venerdì 11 gennaio 2013
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Curiosità
L’assurda pretesa araba di far girare all’indietro la storia
Da articoli di Zvi Gabay, Elhanan Miller,http://www.israele.net/
Essam el-Erian, consigliere del presidente egiziano Mohammed Morsi e
vice presidente del partito “Libertà e Giustizia” affiliato alla
Fratellanza Musulmana, in un’intervista al quotidiano pan-arabo
“Al-Sharq Al-Awsat” ha esortato gli ebrei di origine egiziana a tornare
alle loro case in Egitto così da “fare spazio ai palestinesi per il loro
ritorno”, e tutti gli ebrei a “tornare nelle loro patrie” (cioè nei
paesi in cui vivevano in passato i loro progenitori). Il tutto, “alla
luce della democrazia” che si sta sviluppando in Egitto. Le sue parole
hanno suscitato pesanti critiche da parte di elementi islamisti sia in
Egitto che all'estero. In seguito alla tempesta suscitata, Erian ha
lasciato il suo posto di consulenza: non è del tutto chiaro se si sia
dimesso di propria spontanea volontà o se sia stato destituito.È importante capire come Essam el-Erian volesse far girare la ruota
della storia indietro di 65 anni, esattamente come Saddam Hussein quando
nel 1974 invitava gli ebrei di origine irachena a tornare in Iraq:
giacché il concetto di riavvolgere il film della storia cancellando
“tutto ciò che è avvenuto dal ’48 in poi” è la chiave per capire
l’approccio arabo alla questione israeliana e a quella che essi
considerano una “giusta” soluzione.Fino a poco tempo fa la questione degli ebrei originari dei paesi arabi
era del tutto assente dall'agenda pubblica e dai mass-media, sia in
Israele che all'estero. Ben pochi ricordano le terribili tragedie patite
dagli ebrei nei paesi arabi (Algeria, Libia, Marocco, Tunisia, Egitto,
Siria, Yemen e Iraq). La loro sciagura è stata quasi dimenticata. Non
viene adeguatamente insegnata nelle scuole, non viene discussa nei
mass-media, non viene commemorata dalle istituzioni statali e, fino a
poco tempo fa, non veniva menzionata in nessun contesto internazionale.
La propaganda araba è stata capace di eliminare completamente dal
discorso internazionale lo scambio di popolazione fra Israele e paesi
arabi che si è verificato nel contesto della guerra d’indipendenza
israeliana del 1948. La propaganda araba sostiene a gran voce l’assoluta
validità del “diritto al ritorno” (all'interno di Israele, anche dopo
l’eventuale nascita di uno stato palestinese a fianco di Israele) dei
palestinesi che combatterono contro Israele, molti dei quali fuggirono
per mettersi in salvo, nella convinzione che avrebbero subito dai
vincitori le violenze che loro stessi, a parti invertite, avrebbero
inflitto ai perdenti, e che immancabilmente si infliggono a vicenda,
anche oggi, nelle guerre intestine inter-arabe (la sorte degli arabi
palestinesi che, invece, rimasero in Israele dimostra quanto quel timore
fosse infondato).La propaganda araba è riuscita a instillare nell'opinione pubblica la
convinzione, a livello globale, che la “nakba” palestinese sia stata
l’unica tragedia che ha avuto luogo all'epoca della fondazione dello
stato d’Israele. Centosessanta sono le risoluzioni e dichiarazioni
internazionali che sono state redatte in relazione alla questione dei
profughi arabi palestinesi. E neanche una che si sia occupata dei
profughi ebrei dai paesi arabi. Ma il ritardo con cui si è giunti a
sollevare la questione alle Nazioni Unite e nella coscienza
dell’opinione pubblica internazionale non cancella le legittime
rivendicazioni degli ebrei arabi circa le ingenti proprietà private e
comunitarie che furono costretti ad abbandonare a causa delle
discriminazioni e delle sofferenze patite nei paesi arabi dove vivevano
talvolta da innumerevoli generazioni. Un disegno di legge proposto nel
2010 dal parlamentare israeliano Nissim Zeev imporrebbe al governo di
sollevare in ambito diplomatico la questione delle proprietà perdute
dagli ebrei nei paesi arabi. Ma occorre anche portare all'attenzione
internazionale lo status di profughi di questi ebrei. Il prossimo
governo israeliano dovrebbe avviare un dibattito internazionale volto a
dare soluzione al problema di tutti i profughi del conflitto
arabo-israeliano: non solo dei profughi ebrei, naturalmente, ma anche di
quelli arabi che continuano a vivere in condizioni deplorevoli in tutti
i paesi arabi in cui si trovano (Autorità Palestinese compresa)
nonostante i massicci sforzi fatti da decenni a livello internazionale
per aiutarli finanziariamente. Il punto di partenza di questo dibattito
deve essere la cornice delineata nel 2000 dall'allora presidente
americano Bill Clinton, che mirava al risarcimento economico dei
profughi sia ebrei che arabi.Quello che tutte le parti dovrebbero fare è perseguire una soluzione
giusta che sia basata non sulla propaganda, ma sulla realtà dei fatti
(senza l’illusione di far tornare indietro la storia). Altrimenti non
riusciremo mai ad arrivare a una pace duratura.(Da: Zvi Gabay su Israel HaYom, israele.net, 9.1.13)
PUR DI RIBADIRE IL “DIRITTO AL RITORNO”, ABU MAZEN È PRONTO A SACRIFICARE I PALESTINESI DI SIRIA
Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha respinto l’offerta di Israele di autorizzare l’ingresso in Cisgiordania di profughi palestinesi in fuga dalla guerra civile siriana a patto che questi rinunciassero al cosiddetto “diritto al ritorno” all'interno di Israele. Lo ha detto lo stesso Abu Mazen, mercoledì sera, alla stampa egiziana.Dopo il suo incontro al Cairo col presidente egiziano Mohammed Morsi, Abu Mazen ha raccontato di aver fatto appello all’Onu perché intercedesse a favore dei profughi palestinesi che vivono in Siria e chiedesse a Israele di farli entrare in Cisgiordania e striscia di Gaza. Il segretario dell’Onu Ban Ki-moon avrebbe riferito ad Abu Mazen che Israele accoglieva la richiesta a condizione che i profughi firmassero un documento con cui rinunciavano al “diritto al ritorno” sul territorio israeliano (una rivendicazione palestinese che gli israeliani considerano in pratica un “diritto di invasione” del loro stato). Abu Mazen ha detto d’aver rifiutato l’offerta.Il mese scorso i palestinesi che vivono nel campo di Yarmouk, a sud di Damasco, hanno subito un sanguinoso bombardamento da parte delle forze governative siriane, dopo che forze anti-regime si erano impadronite del campo. Martedì scorso almeno cinque palestinesi sono stati uccisi a Yarmouk. La Giordania, il vicino meridionale della Siria, ha iniziato a rimandare i profughi palestinesi verso il confine, stando a quanto ha riportato la tv Al-Jazeera all'inizio della settimana. In precedenza erano stati autorizzati ad entrare nel regno giordano, ma erano stati tenuti in un campo separato chiamato Cyber City, non lontano dal confine con la Siria.Secondo Yedioth Ahronoth, già la scorsa settimana il capo di Hamas nella striscia di Gaza, Ismail Haniyeh, aveva detto all'UNRWA di non voler accogliere a Gaza i palestinesi in fuga dalla Siria perché Israele avrebbe potuto usare questo precedente contro il “diritto al ritorno” reclamato dai palestinesi all'interno di Israele.(Da: Elhanan Miller su Times of Israel, israele.net, 10.1.13)
PUR DI RIBADIRE IL “DIRITTO AL RITORNO”, ABU MAZEN È PRONTO A SACRIFICARE I PALESTINESI DI SIRIA
Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha respinto l’offerta di Israele di autorizzare l’ingresso in Cisgiordania di profughi palestinesi in fuga dalla guerra civile siriana a patto che questi rinunciassero al cosiddetto “diritto al ritorno” all'interno di Israele. Lo ha detto lo stesso Abu Mazen, mercoledì sera, alla stampa egiziana.Dopo il suo incontro al Cairo col presidente egiziano Mohammed Morsi, Abu Mazen ha raccontato di aver fatto appello all’Onu perché intercedesse a favore dei profughi palestinesi che vivono in Siria e chiedesse a Israele di farli entrare in Cisgiordania e striscia di Gaza. Il segretario dell’Onu Ban Ki-moon avrebbe riferito ad Abu Mazen che Israele accoglieva la richiesta a condizione che i profughi firmassero un documento con cui rinunciavano al “diritto al ritorno” sul territorio israeliano (una rivendicazione palestinese che gli israeliani considerano in pratica un “diritto di invasione” del loro stato). Abu Mazen ha detto d’aver rifiutato l’offerta.Il mese scorso i palestinesi che vivono nel campo di Yarmouk, a sud di Damasco, hanno subito un sanguinoso bombardamento da parte delle forze governative siriane, dopo che forze anti-regime si erano impadronite del campo. Martedì scorso almeno cinque palestinesi sono stati uccisi a Yarmouk. La Giordania, il vicino meridionale della Siria, ha iniziato a rimandare i profughi palestinesi verso il confine, stando a quanto ha riportato la tv Al-Jazeera all'inizio della settimana. In precedenza erano stati autorizzati ad entrare nel regno giordano, ma erano stati tenuti in un campo separato chiamato Cyber City, non lontano dal confine con la Siria.Secondo Yedioth Ahronoth, già la scorsa settimana il capo di Hamas nella striscia di Gaza, Ismail Haniyeh, aveva detto all'UNRWA di non voler accogliere a Gaza i palestinesi in fuga dalla Siria perché Israele avrebbe potuto usare questo precedente contro il “diritto al ritorno” reclamato dai palestinesi all'interno di Israele.(Da: Elhanan Miller su Times of Israel, israele.net, 10.1.13)
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Esplosione a Tel Aviv, ma Israele esulta. Ecco perché...
In un paese che vive da 60 anni in guerra è possibile che anche un attentato "bombarolo" diventi motivo di sollievo specie se avviene in una giornata di eccezionale e rarissma neve che ha paralizzato l'intero Paese.
Un motociclista, come nella migliore tradizione terroristica, passa lentamente presso un'automobile parcheggiata nel cuore di Tel Aviv
non lontano dal Ministero della Guerra, lascia cadere un pacco e fugge
nel traffico rarefatto dalle insolite condizoni atmosferiche. Poco dopo
un'esplosione. L'auto va in fiamme, cinque o sei persone sono ferite ma
non gravemente.E' stata probilmente la mancanza di un risultato più letale a
insospettire la polizia che già in stato d'allarme per le condizioni
meteorologiche dà la caccia al motociclista e, a quanto si dice, lo
arresta. In attesa di maggiori dettagli è bastato l'annuncio della
polizia secondo cui si è trattato di una resa di conti fra criminali, a
far tirare un sospiro di sollievo all'intero paese. Sarebbe "solo" il
quinto o sesto tentativo di ammazzare Nissim Alperon,
illustre membro della più potente famiglia mafiosa del Paese, con il
capostipide ammazzato, l'erede in prigione e Nissim, altro membro
importante del clan, scampato per miracolo a un attentato.Ma perché tanta gioia per un'esplosione criminale?
Perché contro le previsioni dei servizi d'informazione e dello stesso
Presidente dello Stato non si è trattato dell'inizio della "terza
intifada" che tutti ritengono imminente a causa del senso di delusione
politica e per la crisi economica che pervade il settore palestinese.La prima rivolta palestinese, detta "l'intifada delle pietre"
(1987) aveva causato 160 morti israeliani, 1162 palestinesi uccisi
dall'esercito e altri 1000 dai palestinesi stessi. La seconda denominata
"intifada di al Aqsa" dal nome della moschea di Gerusalemme da dove era
partita nel 2000 aveva causato 3858 morti palestinesi e 1022
israeliani, quest'ultimi sopratutto con attacchi suicidi contro civili
nelle città. Occorre aver presente queste cifre (e i danni collaterali
umani, materiali e politici) causati dalle due intifade per comprendere
l'ansia della popolazione che in periodo elettorale é soggetta a un
bombardamento quotidiano di profezie cantradditorie ma ugualmente
catastrofiche (naturalmente per colpa dell'avversario).http://www.ilgiornale.it/

Un motociclista, come nella migliore tradizione terroristica, passa lentamente presso un'automobile parcheggiata nel cuore di Tel Aviv
non lontano dal Ministero della Guerra, lascia cadere un pacco e fugge
nel traffico rarefatto dalle insolite condizoni atmosferiche. Poco dopo
un'esplosione. L'auto va in fiamme, cinque o sei persone sono ferite ma
non gravemente.E' stata probilmente la mancanza di un risultato più letale a
insospettire la polizia che già in stato d'allarme per le condizioni
meteorologiche dà la caccia al motociclista e, a quanto si dice, lo
arresta. In attesa di maggiori dettagli è bastato l'annuncio della
polizia secondo cui si è trattato di una resa di conti fra criminali, a
far tirare un sospiro di sollievo all'intero paese. Sarebbe "solo" il
quinto o sesto tentativo di ammazzare Nissim Alperon,
illustre membro della più potente famiglia mafiosa del Paese, con il
capostipide ammazzato, l'erede in prigione e Nissim, altro membro
importante del clan, scampato per miracolo a un attentato.Ma perché tanta gioia per un'esplosione criminale?
Perché contro le previsioni dei servizi d'informazione e dello stesso
Presidente dello Stato non si è trattato dell'inizio della "terza
intifada" che tutti ritengono imminente a causa del senso di delusione
politica e per la crisi economica che pervade il settore palestinese.La prima rivolta palestinese, detta "l'intifada delle pietre"
(1987) aveva causato 160 morti israeliani, 1162 palestinesi uccisi
dall'esercito e altri 1000 dai palestinesi stessi. La seconda denominata
"intifada di al Aqsa" dal nome della moschea di Gerusalemme da dove era
partita nel 2000 aveva causato 3858 morti palestinesi e 1022
israeliani, quest'ultimi sopratutto con attacchi suicidi contro civili
nelle città. Occorre aver presente queste cifre (e i danni collaterali
umani, materiali e politici) causati dalle due intifade per comprendere
l'ansia della popolazione che in periodo elettorale é soggetta a un
bombardamento quotidiano di profezie cantradditorie ma ugualmente
catastrofiche (naturalmente per colpa dell'avversario).http://www.ilgiornale.it/
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Abbiamo scelto.....

Quando si discute dei massimi
sistemi, sia elaborano grandi strategie o si stigmatizzano le cospirazioni
globali, ci si dimentica a volte del tempo. Ossia il tempo atmosferico. Così
nel Medio Oriente, vecchio o nuovo, causa pioggia alluvionale l'altro ieri
abbiamo impiegato tre ore e mezza per coprire i 60 chilometri che separano
Gerusalemme da Tel Aviv. Oggi invece, causa abbondante nevicata su Gerusalemme,
la città è isolata dal resto del mondo. Concediamoci allora una pausa di
contemplazione.http://moked.it/, Sergio Della Pergola, univ Gerusalemme
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Guardiamo in faccia la realtà:
i tormentoni danno il tormento. Come le torture portate sul grande schermo da
quei simpaticoni di Arancia meccanica, ti espongono a un ascolto continuato
della musica in questione e poi subentra la sindrome di Stoccolma. Si arriva
infatti al punto nel quale ti rendi conto di essere totalmente innamorato del
tuo oppressore. The reckoning song/One day di Asaf Avidan, portata al successo
grazie a un fortunato remix del dj Wankelmut è ufficialmente un tormentone, non
estivo ma settembrino. I discotecari seriali la conoscono e probabilmente sono
sul punto di archiviarla, il grande pubblico sta muovendo i primi passi. I
tempi sono quindi maturi per un breve tour nello stivale che ha visto la
testolina con cresta di Avidan accompagnato dalla sua chitarra di fiducia risalire
l'Italia partendo da Bari, Roma, Bologna e finendo con Torino. Porto ancora i
traumi di una estate con Asereje del trio Las Ketchup, tutto quel muovere di
braccia era lesivo, per non parlare delle “tre parole sole, cuore, amore” che
ancora rimbombano nella mia povera testa. Credo di aver avuto però il colpo di
grazia con Chihuahua del tale Dj BoBo. Il video di One day, che su youtube ha
raggiunto più di cinquantasei milioni di visualizzazioni, non è certo un
capolavoro della regia: qualche eco “cinquanta sfumature” e una giusta dose di
gioventù festaiola, fumata, con sosia di Courtney Love, capelli ossigenati e
luci psichedeliche a go go. Dietro al successo però c'è ben altro, Asaf Avidan
sa bene di non essere una cotta estiva. Lui è uno di quelli con cui ti devi
impegnare, non se ne andrà via alla prima pioggia autunnale, anzi ti farà
compagnia durante il foliage, a pattinare sul ghiaccio e perfino in una
domenica di brutto tempo davanti ai libri. Insomma, oltre al remix c'è di più.
Nato a Gerusalemme nel 1980, figlio di diplomatici, vive la sua infanzia in
Giamaica. Dopo la leva, studia animazione alla Bezalel Academy e con il suo
progetto Find love now vince al Haifa Film Festival nella sua categoria. La
leggenda messa in circolazione vede la conversione alla musica come risultato
della traumatica rottura con la sua ragazza. E a noi piace pensare sia così: un
menestrello che con la sua voce acuta grida ferite d'amore e recrimina le bugie
dell'amata (sentire Her lies per credere). L'artista eclettico si unisce al
gruppo the Mojos e insieme mandano in visibilio la scena altenativachic
israeliana. Non si fanno mancare un tour a New York nel 2007. Pubblicano
insieme tre album: The Reckoning nel 2008, Poor Boy/Lucky Man nel 2009 e
Through the Gale nel 2010. La canzone Weak fa perfino parte della colonna
sonora di L'arbre, film con Charlotte Gainsbourg presentato a Cannes. L'entrata
ufficiale in un mondo molto raffinato, folk, radical chic, indie e chi più ne
ha più ne metta. E fa ridere pensare adesso ad Avidan come idolo delle folle,
acclamato in locali con i neon, quando ha iniziato in piccoli bar fumosi,
inserito nella colonna sonora per film di nicchia da vedere in una Parigi con
il nevischio. Consiglierei a questo punto dell'articolo di immergersi nella canzone
Devil and me per entrare pienamente nell'atmosfera detta sopra. Per la verità è
come se David Guetta avesse remixato Bob Dylan e forse questa commistione
paradossale ha portato il grande successo di One day. Nel 2011 Avidan saluta i
membri del gruppo. Leitra'hot Roei, Yoni, Ran e Hadas, da qui cammino da solo.
Il singolo Different Pulses anticipa l'album in uscita nel 2013. Intanto è
disco di platino in Italia e per un israeliano questo è successo assicurato.
Asaf Avidan piace a tanti, ha ingredienti che convincono tutti: timbro
particolare che lo ha fatto accostare a Janis Joplin, cantante da ballata
medievale come piace ai folk, capelli e barbetta congeniale agli indie, remix
da serata scatenata. Uno che nella sua carriera ha aperto concerti di Bob Dylan,
Lou Reed e Ben Harper per intenderci. Israele può gongolare, ha esportato un
prodotto pronto a competere in serie A. In un mondo in cui i sintetizzatori, il
playback, le vocine insulse la fanno da padroni, Avidan e il suo timbro da
cartone animato fanno scintille dal vivo. Non ha bisogno di molto: una sedia,
la chitarra, un t-shirt, qualche vezzo come le bretelle o il cappello e lo
spettacolo può iniziare. "Ci mette tanto cuore, mi piacciono più le sue
canzoni da solista che quelle con i the Mojos. Ho iniziato ad ascoltarlo, come
la maggioranza, dalla versione remixata di One day, inizialmente non mi
convinceva ma alla fine l'ho canticchiata per tutta la serata. Solo
successivamente ho scoperto che è israeliano. Mi piacciono tutti i suoi album e
il danno ormai è fatto: ne sono totalmente innamorata." dice Micol,
studentessa di Giurisprudenza. Ghila, romana trapiantata a Tel Aviv invece
segue Avidan dai primi passi: "Ha una voce molto particolare e la sua
musica è anche insolita. Mi piacciono molto Turn on the sides under the northen
lights, Different pulses e Is this it. Credo possa fare successo in Italia,
cantando in inglese è internazionale". Alberto, studente di economia si
mostra titubante: "Mi ha convinto dopo un po' quella canzone! Ora mi
piace, forse mi ha già un po’ stufato". I primi disturbi da
post-tormentone. Il web capitanato da twitter sta impazzendo. Marinella
Venegoni sulla Stampa trova la definizione perfetta per la voce del cantante:
"Straziante e dolorosa ma insieme dolcissima". Una nuova voce latte e
miele.Rachel Silvera - Pagine Ebraiche, gennaio 2013,http://moked.it/
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giovedì 10 gennaio 2013
Anteprima cinema: "Il Figlio dell'Altra"
Chi non ricorda la storia de “Il principe e il povero” di Mark Twain? o quella narrata da Shakespeare ne la “Commedia degli errori”, ispirata a sua volta da “I Menecmi” di Plauto? Storie di fanciulli, scambiati nella culla, le cui vite e destini sono state segnati proprio da quel fatale errore.In un contesto moderno e in un ambiente pieno di tensioni come quello israelo- palestinese, la regista francese Lorraine Levy con il film “The other son” (titolo italiano, “Il figlio dell’altra”), si cimenta con l’eterno tema dello scambio dei ruoli, delle identità, delle vite.Presentato all’ultimo Film Festival di Torino, e in programma a Milano in anteprima speciale il prossimo 15 gennaio, “Il figlio dell’altra” racconta la storia di Joseph (Jules Sitruk) e Yacine (Medhi Dehbi), due ragazzi diciottenni, uno israeliano, l’altro palestinese, il primo musicista in procinto di cominciare il servizio di leva, il secondo studente di medicina in partenza per Parigi.Durante la visita per il servizio di leva Joseph scopre improvvisamente di non essere il figlio biologico dei genitori da cui è stato amorevolmente allevato, Alon (Pascal Elbé) e Orith (Emmanuelle Devos). Sarà proprio quest’ultima, sconvolta dalla scoperta, a ricostruire quel che accadde il giorno in cui partorì: dopo l’evacuazione dell’ospedale per motivi di sicurezza – era il 1991 e Israele era nel pieno della Prima guerra del Golfo – il figlio che aveva appena dato alla luce fu scambiato dall’infermiera con quello partorito da Leïla (Areen Omari), palestinese della Cisgiordania.Nel corso del film, Orith e Leïla, Alon e Said (Khalifa Natour, il marito di Leila), si scontrano con una realtà difficilissima da accettare, che crea il panico in entrambe le famiglie ma che è anche ineludibile e cioè di aver allevato e cresciuto un figlio non proprio; si rendono conto che la sorte toccata a Joseph sarebbe toccata a Yacine e viceversa. Una realtà che se inizialmente crea il panico nella due famiglie, specialmente fra i due padri, conduce poi ad una riflessione più profonda, da entrambe le parti, sulle rispettive identità, e alla fine sulle ragioni e sull’effettivo significato del conflitto che da decenni divide israeliani e palestinesi.Insieme a Joseph e Yacine, sono Orith e Leila le due vere protagoniste del film. A differenza dei due padri che preferiscono fuggire la realtà, le due madri, pur nella sofferenza, la affrontano di petto fino a trovare un chiarimento, un punto di incontro.“Il fatto è – spiega la regista – che le due donne sono capaci di comprendere alcune cose fondamentali: capiscono che i figli che hanno allevato continuano a essere i loro figli; che ora c’è un altro figlio per ciascuna di loro e che non possono ignorarlo, né rifiutarsi di conoscerlo e di imparare ad amarlo; che se occorre tendere una mano, bisogna farlo al più presto, convincendo gli uomini che non esiste alternativa possibile. Il mio film dice che la donna rappresenta il futuro dell’uomo e che quando le donne si alleano possono spingere gli uomini a essere migliori.”La Levy ha raccontato che quando la produttrice del film Virginie Lacombe le ha mandato la sceneggiatura del film, è rimasta molto colpita: “mi colpiva così profondamente a livello emotivo. Inoltre, era in sintonia con i temi a cui tengo maggiormente: qual è il posto che occupiamo nella nostra vita e in quella degli altri, il nostro rapporto con l’infanzia, l’essere genitori…”. ”La questione che più mi interessa – spiega ancora Lorraine Levy – è quella dell’identità. Sento che gli individui hanno la possibilità di sperimentare più nascite nel corso della loro vita. Si può nascere varie volte: si “rinasce” a seconda dei luoghi in cui la vita ci conduce, esponendoci a nuove idee, religioni, filosofie. E queste ci portano ad essere persone diverse da quelle che eravamo.”In “The Other Son”, scritto da Nathalie Saugeon e Noam Fitoussi, insieme ai temi della famiglia, dell’identità, del cambiamento, c’è anche inevitabilmente quello della politica. “Pur non essendo impegnata politicamente, pur non essendo israeliana o palestinese, quel che accade in Israele mi tocca molto da vicino” spiega la Levy durante un’intervista al “New York Press”. “Ho lavorato molto per non fare un film politico, ma piuttosto ideologico. La storia è costruita come una fiaba geopolitica. Volevo raccontare qualcosa che potrebbe realmente accadere: due fratelli, nemici per definizione, che riescono alla fine a trovare un’unità, a fare un patto con l’altro, a riconoscere reciprocamente l’esistenza dell’altro”.“Sono contenta – aggiunge ancora la Levy – che il film abbia ricevuto una buona accoglienza sia da parte del pubblico arabo che di quello ebraico in Francia. Ma la storia che racconto è universale, va oltre i confini di Israele e Palestina. E’ un film pensato per unire le persone”.“Il figlio dell’altra”, sarà proiettato (in lingua originale con sottotitoli in italiano), il prossimo 15 gennaio al Cinema Anteo (via Milazzo 4, ore 20.00), in anteprima speciale riservata alla Comunità Ebraica di Milano. L’ingresso sarà ad offerta libera (a partire da 15 euro); l’incasso sarà devoluto ai movimenti giovanili ebraici.VIDEO: http://www.mosaico-cem.it/articoli/37024
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L'angolo del cinema
In Svezia un giovane musulmano contro l'antisemitismo
A Malmö in Svezia, lo scorso novembre, il Comitato svedese per la lotta all’antisemitismo (SKMA) ha assegnato il suo primo premio per l’integrazione e l’utilizzo dei social media nella lotta contro la diffusione dell’antisemitismo. Il vincitore, per quanto sorprendente possa apparire, è un giovane musulmano di origini iraqene, Siavosh Derakhti.Siavosh ha 21 anni e vive a Malmö insieme alla sua famiglia dai tempi della guerra del Golfo. Siavosh ha ricevuto il premio “Elsa” per aver fondato un’organizzazione dei giovani musulmani contro l’antisemitismo, e per il suo impegno nelle scuole, fra gli studenti, nel combattere il pregiudizio contro gli ebrei.“Sono rimasto scioccato quando ho scoperto quanto fosse diffuso in Svezia l’odio per gli ebrei – dice nell’intervista telefonica a The Times of Israel; “quando ho scoperto che gli ebrei fuggono da Malmö perchè hanno paura, perchè per le strade non si sentono sicuri. I miei genitori decisero di fuggire dall’Iraq e dalla dittatura per vivere in un paese lontano dalle guerre, dalla violenza, per farci vivere in un paese democratico”. “Trovarmi qui, di nuovo, fra odio, discriminazione, razzismo, non è accettabile. Qualcosa deve essere fatto” spiega Siavosh.La Svezia, d’altra parte, si sa, non solo è uno dei paesi europei con il più alto tasso immigrazione, ma anche quello in cui l’intolleranza verso gli stranieri, la diffusione dell’antisemitismo e dell’antisionismo hanno raggiunto punte davvero preoccupanti.Frequentando la Malmö Latinskole, Siavosh si è reso conto non solo del pregiudizio dei compagni nei confronti degli ebrei, ma anche della loro scarsissime conoscenze sulla Shoah. E in questo, la dirigenza scolastica, secondo Siavosh ha delle responsabilità. ”In 25 anni in questa scuola non è mai stato invitato a parlare un testimone. Non stupisce che fra i ragazzi sia così diffuso il negazionismo”.Siavosh ha preso così l’iniziativa di invitare due testimoni della Shoah a parlare agli studenti della sua scuola, conducendoveli lui stesso. Non solo: ha organizzato il primo viaggio degli studenti della Malmö Latinskole al campo di Auschwitz. Un’impresa, a quanto pare, non facile. “La mia proposta non aveva ricevuto alcun sostegno, nè da parte degli insegnanti, nè della dirigenza scolastica. Non mi sono scoraggiato: ho insistito con con il dipartimento dell’istruzione di Malmö per ottenere dei finanziamenti che, alla fine sono stati offerti dalla città. A quel punto anche la dirigenza scolastica ha dovuto accogliere l’iniziativa”. Siavosh ha portato ad Auschwitz un gruppo di 27 studenti, molti dei quali musulmani, tra cui anche diversi palestinesi. “Mentre eravamo lì, racconta, molti ragazzi sono scoppiati in lacrime” racconta. “Hanno imparato molto da quell’esperienza”. Durante il viaggio Siavosh ha girato anche un piccolo documentario che ora viene proiettato nelle scuole durante le sue lezioni.L’impegno di Siavosh nella lotta contro la discriminazione e l’antisemitismo ha ricevuto elogi e riconoscimenti da parte della comunità sia ebraica che musulmana svedesi.Il Comitato svedese contro l’antisemitismo, a sua volta, aveva sentito parlare di Derakhi all’epoca del viaggio degli studenti ad Auschwitz. ”Abbiamo seguito il suo lavoro contro l’antisemitismo e il razzismo a Malmö e siamo rimasti molto colpiti”, dice Henrik Bachner, uno dei membri del Comitato che ha fatto parte della commissione che ha assegnato il premio. “Il fatto che la sua attività si concentri sugli studenti, e che al tempo stesso partecipi al dibattito pubblico – contribuendo a far emergere i problemi seri che esistono a Malmö sul pregiudizio e l’ostilità contro gli ebrei – ha giocato un ruolo importante nella nostra decisione.” Il Comitato svedese contro l’antisemitismo continuerà a sostenere il lavoro Derakhti” dice ancora Bachner ”e anzi a gennaio lo abbiamo inviato a parlare a Stoccolma, di fronte a studenti provenienti da tutta la Svezia, in un incontro organizzato dal Comitato sulla prevenzione dell’antisemitismo e il razzismo. ”La nostra ambizione, ha dichiarato Bachner, è quella di trovare nuovi modi di collaborazione per il futuro”.Il Comitato svedese contro l’antisemitismo si è costituito nel 1983, a seguito della forte ondata di antisemitismo sviluppatasi in Svezia con lo scoppio della guerra del Libano, nel 1982. E’ un’organizzazione autonoma, senza affiliazioni a partiti politici o organizzazioni religiose, ed ha per scopo principale l’educazione dei giovani al contrasto del pregiudizio e dell’antisemitismo; fornisce informazioni e materiale educativo agli insegnanti e agli studenti e organizza viaggi di studio nei luoghi della Shoah.Il premio “Elsa” è stato voluto da Henrik Frenkel, membro del Comitato e figlio di sopravvissuti della Shoah. Elsa è il nome della prima nipote di Frenkel.http://www.mosaico-cem.it/
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