martedì 27 maggio 2008


MARIE NON RIMASE INCINTA……

Nel ricordo della gloriosa Jewish Brigade

In concomitanza con la celebrazione del 60° Anniversario della fondazione dello Stato di Israele il Museo Ebraico di Bologna, in collaborazione con la Cineteca comunale e l’Ambasciata di Israele, ha organizzato, nei giorni scorsi, un’interessante rassegna del cinema israeliano per conoscere attraverso di esso la complessa realtà di quel Paese.
Negli ultimi tempi il cinema israeliano è andato crescendo d’importanza: ogni anno vengono prodotti nel Paese circa una quindicina di film, che attraggono l’interesse del pubblico, non solo nazionale, e ottengono premi europei; due esempi tra gli altri: “Beaufort” di Joseph Cedar (tratto da “Tredici soldati” di Ron Leshem), Orso d’Argento al 57° Festival di Berlino, e “Meduse” di Etgar Keret e Shira Geffen, Premio “Camera d’Or" al Festival di Cannes 2007.
La rassegna bolognese (14/24 maggio 2008) ha scelto un serie di pellicole, alcune ancora inedite da noi, proiettate con sottotitoli in italiano, che colgono diverse tematiche, una in primo luogo: l’identità personale e il rapporto con l’ “altro”, inteso anzitutto come l’ “arabo” o il “palestinese”, ma pure come il “lavoratore straniero”; o anche il parente stretto di una generazione diversa (madre o padre) con il quale si cerca il confronto.
- La Banda (Bikur Ha-Tizmoret; Titolo internazionale The Band’s Visit, Israele /Francia /USA, 2007) di Eran Kolirin
-Désengagement (Hitnatkoot, Germania/Italia/Israele/Francia, 2007) di Amos Gitai
-Aviva, my Love (Aviva Ahuvati, Israele, 2006) di Shemi Zarhin
-My Father, my Lord (Hofshat Kaits, Israele, 2007) di David Volach
-Sweet Mud (Adama Meshuga’at, Israele/Germania/Giappone, 2006) di Dror Shaul
-What a wonderful Place (Eize Macom Nifla, Israele, 2005) di Eyal Halfon
-Meduse (Meduzot, Francia/Israele, 2007) di Etgar Keret e Shira Geffen
-Souvenirs (Souvenirs, Israele, 2006) di Shahar Cohen e Halil Efrat.
Mi soffermo sull’ultima opera, dal carattere insolito, intimo, ma, nello stesso tempo, collegato ad un’importante, quanto sconosciuta a troppi, vicenda della recente storia ebraica (e non solo). Il film rappresenta l’esordio, toccante e sarcastico, dei giovani Shahar Cohen e Halil Efrat.
Shahar Cohen è un giovane simpatico di circa trentacinque anni, pettinatura “rasta” e aria sbarazzina. Si è brillantemente laureato in cinema, ma, come purtroppo capita, è disoccupato.
Suo padre, Sleiman, un ottantaduenne yemenita, gli propone di girare un film sulla gloriosa Brigata Ebraica, nella quale egli militò durante la Seconda Guerra Mondiale. Sulle prime Sahar è titubante, ma cambia parere quando, in occasione di una rimpatriata tra reduci ai quali partecipa, scopre di avere, forse, un fratello o una sorella in Olanda, che non ha mai conosciuto, lasciati dal padre sul posto come una sorta di “souvenir” del tempo in cui questi era giovane militare.
I due partono alla ricerca: giungono in Italia e, a bordo di un’Autobianchi un po’…scassata, iniziano l’avventura.
Fanno tappa a Fiuggi, dove si fermano in un albergo dove Sleiman rievoca persone e vicende diverse; poi giungono in Romagna, nei luoghi che videro la gloriosa “Jewish Brigade” battersi con coraggio, nel marzo/aprile 1945, dapprima contro la 4° Divisione di paracadutisti tedeschi, poi contro i cacciatori della 114 ° (Divisione). Molto suggestive e commoventi sono le immagini in cui l’anziano padre ripensa alle drammatiche vicende vissute e piange sulle tombe dei compagni che riposano nel cimitero di Piangipane, vicino a Ravenna, oltre alle scene degli incontri con persone del luogo che, lungo le rive del fiume Senio, ricordano ancora molto bene gli….israeliani.
Il viaggio riprende a tappe forzate verso la meta principale, l’Olanda. Sottofondo musicale: la famosa marcetta del film “Il ponte sul fiume Kway”, in una libera interpretazione.
Nella variopinta Amsterdam Shahar, utilizzando i dati fornitigli da Sleiman -tra un sorrisetto e l’altro, tra una battutina e l’altra, con le malizie ed i sottintesi tipici delle persone anziane- prende contatti con la titolare di un’agenzia investigativa ed ecco, forse, c’è…..una sorella! Un’ancora graziosa signora sessantenne, anno più anno meno, capelli grigi a caschetto, occhiali, sorriso contagioso, racconta al giovane (che potrebbe essere suo figlio, più che suo fratello) che, sì certo, la propria madre aveva avuto una relazione con un militare della Brigata Ebraica, quell’esercito di prodi colà presente per accogliere i sopravvissuti alle deportazioni. Dall’amore tra i due era nata lei, Franche, il cui più grande desiderio era di conoscere finalmente suo padre, o almeno, di averne notizie indirette. Purtroppo si tratta di una falsa pista: non solo Sleiman non è il padre di Franche, ma, a quanto è dato capire, nemmeno ha mai incontrato il giovane amato dalla madre di lei (certo David).
Padre e figlio non si perdono d’animo; si guardano attorno e partecipano, in qualità di unici rappresentanti della Jewish Brigade, come ironicamente rileva il giovane, ad un’importante manifestazione ufficiale organizzata dal governo olandese in memoria dei liberatori della Seconda Guerra Mondiale, con plotoni di attempati reduci provenienti da diversi Paesi, alcuni –intrepidi- in carrozzella, ma più che mai orgogliosi di “esserci”.
Finalmente si trova il bandolo della matassa: Marie!
Da informazioni diverse, fotografie confrontate e altro prende corpo la figura dell’amata di tanti anni prima: una delicata ragazza olandese, dal timido sorriso. L’incontro tra i due, dopo sessant’anni, è toccante ed emoziona sia il regista che il pubblico. E poco importa che la lieve, graziosissima Marie sia ora una olandesona che sovrasta di parecchio, quanto a statura e mole, il suo antico cavaliere! Ella è un tipo gioviale, che ride e scherza, mentre racconta di avere tre figli e un numero rispettabile di nipoti.
No, a seguito della nostra storia d’amore non rimasi incinta, afferma con sicurezza, ma questo non ci interessa,vero? Manteniamoci in contatto, tornate ancora a trovarmi, intesi?
La vicenda si chiude così, con un velo di malinconica nostalgia e tanta tenerezza.
Il film ti coinvolge perché rappresenta un viaggio alla riscoperta di se stessi attraverso il rinsaldarsi del rapporto tra generazioni lontane -tra i due c’è, a causa di diverse vicende della vita, una notevole differenza d’età-: il padre anziano introverso e un po’ scaltro, e il figlio giovane, espansivo e a volte ingenuo. A Shahar non interessa che suo padre non sia stato, per la verità, né un intrepido combattente -di quelli da assalto alla baionetta, per intenderci!- poiché il suo compito, pur importante, era solo quello di evacuare i feriti; né un campione di pugilato, come egli riteneva da ragazzo, bensì un volonteroso dilettante. Poco importa: è suo padre, al quale ha regalato un’esperienza indimenticabile, dopo che questi gli aveva suggerito lo spunto per il suo primo, vero film.
Molto interessanti sono i documentari originali che narrano le gesta della Jewish Brigade: un tassello importante, quanto ancora poco conosciuto, nel mosaico della nostra Storia e Memoria.
Mara Marantonio Bernardini, 26 maggio 2008

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