entrata in vigore delle leggi razziali che esclusero gli ebrei dalla vita italiana allontanandoli anche dalle Forze Armate, dove ricoprivano in alcuni casi importanti ruoli di comando. Sin dal Risorgimento gli ebrei italiani avevano partecipato ai conflitti dimostrando un forte senso di partecipazione ai destini della Patria e del regime fascista. Con la guerra d’Etiopia, la sterzata totalitaria e l’avvicinamento alla Germania nazista e le leggi razziali, la politica mussoliniana cambiò rotta segnando in modo drammatico anche le vite dei servitori della Patria il cui destino è raccontato e ricostruito in questo libro attraverso documenti e testimonianze orali. Un libro di STORIA, che analizza partendo da documenti originali e da testimonianze dirette, la triste vicenda dei militari italiani di religione ebraica, che fino al 1938 prestarono servizio nelle nostre Forze Armate e che per l'introduzione della legislazione antiebraica vennero d'ufficio esclusi dal loro lavoro e congedati dai loro reparti. Molti furono poi perseguitati, alcuni si suicidarono, altri finirono nei campi di concentramenti, altri morirono combattendo nelle fila della Resistenza e dei reparti del ricostituito Esercito del Sud.

la famiglia Levy

No. 412 - 4.4.08

La famiglia Levy – Dalla giungla peruviana a Ramle

Questa “hamula” è indubbiamente la più numerosa famiglia sud-americana in Israele. Fino ad oggi 150 membri della famiglia sono immigrati in Israele, ma in Perù ce ne sono ancora 800, e quasi tutti si stanno organizzando per venire in Israele. Un intervista con la famiglia Levy.

Qualcosa è cambiato a Ramle ultimamente. Per le strade della città si vedono sempre più facce nuove – facce diverse da quelle che si vedevano di solito da quelle parti. Cinque anni fa i membri del clan Levy, una delle più numerose famiglie sud-americane in Israele, hanno iniziato a stabilirsi a Ramle. Quando li abbiamo incontrati abbiamo scoperto che le famiglie di quattro fratelli sono già qui, compresi i membri più anziani del clan. In tutto la famiglia conta 24 fratelli, alcuni dei quali pensano di immigrare in Israele nel prossimo futuro. La maggior parte di coloro che si trovano già in Israele abita a Ramle, e benché essi rappresentino solo una parte del clan, sono già 150 persone. Se e quando tutti o la maggior parte dei 24 fratelli arriverà in Israele con le rispettive famiglie, il clan conterà circa 1000 persone, ovvero diventerà la più grande famiglia sud-americana in Israele e forse la più grande famiglia israeliana in assoluto.
La storia della famiglia Levy in Perù risale al 1880. Ai tempi del boom del cauciù gli ebrei marocchini arrivarono a Belem de Para, sul delta del Rio delle Amazzoni in Brasile. Da là questi giovani avventurosi attraversarono la foresta vergine in cerca di fortuna.
Mentre cercavano di realizzare i loro sogni non hanno mai dimenticato la loro identità ebraica e secondo Roberto Feldman, uno dei rabbini che hanno seguito la conversione della famiglia in Perù, anche se sposavano donne del posto, dicevano sempre ai propri figli: “Ricordate che siete ebrei”. In un secondo tempo arrivarono altre famiglie ebree, come i Bensimon, i Bendayan, i Bensus, i Toledano, i Cohen, i Levy e altri.
In cerca del cauciù
Mery Levy, 44 anni, spiega l’articolata storia della sua famiglia. “La culla della famiglia è Santa Maria de Nieva, nella giungla amazzonica peruviana. Questo villaggio di coloni è circondato da popolazioni indigene. La nostra presenza laggiù inizia con l’arrivo di Jose Levy, che approdò lì in cerca d’oro e di cauciù. Arrivò insieme a suo fratello David che in seguito emigrò negli Stati Uniti. Jose Levy sposò una donna che di cognome faceva Vardales. Loro figlio, Ramon Levy Varldales, era mio nonno. È lui il patriarca della famiglia che ora vive in Israele.
Ramon ebbe 24 figli da due mogli. La prima moglie si chiamava Hortensia Saravia e da lei Ramon ebbe nove figli. Hortensia contrasse la lebbra e i due furono costretti a separarsi quando la malattia era già in uno stadio avanzato e “parti del suo corpo cominciavano a cadere”. Ramon mise Hortensia in un lebbrosario a Leticia, sul Rio delle Amazzoni al confine con la Colombia. Quindi sposò Paquita e da lei ebbe 15 figli.
La madre di Mery si chiama Dora Levy Sarabia, ha 84 anni e ora vive in Israele; ha sei figli che vivono anche loro tutti in Israele.
Victor Levy, anche lui uno dei patriarchi he ora risiedono in Israele, ha vissuto in Amazzonia durante il servizio militare. Lì ha sposato una donna del posto che gli ha dato sette figli. Ad un certo punto ha perso ogni contatto con lei ed è rimasto solo con tre figli. In un secondo momento ha sposato una donna ebrea della famiglia Bensus che viveva nel villaggio di Santa Maria de Nieva. Hanno avuto otto figli che hanno cresciuto insieme.
Santa Maria de Nieva è un villaggio isolato, lontano da tutto. “Oggi si trova a due giorni di viaggio da Lima. Allora per arrivarci di giorni ce ne volevano quattro , prima in barca lungo il fiume e poi via terra su una strada sterrata”, racconta Mery parlando della sua città natale.
Un altro ramo della famiglia vive a Pucalpa, nella provincia dell'Ucayali nella regione della bassa Amazzonia. Alcuni dei 24 fratelli vengono da là. “Per andare a trovare questo ramo della famiglia dovevamo navigare su una barca a remi per due o tre giorni fino a Iquitos, il capoluogo di questa parte del Perù. Da lì dovevamo viaggiare per altri due o tre giorni lungo il fiume prima di raggiungere Pucalpa”, ci raccontano i Levy. Solo una minoranza di questo ramo della famiglia e venuta in Israele, ma alcuni stanno ora pensando di fare l'aliyah. Ci sono circa 300 membri della famiglia Levy a Pucalpa.
Ritorno alle origini
Col passare degli anni la famiglia ha lasciato Santa Maria de Nieva e si è trasferita a Iquitos. Nel frattempo le radici ebraice erano andate completamente perdute. Ciò accadde perché il nonno era morto prima che il figlio fosse grande abbastanza per apprendere le tradizioni ebraiche e fu così che quando erano ancora a Santa Maria de Nieva i Levy si convertirono al cristianesimo. “Sapevamo di avere origini ebraiche, ma non sapevamo nulla della religione ebraica. Eravamo isolati”, ricorda Mery. “Tutto è cambiato quando mio fratello, Ronald Reategui Levy, ha stabilito un contatto con la comunità ebraica di Iquitos (fondata nel 1909 da famiglie provenienti dal Marocco) e ha iniziato a studiare l'ebraismo. Il coinvolgimento di Ronald nella vita ebraica della città divenne così forte e profondo che alla fine fu eletto presidente della comunità. Ancora oggi ricopre la carica di vice presidente della comunità ed è un instancabile promotore del ritorno all'ebraismo e dell'aliyah in Israele tra i membri della sua famiglia. La moglie e i figli sono già qui e lui divide il suo tempo tra Israele e Perù. Vuole continuare il suo lavoro nella comunità di Iquitos prima di stabilirsi definitivamente in Israele”.
Il processo di riavvicinamento all'ebraismo è iniziato 15 anni fa. “All'inizio Ronald ci ha dato dei libri da leggere, per studiare l'argomento”, ci raccontano. L'idea venne inizialmente respinta in quanto la famiglia non vedeva alcun motivo per abbandonare il vecchio credo e le vecchie tradizioni.
Ora Mery è un'ebrea molto devota. “Così è e così doveva essere”, racconta. "Sono arrivata alla meta. Ho sempre cercato risposte al mio credo. In passato, in Perù, ho sempre sentito il bisogno di esplorare e studiare altri credi, ma quando ho conosciuto e sperimentato l'ebraismo ho trovato le risposte a molte delle mie domande”, confessa Mery. La sua famiglia ora festeggia Brit Mila e bar mitzvoth e si riunisce ogni venerdì sera per accogliere il sabato.
Hanno dovuto convertirsi quando erano ancora in Perù. A seguire il processo di conversione sono stati 3 rabbini affiliati al movimento conservative. “A convertirci sono stati i rabbini Marcelo y Guillermo, Saferstein e Fleishman. I primi due gruppi si sono convertiti nel 2002 e nel 2004. Ora stanno preparando alla conversione un nuovo gruppo, che pensa di venire in Israele l'anno prossimo. Anche la famiglia Bensus si sta convertendo e preparando a fare l'aliyah.
Dal caldo tropicale all'inverno di Ramle
Molti membri della famiglia sono arrivati in Israele insieme nel dicembre del 2005 e si sono stabiliti a Ramle. Era inverno, un inverno perticolarmente duro per chi viene da Iquitos, “un posto dove è estate tutto l'anno, anche se piove sempre”, spiegano i Levy.
I primi giorni sono stati molto difficili. “All'inizio eravamo in pochi e non conoscevamo la lingua. Ci sentivamo come se stessimo per morire”, racconta Mery. Confrontavano la moneta locale con quella peruviana e non riuscivano a capire perché qui un pezzo di pane costasse tanto di più che in Perù. “Non avremmo potuto comprare nulla nei negozi senza l'aiuto di altri sud americani che da tempo risiedevano a Ramle”, racconta Mery.
Perla Banner, nata in Argentina, ma in Israele da 30 anni, coordina il programma per l'America Latina del comune di Ramle. Il suo compito è di aiutare i nuovi immigrati sud-americani che si stabiliscono a Ramle ad organizzarsi, a trovare un appartamento a superare i primi intoppi burocratici. “La famiglia Levy è molto numerosa. Per me ogni aliyah è una benedizione e faccio del mio meglio per far sì che il primo periodo di adattamento e inserimento passi nel modo più tranquillo possibile.
La famiglia Levy riconosce e apprezza moltissimo l'aiuto che sta ricevendo. “All'inizio tutto sembrava difficilissimo”, ammettono Mery e suo marito. “Allora dissi a Perla che non eravamo sicuri di riuscire a pagare l'affitto”. Oggi sono grati al governo e sono molto più partecipi della vita della comunità locale. “Amiamo molto le persone che vivono in questo Paese. Siamo già sionisti convinti”, aggiungono con orgoglio. Mery, che lavora al banco alimentari del locale supermercato, ha due coppie di gemelli e tutti parlano bemissimo l'ebraico. Due dei gemelli stanno facendo il servizio militare nell'esercito. Mery e il marito, che lavora in in lavasecco, sono fieri che i figli stiano "proteggendo la loro patria”.
In genere si capisce che sono felici in Israele. Dicono che il Paese ha dato loro un caloroso benvenuto. Inoltre abitano tutti molto vicino gli uni agli altri e si vedono spesso. Sono una famiglia molto unita e festeggiano tutte le feste insieme, così come insieme celebrano lo Shabbat. “All'inizio ci riunivamo a casa di Maria Isabel, la sorella di Mery, nell'appartamento al piano terra. Ma ora siamo così tanti che non riusciamo ad entrare tutti in una sola casa. I prossimi eventi li festeggeremo tutti in un giardino pubblico”, ridono divertiti. Ci sono così tanti Levy qui che la comunità sud-americana ha iniziato a chiamare la città “Ramlevy”.
Questa famiglia, con la sua serie infinita di storie che si arrichisce ora del capitolo medio orientale, rappresenta una pietra miliare dell'immigrazione sud-americana in Israele. Si sono già creati una nicchia tra di noi in questo Paese. Prima o poi, in un paio di generazioni, saranno ebrei israeliani, veri “sabra”, che racconteranno a figli e nipoti la storia di una famiglia che è arrivata dal Perù e che ha iniziato una vita nuova in questa parte del mondo, proprio come tutte le precedenti ondate migratorie, quando persone provenienti dai quattro angoli del pianeta si sono riunite in Israele seguendo la stessa strada presa dal popolo ebraico durante tutta la sua storia.


No. 415 - 9.5.08

5/5/2008 – Giorno dell'aliyah / Giorno dell'immigrazione

Un numero record di centinaia di nuovi immigrati provenienti da 20 Paesi diversi sono arrivati in Israele il 5 maggio 2008, alla vigilia del 60° giubileo d'Israele. Il giorno dell'aliyah è stato organizzato dall'Agenzia Ebraica e dal Ministero per l'Accoglienza degli Immigrati per celebrare l'arrivo e l'integrazione di più di tre milioni di immigrati nei 60 anni che sono trascorsi dalla fondazione dello Stato d'Israele.
Gli immigrati sono stati accolti con una cerimonia ufficiale a cui hanno partecipato il ministro per l'Accoglienza degli Immigrati Yaakov Edery, il presidente dell'Agenzia Ebraica Zeev Bielski, il presidente mondiale del Keren Hayesod ambasciatore Avi Pazner, e il rabbino capo d'Israele Shlomo Amar.