sabato 24 ottobre 2009

Gerusalemme

Qual è la capitale di Israele? E perché i giornali non riescono a mettersi d’accordo?

Per avere un’idea di quanto è complessa la situazione in Israele, basta dare un’occhiata ai giornali italiani. Esistono versioni diverse su tutto: persino su questione che, da qualsiasi altra parte, non meriterebbero nemmeno di essere discusse. Per esempio: qual è la capitale?
Su questo punto, apparentemente semplice, la stampa italiana proprio non riesce a mettersi d’accordo. Prendiamo qualche titolo recente.Il Corriere della Sera qualche giorno fa titolava: “Gelo nel matrimonio di interesse tra Gerusalemme e Ankara”. Dove Gerusalemme e Ankara, in quanto capitali, stavano rispettivamente come sinonimi di “Israele” e “Turchia”Anche l’Espresso ha recentemente pubblicato un pezzo intitolato “l’Amico di Gerusalemme”, che si riferiva ai rapporti tra la Cina e lo Stato di Israele.Il Messaggero invece sembra riconoscere Tel Aviv come capitale. Infatti titolava: “Abbiamo rapito un militare”. Massima allerta a Tel Aviv, che si riferisce ai venti di guerra tra la milizia libanese Hezbollah e lo Stato di Israele.Anche il Manifesto, che a me risulti, utilizza quasi sempre l’espressione “governo di Tel Aviv”.Alcuni giornali dichiaratamente schierati a favore degli israeliani o dei palestinesi ne fanno una questione politica. Altri sembrano semplicemente… molto confusi sull’argomento.La Stampa per esempio qualche tempo fa titolava: Tel Aviv non attaccherà l’Iran. E, visto che l’articolo ovviamente non si riferisce alla squadra di calcio Maccabi Tel Aviv, dobbiamo dedurne che il giornale torinese considera Tel Aviv la capitale, e che ne utilizza il nome come sinonimo di “Stato di Israele”. Ma poi in un altro articolo (questa volta preso dall’edizione internet), il quotidiano torinese parla di “governo di Gerusalemme”, in un pezzo dedicato alla difficile mediazione degli Stati Uniti sul Medio Oriente.Oppure prendiamo Repubblica. In questo articolo dell’edizione internet, il catenaccio recita: “Il leader di Tel Aviv: C’è stato un accordo generale, anche da parte dei palestinesi”, riferendosi al primo ministro Benyamin Netanyahu. Inoltre nel pezzo si legge che Barack Obama avrebbe “elogiato il governo di Tel Aviv per i recenti passi verso la pace con i palestinesi”. Poi però sempre su Repubblica, in un editoriale di Bernardo Valli, troviamo l’espressione “governo di Gerusalemme”.Insomma la confusione regna sovrana. Dunque, mettiamo un po’ di cose in chiaro.Dove si trova, fisicamente, il governo israeliano? Indubbiamente, a Gerusalemme. Lì hanno sede la Presidenza della Repubblica, il Consiglio dei Ministri, la Knesset (il parlamento unicamerale), e tutti i ministeri… tranne quello della Difesa, che invece si trova a Tel Aviv per ragioni di sicurezza.Come si è giunti alla situazione attuale? Al tempo della partizione nel 1947, l’Onu voleva mantenere Gerusalemme come territorio autonomo sotto la propria giurisdizione. Nel 1948 però gli Stati arabi confinanti hanno attaccato Israele: durante questa guerra Israele ha conquistato Gerusalemme Ovest, mentre la Giordania si è presa Gerusalemme Est. Nel 1967, poi, Israele ha conquistato anche Gerusalemme Est.
Qual è la capitale di Israele? Qui invece la situazione si fa più complicata. Per semplificarla, si potrebbe dire che la capitale è de facto Gerusalemme, ma de jure esistono posizioni contrastanti.
-Gli israeliani considerano Gerusalemme la loro capitale a pieno titolo. La politica israeliana è però divisa su un punto: in genere i conservatori (come l’attuale primo ministro) considerano Gerusalemme “una e indivisibile”, mentre i progressisti (come l’attuale vicepremier Ehud Barak) sono disponibili a concedere la parte orientale della città, come capitale di un futuro Stato palestinese… a patto però che i palestinesi si impegnino a rispettare la sicurezza dei loro vicini.
-Anche i palestinesi, però, considerano Gerusalemme la loro capitale. L’Autorità palestinese aveva però rifiutato l’offerta, avanzata da Ehud Barak quando era primo ministro, di dividere Gerusalemme in due, offrendo una parte di Gerusalemme Est ai palestinesi.
-Gli americani considerano Gerusalemme la capitale di Israele: il riconoscimento è stato formalizzato con una legge del 1995. Tuttavia gli Usa mantengono la loro ambasciata a Tel Aviv e considerano la parte Est di Gerusalemme territorio palestinese.
-Le Nazioni Unite non riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele. In base a una vecchia risoluzione del 1947, Gerusalemme dovrebbe essere un territorio autonomo, sotto la protezione dell’Onu. Una soluzione oggi considerata inaccettabile sia dai palestinesi che dagli israeliani: almeno su una cosa si trovano d’accordo…
-L’Unione europea non riconosce Gerusalemme come capitale di Israele. In teoria l’Europa si attiene alla risoluzione Onu. Ma di fatto molte diplomazie europee riconoscono la posizione americana come una valida soluzione e sostengono la divisione della città in due. Tutti i Paesi europei mantengono le loro ambasciate a Tel Aviv. Gli europei chiedono a Israele di interrompere ogni costruzione a Gerusalemme Est, ma sembrano avere accettato, almeno di fatto, che Gerusalemme Ovest è sotto la giurisdizione israeliana. anna momigliano 14 Ottobre 2009 http://blog.panorama.it/

Israele e i mondiali di calcio Quando lo sport divide

La nazionale israeliana difficilmente si qualificherà per i mondiali di calcio del 2010, ma nel caso c’è già chi vuole escluderla per motivi politici, come avvenuto agli ultimi Giochi del Mediterraneo
I paesi arabi e gli attivisti europei pro Palestina tireranno forse già da oggi un sospiro di sollievo: volevano fare escludere Israele dalla fase finale dei mondiali di calcio che si terranno in Sudafrica quest’estate ma Israele ha buone probabilità di farsi eliminare da solo e quindi amen. Dopo l’esclusione dello stato ebraico dai Giochi del Mediterraneo tenutisi a Pescara nel giugno 2009 sarebbe stato il secondo schiaffo da parte del mondo dello sport in pochi mesi. Se poi ci aggiungiamo anche il caso della tennista israeliana Shahar Peer, boicottata dagli organizzatori del torneo di Dubai lo scorso febbraio, con le tv che si rifiutarono di dare la diretta per paura delle ritorsioni arabe, abbiamo il quadro preciso di come lo sport sia ormai occasione e vetrina di odio piuttosto che di pace tra i popoli. L’allarme per i prossimi mondiali, come capita spesso in questo periodo, era arrivato una settimana fa tramite il social network per antonomasia, cioè Facebook. In uno dei gruppi che sostengono Israele e fanno campagna attiva contro il boicottaggio, era giunta in inglese la notizia che in Svizzera alcuni attivisti antiisraeliani e anti semiti avevano fatto di tutto anche solo per evitare che potesse avere luogo la partita di ritorno del girone di qualificazione per i mondiali di calcio in Sudafrica del 2010. Inutile dire che in un paese condannato a rifondere i danni per l’oro di 31 mila ebrei di cui le banche locali si appropriarono dopo che i nazisti ce lo avevano depositato e dopo che nessuno era andato a reclamarlo nei primi anni del dopoguerra una simile campagna trova i propri bravi sostenitori. Però la campagna perché Israele fosse esclusa dalla fase finale dei mondiali che si svolgeranno in Sudafrica, anche qualora fosse riuscita a qualificarsi (fino a ieri stava a 12 punti e proprio la Svizzera è una diretta concorrente avendone 17) è continuata a spron battuto sino al fischio di chiusura della partita vinta dalla Svizzera a Basilea. Proprio dal paese elvetico l’altro ieri era giunto il seguente messaggio: “abbiamo ricevuto un urgente richiesta d’aiuto da parte dei nostri amici in Svizzera. E’ in atto un tentativo di bloccare la partecipazione di Israele agli incontri di qualificazione per il campionato del mondo di calcio. Per favore scrivete al presidente della Fifa Blatter per supportare la partecipazione di Israele”.Va ricordato il precedente dei mondiali di Giappone e Corea del 2002 quando furono i presidenti della Lega calcio della Giordania e della Siria a chiedere a Blatter che Israele venisse esclusa dalle competizioni. Il principe Alì in persona, a capo della Federazione giordana e fratello del re Abdallah, spiegava allora che la partecipazione di Israele agli incontri calcistici avrebbe dovuto essere congelata, “così come si fece con il Sudafrica ai tempi dell’apartheid”. Su posizioni analoghe si era posto il presidente della Federazione siriana Frank Bouzo: “Ci appelliamo al comitato esecutivo della Fifa affinché sospenda l’adesione di Israele e vieti ogni partecipazione israeliana alle sue attività”. Adesso però con i mondiali in Sudafrica c’era l’occasione ghiotta delle simbologie: cioè il solito paragone dell’apartheid razziale del Sudafrica dei tempi che furono con quello, supposto, che Israele opererebbe tuttora ai danni dei palestinesi. Per gli attivisti dell’odio ogni occasione è da sfruttare così come per i loro cugini carnali che fanno i terroristi. E infatti Israele e i suoi atleti già pagarono un alto prezzo di sangue nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco con tredici morti dopo un’incursione di un commando di palestinesi nel villaggio olimpico dove erano alloggiati gli atleti che gareggiavano sotto la bandiera della stella di Davide. A finanziare quell’atto di terrorismo fu, all’epoca, nientemeno che “il moderato Abu Mazen”, che oggi Israele considera come un interlocutore credibile. Ma se i tempi e le persone cambiano, la costante dell’odio anti israeliano, e il tentativo di usare le manifestazioni sportive per veicolarlo, resta immutata. D’altronde l’Italia ha già sperimentato a Pescara a giugno con l’esclusione dello stato ebraico dai Giochi del Mediterraneo (una vicenda per niente esaltante per il Coni e le nostre istituzioni sportive e diplomatiche) imposto dai paesi arabi, cosa sia questo odio. In fondo, a volersi consolare così, l’eventuale eliminazione di Israele dalle qualificazioni ci potrà risparmiare un’ignobile appendice anche durante i prossimi mondiali di calcio a Johannesburg. E a Gerusalemme potranno sempre dare la colpa all“arbitro cornuto”.
15 Ottobre 2009 http://www.opinione.it/



Ilsistema Mobileye per il controllo di distanza tra i veicoli
Sistema di calcolo della distanza tra auto e pedoni
In Israele nasce l'auto salva pedoni
Un sistema di telecamere e frenata automatica per evitare di investire passanti. Lo userà Volvo
Parla come un navigatore: “Attenzione, pedone!”. Lampeggia come una spia: gialla se l’ostacolo è ancora lontano, rossa se s’avvicina. Inchioda come un freno a mano: poche decine di centimetri di frenata, se la velocità è da città. L’Auto Intelligente non ha ancora un nome, però ha già un mercato. L’ha messa a punto un istituto d’elettronica applicata di Gerusalemme, Mobileye, e il brevetto è stato venduto agli svedesi della Volvo che lo monteranno fin dall’anno prossimo, sul nuovo modello S60. L’Auto Intelligente “vede” il pedone che attraversa a 35 metri di distanza, avverte l’automobilista con un segnale sonoro e, se alla guida c’è un distratto, provvede da sé: rallentando o frenando con decisione, a seconda della situazione.COME FUNZIONA - Ci sono voluti cinque anni, per inventare la frenata automatica. Una microcamera collegata a un radar: insieme, utilizzano algoritmi che possono individuare qualsiasi forma vivente, esseri umani o animali, mentre attraversano la strada. L’Auto Intelligente, è sicuro Amnon Shashua, il docente d’informatica all’Università ebraica che ha guidato l’équipe di ricerca, “permetterà di salvare molte vite umane e diventerà presto, più che un optional, un irrinunciabile dotazione di qualsiasi vettura”. Un problema sentito, se è vero che richieste d’informazioni sono arrivate anche da Stati Uniti, Giappone e Germania: “Abbiamo cominciato a studiarlo quando ci siamo accorti che le morti sulla strada erano diventate un dramma. Non è solo una questione d’indisciplina, d’abuso d’alcol o di droghe. L’aumento del traffico ha annullato il rispetto delle distanze di sicurezza un po’ dappertutto, anche nei Paesi dove il codice stradale è più rispettato. Qui, è diventato quasi una piaga sociale”. Il sistema Mobileye per il controllo di distanza tra i veicoli GUIDA SPERICOLATA - In Israele non guidano male. Guidano malissimo. E non è vero che questo è un Paese che va sempre più a destra: fatevi in macchina l’autostrada Rabin, a qualunque ora, e vedrete che la grande passione di tutti è occupare la corsia di sorpasso, senza mollarla più. Poche strade al mondo sono più pericolose di quelle israeliane. Negli ultimi nove mesi sono morte 90 persone, investite da pirati o incapaci del volante. E si vendono poche moto, nonostante il clima caldo e la buona manutenzione dell’asfalto, perché la percentuale d’incidenti su due ruote è altissima. “Abbiamo sperimentato il sistema su decine d’automobilisti”, spiega Shashua, “e le probabilità d’urto si sono ridotte”. Quando la scoperta è stata presentata, qualcuno ha posto la domanda: frenare va bene, ma chi garantisce che dietro non ci tamponino? L’Auto Intelligente sa pensare anche a questo: la prima cosa che fa, mentre inquadra la sagoma sul percorso e calcola lo spazio, è guardarsi le spalle. Per decidere, in un istante, come graziare il pedone senza farsi ringraziare dal carrozziere.Francesco Battistini15 ottobre 2009 http://motori.corriere.it/













Rutu Modan


Fumetto - Rutu Modan e il formato comic book

Nel libro intervista “Eisner/Miller conversazioni sul fumetto”, le prima pagine sono dedicate al formato dei fumetti. Soprattutto negli USA il formato comic book è una certezza editoriale, così come in Italia il formato Bonelli e in Francia l’album.Tutti questi formati nascono da tradizioni e scelte soprattutto produttive. Il comics book non è altro che un quotidiano piegato più volte fino ad arrivare a quel 17x26 cm che ha fatto sudare più di uno stampatore.Nella storia del fumetto diversi autori hanno cercato di superare questo limite esplorando nuove soluzioni. In Italia non possiamo dimenticare gli esperimenti del gruppo di Linus o di Frigidaire. Mentre negli Stati Uniti lo stesso Miller con il volume “300”, ha realizzato un libro orizzontale, con pagine ampie dove le tavole esplodevano in tutta la loro potenza espressiva.Will Eisner però ricorda come la leggibilità non è solo legata alla capacità di un autore di produrre una storia che abbia senso, ma anche al fatto che il layout della storia disegnata sia riconoscibile dai lettori. La stessa differenza tra leggere da sinistra o da destra. Insomma Eisner apprezza l’innovazione, ma da buon educatore, sa che c’è sempre il rischio che si perda qualcosa del messaggio se non si rispettano certe regole.Rutu Modan (nella foto in alto) fa parte di alcuni fumettisti che ha esplorato con particolare intensità l’uso del web per raccontare storie attraverso il disegno. Proprio anni fa Franco Carlini ne “Lo stile del web” ricordava come le prime forme di comunicazione dell’uomo, dopo i gesti e i suoni, sono stati i disegni, quegli “affreschi” nella caverna di Lascaux, ha iniziare il cammino dell’uomo. È l’immagine a essere la forma più naturale e antica della nostra comunicazione. Il web è nato scritto, ma via via è ritornato in quella caverna. Il fumettista in questo caso si può trovare a suo agio.Rutu Modan ha curato nel 2007 un blog disegnato dove non ha fatto altro che trattare gli argomenti di qualunque blogger, ma disegnando. Così l’incarico di portare la nonna dal parrucchiere diventa l’occasione per confrontarsi con lei sul futuro di donna. Mentre il periodo della gravidanza e del successivo parto, sono l’occasione per parlare dell’esigenza del riposo.Infine un’altra nonna racconta di Varsavia e del suo arrivo a Tel-Aviv.L’interessante lavoro di Modan è aver combinato formato del fumetto con formato della pagina web. In realtà il web ha rilanciato una vecchia forma… il rotolo. Le pagine si srotolano sul nostro programma di navigazione. Ed ecco che Modan ha scelto il percorso più naturale per disegnare i suoi racconti. Invece di realizzare immagini quadrate, tipo vignette, che vanno lette girando pagina (cioè cliccando su un simpatico bottone), ha disegnato le storie tutte in unico rotolo che scrolla si legge in un’unica pagina web.La modalità narrativa perciò cambia. Il testo si alterna alle immagini, scompaiono le nuvolette, le immagini sono “fermi immagine” del pensiero della autrice.Un interessante lavoro di composizione della pagina web, che sfrutta forse una delle funzioni più scomode del web, lo scrolling della pagina, ma nello stesso tempo lo trasforma in un modo innovativo di raccontare, rompendo la banalità delle parole.Andrea Grilli http://www.moked.it/

Gerusalemme - Yad Vashem museo della Shoa

Hitler al museo, caso in Thailandia Pubblicità con scritta "non è morto"

E' polemica in Thailandia per la scelta di un museo delle cere di farsi pubblicità con un enorme cartellone pubblicitario che ritrae Adolf Hitler mentre fa il saluto romano con sotto la scritta "non è morto". Immediate le proteste di Germania e Israele che, come scrive il sito web della Bbc, hanno portato i responsabili del museo Louis Tussaud di Pattaya a rimuovere le immagini incriminati piazzate due settimane fa. "Non abbiamo scelto l'immagine di Hitler per celebrare la sua figura - si difende il direttore del museo, Somporn Naksuetrong -. E' una importante figura storica, ma in forma orribile. Ci scusiamo per chiunque si sia offeso, non era la nostra intenzione". Le ambasciate di Germania e Israele in Thailandia hanno vigorosamente protestato, rivolgendosi sia al museo che al ministro degli Esteri. Non è la prima volta che nel Paese vengono utilizzate immagini legate al nazismo per scopi pubblicitari, segnala il quotidiano Hindu. Due anni da, una scuola consegnò ai propri studenti berretti da baseball con svastiche e la scritta Nazi molto in evidenza per una parata sportiva. L'istituto si scusò pubblicamente. Nel 1998, ancora Hitler salutava i potenziali clienti di una marca di patatine. La pubblicità venne ritirata. Alla fine degli anni '80, destò scandalo il "Nazi bar" aperto a Bangkok, tappezzato al proprio interno di foto dei gerarchi e delle Ss in azione. Alla fine il bar cambiò nome in "No name bar".18/10/2009 http://www.tgcom.mediaset.it/

Indian Jews communities map
Il caso Foto rubate a Villa Certosa, Zappadu tenta la fortuna in Israele

Censurato dal Garante della privacy in Italia, Antonello Zappadu ci riprova in Israele. Il fotografo sardo che, per mettersi al riparo da azioni giudiziarie, ha ceduto a un’agenzia colombiana gli scatti rubati di Silvio Berlusconi a Villa Certosa, ora cederà quelle immagini per pubblicizzare ristoranti e alberghi della zona di Tel Aviv. Lo ha assicurato lui stesso al quotidiano israeliano «Haaretz», spiegando di essere stato contattato da «una società di pubblicità molto importante» e dicendosi molto «divertito». 19 ottobre 2009 http://www.ilgiornale.it/

Gerusalemme - Yad Vashem museo della Shoa

Perché Shoah e non Olocausto

Per chiarezza qualsiasi discorso sulla Shoah dovrebbe affermare che essa è il male estremo. Un evento che proietta la sua ombra su ogni risultato che il progresso umano possa raggiungere, che ha scatenato una crisi di valori identificati con la civiltà occidentale e ha scosso la fede dell'umanità nell'esistenza di Dio. All'inizio degli anni Novanta, durante un incontro con gli ambasciatori, un anziano funzionario del ministero degli Esteri israeliano disse che il ricordo della Shoah si sarebbe dovuto mantenere come intima memoria privata piuttosto che come esposizione in pubblico delle sofferenze e dei traumi. Solo così il ricordo sarebbe rimasto autentico e immune da banalità e strumentalizzazioni. Queste osservazioni, benché di grande impatto, contrastano con l'esperienza pubblicamente condivisa sul modo in cui creare e conservare una cultura della memoria. Queste dichiarazioni sembrano di fatto minare alla base un certo concetto dell'ethos israeliano che lega la Shoah alla costituzione della patria ebraica. Già prima della Shoah si pensava che la ragion d'essere dello Stato d'Israele più che la mera realizzazione del sogno di ritornare nella Terra promessa, fosse creare un porto sicuro per il popolo ebraico, disperso e perseguitato nella diaspora. Come, conseguenza della Shoah è emersa un'ulteriore nozione: che non si sarebbe mai più permesso il verificarsi di una catastrofe simile. Israele non è stato fondato a motivo della Shoah, ma se fosse stato creato prima, essa si sarebbe evitata. Sembra dunque che gli israeliani siano destinati a vivere in uno stato permanente di paranoia giustificata. Il 12 agosto 2009 «The New . York Times» ha attribuito grande importanza alla questione in un articolo intitolato: «E tutto troppo tranquillo per gli israeliani? Cresce l'apprensione per capire quale asso i nemici nascondono nella manica». Pare che gli israeliani non si permettano il lusso di concepire una vita quotidiana priva di minacce. L'altra faccia di questa medaglia è l'assunzione di un atteggiamento eroico motivato dall'essere israeliani, invece che gli ebrei massacrati, indifesi e privi di un proprio Stato. Senza dubbio coltivare la memoria collettiva di un evento così traumatico unico nel suo genere, è una necessità perché, con il trascorrere del tempo, i sopravvissuti scompaiono e il ricordo dei fatti potrebbe sbiadire. I primi anni Cinquanta furono caratterizzati dal silenzio delle vittime e degli aguzzini, un silenzio che lentamente si ruppe alla fine di quel decennio e durante gli anni Sessanta. Nonostante il processo Eichmann abbia portato a elaborare una nuova formulazione della Shoah fra i membri della seconda generazione sia delle vittime sia degli aguzzini è stata proprio la seconda generazione a promuovere più che ogni altra la cultura della memoria della Shoah. Si ritiene che la memoria si mantenga viva grazie alla ripetizione. Il tema della Shoah divenne una parte essenziale della letteratura postbellica e dei mezzi visivi di comunicazione sociale. Tuttavia l'avere modellato con successo una cultura della memoria ha causato anche effetti negativi. Con il passare dei decenni, da quell'evento unico emerse il problema della sua rilevanza, specialmente quando quegli eventi indescrivibili dovevano essere spiegati alle generazioni più giovani. Con il trascorrere del tempo nulla fu più così ovvio e, forse inevitabilmente, si apri la strada alla banalizzazione. Inoltre, poiché per correttezza politica si usava il termine «olocausto» per descrivere il male estremo, la tentazione di etichettare altri eventi come olocausti divenne politicamente conveniente. Olocausti in Biafra, in Cambogia, in Burundi o nel Darfur hanno riempito i titoli dei media, contribuendo a richiamare l'attenzione su eventi che lo meritavano. Tuttavia lo scotto da pagare è stato il venir meno dell'unicità della Shoah e della sua memoria. Il termine «olocausto» si è politicamente inflazionato. E divenuto un mezzo per definire afflizioni politiche e umane di ogni tipo. «Olocausto» è la traduzione in greco del termine ebraico - Olah, adottata dalla versione dei Settanta. Olah è un sacrificio in cui tutto viene bruciato sull'altare. Secondo la Torah l'uso di questo termine religioso non riguardava gli esseri umani ma nel libro di Geremia (19, 4-5) i tanto esecrati sacrifici umani del culto pagano di Baai sono definiti, al plurale olot. La Bibbia di Donay-Rheims (edizione del 1750), che ha cercato di restare il più possibile fedele alla versione dei Settanta, offre la seguente traduzione: «E hanno fabbricato altari a Baal per bruciare nel fuoco i loro figli in olocausto a Baal: cose che io non comandai, né mai mi vennero in mente». Non è noto se lo stesso termine greco holòkauston si riferisse a un rito sacrificale pagano o ebraico. Nell'Anabasi, molto antecedente alla traduzione della Bibbia in greco, Senofonte utilizza la forma verbale holokàutei in riferimento al rito sacrificale pagano greco. Il testo di Senofonte è stato letto praticamente da ogni classe istruita nel corso di tutta la storia europea. Anche per questo i termini «sacrificio» e «olocausto» sono stati spesso associati ai riti pagani, con il significato di «offerta interamente bruciata». Nella Encyclopédie (1765) di Diderot e D'Alambert, la voce Olocausto, in trenta righe, non fa alcun riferimento a ebrei o a pratiche ebraiche ma solo a sacrifici in onore di «divinità infernali». Nel 1929 Winston Churchill definì le atrocità turche contro gli armeni come «olocausto amministrativo». D'altra parte, a New York, nel 1932, un annuncio pubblicitario di una grande svendita promozionale affermava che tappeti orientali e nazionali erano oggetto di un «grande olocausto del prezzo». Il termine «olocausto» per indicare lo sterminio nazista degli ebrei fu utilizzato per la prima volta nel novembre 1942 in un editoriale del «Jewish Frontier». Tuttavia, anche dopo il 1945, non è mai divenuto un sinonimo preciso di sterminio degli ebrei, infatti, fino ai primi anni Sessanta, era usato principalmente nel contesto della catastrofe nucleare. Fu il pensatore cattolico Francois Mauriac, nel 1958, nella prefazione al libro di Eli Wiesel La notte ad adottare il significato religioso del termine «olocausto» utilizzato in Geremia 1945 per indicare grave peccato: «Per Wiesel (...) Dio è morto (...) il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe si è dileguato per sempre (...) nel fumo dell'olocausto preteso dalla razza, la più ingorda di tutti gli idoli».L'interpretazione di Mauriac può condurre alla possibilità della formulazione di un impegno cattolico vincolante, che dovrebbe considerare la negazione dell'olocausto» un peccato contro Dio. E' interessante osservare come il nome della legge israeliana che nel 1953 istituì lo Yad Vashem sia Remembrance Authority of the Disaster and Heroism. In questo caso il termine Shoah è stato tradotto con «disastro» o «catastrofe», resa abbastanza precisa del suo significato biblico. Il termine «olocausto» per indicare lo sterminio degli ebrei era dunque usato raramente e, perfino negli anni Sessanta, sempre insieme all'aggettivo «ebraico» o ad altri. Negli anni Settanta, nelle pubblicazioni americane l'uso del termine divenne più frequente per indicare lo sterminio degli ebrei. Nel 1978 la serie televisiva statunitense Holocaust fu trasmessa in tutto il mondo occidentale. E tuttavia il termine non poteva identificarsi esclusivamente con lo sterminio degli ebrei. Sono numerosi i motivi per cui è divenuto preferibile il termine Shoah per indicare l'evento, unico nel suo genere, dell'uccisione sistematica e meccanizzata che portò allo sterminio di un terzo del popolo ebraico. In primo luogo, esso offre un'alternativa ai significati, in qualche modo vaghi, del termine «olocausto». L'unicità è meglio mantenuta con il termine Shoah. In secondo luogo, utilizzando il termine Shoah si può mostrare rispetto e solidarietà alle vittime e al modo in cui esse stesse esprimono la propria memoria nella loro lingua ebraica. Più probabilmente dobbiamo questa sostituzione di termini al regista Claude Lanzmann, che, nel 1985, ha intitolato il suo acclamatissimo documentario di nove ore proprio Shoah. Ci ha reso internazionalmente nota questa parola ebraica. La scelta è condivisa anche da Benedetto XVI, che, in occasione del settantesimo anniversario della «notte dei cristalli», ha definito, il novembre 2008, «quel triste avvenimento» inizio della «sistematica e violenta persecuzione degli ebrei tedeschi, che si concluse nella Shoah». Gli ebrei, fin dalla seconda generazione dei sopravvissuti alla Shoah, hanno sviluppato un atteggiamento paranoico per evitare la dimenticanza. Ci viene mitigato dalla ripetizione o, in altre parole, dalla memoria ritualizzata. A tutt'oggi accomunare la loro unica esperienza di vittime con le atrocità commesse contro altre nazioni sembra equivalere al tradimento di un lascito trasmesso alle generazioni di ebrei sopravvissuti a quell'evento. Infatti, se la possibile conseguenza della memoria è la banalizzazione, il prezzo della dimenticanza è molto più alto. Per questo all'entrata dello Yad Vashem si possono leggere le parole attribuite al fondatore del movimento chassidico, il Ba'al Shem Tov: «La memoria è la fonte della redenzione».Mordechay Lewy, L'Osservatore Romano, 21 ottobre 2009



A poche ore dal grande incontro di Championsi ragazzi del Maccabi Haifa con i bimbi delle scuole


A poche ore dalla partitissima con la Juventus si apre per i giocatori del Maccabi Haifa fra i sorrisi e l’incitamento degli alunni della scuola ebraica di Torino (le scuole paritarie dell'infanzia e primaria Colonna e Finzi e la scuola secondaria di 1° grado Emanuele Artom). Eyal Golaza, Biram Kial e il capitano Alon Harazi hanno fatto visita in mattinata agli alunni festanti e rumorosi della scuola di via Sant’Anselmo. I tre, visibilmente emozionati di fronte al giovane pubblico, hanno espresso la loro gratitudine per la calorosa accoglienza e in particolar modo hanno ringraziato la direttrice, Marta Morello, per l’ospitalità. Harazi, il giocatore di maggior esperienza fra le fila del Maccabi, ha poi rivelato ai bambini: “Sono molto emozionato di trovare così lontano da casa dei giovani sostenitori come voi; mi ha colpito molto vedere dei cartelloni di incitamento scritti in ebraico” e ha poi voluto sottolineare “la nostra squadra è una delle poche ad avere giocatori ebrei, mussulmani e cristiani”, una dimostrazione che la convivenza è possibile. I giocatori hanno poi regalato alla scuola e alla direttrice sciarpa, bandiera e gagliardetto del Maccabi Haifa.Sperando che la visita sia di buon auspicio per questa sera, la partita si presenta particolarmente ostica per i verdi di Haifa. La Juventus, che in serie A non sta brillando, vuole riscattarsi in Champions e giocherà sicuramente a viso aperto per ottenere gli agognati tre punti. Se da una parte la Juve vuole uscire dalle difficoltà del campionato, il Maccabi deve portare a casa almeno un punto essendo ancora a secco nella competizione europea. L’allenatore Elisha Levi ha dichiarato ieri in conferenza stampa: “Valiamo molto di più degli zero punti in classifica, siamo qui per cambiare le statistiche - e ha aggiunto - siamo venuti a Torino per giocarcela, dobbiamo scendere in campo concentrati e cercare di fare il nostro gioco”. Levi ha poi dichiarato che non cambierà il suo stile di gioco veemente e aggressivo, non importa se di fronte avrà una grande squadra come quella bianconera e ha affermato: “Dobbiamo giocare come sappiamo senza snaturare il modulo. Non abbiamo mai giocato per difenderci ed è grazie a questo spirito che siamo arrivati fin qui”.Harazi, uno dei giocatori più rappresentativi della rosa, ha sostenuto il credo del suo allenatore: “Non partiamo sconfitti, scendiamo in campo con la determinazione di sempre e cercheremo per quanto possibile di aggredire i nostri avversari”. Nessun timore reverenziale dunque anche se “le farfalle nello stomaco ci sono sempre in queste occasioni” ha sottolineato il portiere del Maccabi, Nir Davidovitch “ma - ha poi aggiunto – una volta scesi in campo, dobbiamo pensare solo ala partita”.Nella conferenza stampa c’è stato anche un momento di ilarità generale, più fra gli israeliani a dire il vero, quando un giornalista italiano ha chiesto all’allenatore Levi “se potesse togliere uno fra Buffon, Iaquinta, Diego, Amauri, chi leverebbe?” e uno dei reporter israeliani ha commentato ironico: “Questa è proprio una domanda italiana”. I pronostici sono tutti a favore della squadra di casa ma, come amano dire gli esperti del settore, “nel calcio non si può mai sapere”. Inoltre il Maccabi può contare su dei piccoli tifosi gioiosi ed entusiasti che questa sera potrebbero essere un’arma in più. Daniel Reichel http://www.moked.it/