giovedì 24 aprile 2008

la Siria vista dal Golan


La città delle rose

di Dalia Sofer
Traduzione di Caterina Lenzi
Piemme €16,50

La scrittura, come mezzo per ritrovare le proprie radici e rivivere attraverso i ricordi - alcuni dolci altri dolorosi - il paese dal quale si è dovuto fuggire, è il punto di partenza di due romanzi autobiografici usciti recentemente: Prigioniera di Teheran di Marina Nemat e La città delle rose di Dalia Sofer.
Comune denominatore, oltre alla cifra autobiografica, è l’appartenenza delle autrici ad una religione diversa da quella consentita dal regime dei mullah. Marina, di fede cristiana, finisce giovanissima in carcere al tempo di Khomeini, sposa il suo carceriere e solo dopo sofferenze indicibili riesce ad abbandonare l’Iran; Dalia, di famiglia ebrea, lascia il suo paese all’età di dieci anni per trasferirsi negli Stati Uniti insieme ai genitori.

Il padre di Dalia come Isaac Amin, protagonista del romanzo, ha conosciuto il carcere; tuttavia, sebbene la trama sia frutto della sua fantasia, le vicende narrate richiamano emozioni e sentimenti provati dalla stessa autrice.
Il titolo del libro “La città delle rose” riecheggia l’immagine di Shiraz, la meravigliosa città che ospita il mausoleo del famoso poeta medievale Hafez e dove Isaac Amin ha scoperto la poesia e conosciuto Farnaz, colei che diverrà sua moglie, trascorrendo le più belle estati della sua giovinezza.
La fotografia di Shiraz campeggia all’inizio del romanzo in una pagina dell’agenda di Isaac Amin insieme ai numerosi appuntamenti previsti per quella giornata. Ma il 20 settembre1981 è un giorno funesto per Isaac perché i guardiani della rivoluzione, entrati nell’ufficio armati di fucile, sono venuti per arrestarlo.
Qual è la sua colpa?
Isaac Amin è un rinomato gioielliere che, lavorando duramente all’epoca dello scià, ha potuto garantire alla moglie e ai figli Shirin e Parviz una vita agiata e benestante.
Le sue gemme, apprezzate dalla stessa imperatrice Farah Diba, lo hanno messo in contatto con il mondo dorato dell’aristocrazia iraniana.
Una colpa imperdonabile per i turbanti giunti da poco al potere alla quale si aggiunge il fatto di essere ebreo, seppur non praticante; un motivo sufficiente per essere portato in carcere e torturato con l’accusa di essere una spia d’Israele.
Il romanzo ripercorre i lunghi mesi trascorsi da Isaac in carcere, un luogo di orrore e violenze per accedere al quale è sufficiente essere comunisti, aver avuto incarichi nel passato regime o semplicemente essere appassionati di musica come il pianista Sofoyan Vartan che con le dolci note del suo pianoforte allietava le serate mondane alle quali Isaac partecipava in una vita che ora gli pare lontana anni luce.
Lo sguardo dell’autrice si posa con delicatezza anche su Parviz, il figlio dei coniugi Amin, che studia architettura a New York e vive presso uno scantinato affittatogli da una famiglia di chassidim. Parviz, innamorato della figlia dei Mendelson, ritrova le sue radici nel ricordo delle festività ebraiche trascorse con la famiglia a Teheran, pur nella consapevolezza che nemmeno per amore potrà accettare le rigide regole imposte dalla tradizione chassidica.
Shirin, sorella di Parviz, segue con preoccupazione e angoscia l’evolversi della situazione: l’arresto del padre, la disperazione della madre fino a trovare il coraggio, inaudito per una bimba di otto anni, di rubare nella casa di un’amichetta, figlia di un Guardiano della Rivoluzione, alcuni fascicoli compromettenti di persone (fra le quali Javad, il fratello della madre) in procinto di essere arrestate.

Isaac Amin dopo lunghi mesi di carcere, con i piedi distrutti dalle torture, quasi irriconoscibile torna a casa dopo essere andato in banca e aver consegnato ai suoi carcerieri i sacrifici di tutta una vita. Anche la loro bella casa sul mar Caspio sarà occupata da una famiglia fedele ai principi della rivoluzione.
La decisione di lasciare l’Iran diventa una scelta sofferta ma obbligata.
Un viaggio pericoloso e pieno di incognite aspetta la famiglia Amin: da una parte la nostalgia per Isfahan “con le sue cupole blu, Yadz “dove in una piccola lampada a olio, brucia la fiamma immortale dei zoroastriani”, Ramsar sul Caspio “sempre avvolta nella nebbia” e il rimpianto per la madre di Isaac che, troppo vecchia per seguirli, è rimasta a Teheran; dall’altra il pensiero vola alle città dove li attende la libertà e la speranza di potersi ricostruire una vita, Ginevra, Parigi, New York.
Romanzo di raffinata sensibilità psicologica affronta con una prosa scorrevole e priva di sentimentalismi una vicenda umana di forte impatto emotivo sullo sfondo di un’epoca storica che ha visto la Rivoluzione komeinista trasformarsi in un regime dittatoriale e crudele dove anche i più elementari diritti umani sono violati e dove gli ebrei – come altre minoranze religiose – sono “tollerati”, più spesso minacciati, sia per la religione professata che per il legame che li unisce ad Israele, un paese del quale l’attuale presidente Ahmadinejad continua ad invocare la cancellazione, nella quasi totale indifferenza del mondo occidentale.

Giorgia Greco

cimitero militare sul Golan

Proedi alla Fiera del Libro di Torino

Una ideale trilogia che ci conduce dagli inizi del secolo in uno sperduto Shtetl (villaggio a maggioranza ebraica) dell’Europa dell’Est, passa per il grande dramma della Shoah e la salvezza che per i pochi superstiti ebrei fu trovata in terra di Israele (Erez Israel) per arrivare fino alla attuale condizione di ricerca della pace nello Stato di Israele condotta in mezzo al terrorismo islamista e al “rifiuto” arabo della presenza ebraica in Medioriente in uno Stato indipendente e democratico.
Questo è il percorso proposto da Proedi Editore in una speciale edizione della Fiera del libro che cade in occasione del 60° anniversario dalla fondazione dello Stato di Israele.
Si tratta di tre novità (anche se la prima, Orecchini in cantina, è una traduzione di un’opera che ha già ottenuto numerosi riconoscimenti in tutto il mondo), che in comune hanno la storia del popolo ebraico nella ricerca del ritorno alla propria terra e nella conquista della pace nella giustizia.
L’autrice di Orecchini in Cantina, Rachel Bernheim Friedman, che oggi vive in un kibbutz a nord di Tel Aviv, ha attraversato il ventesimo secolo e vissuto il dramma della Shoah ad Auschwitz partecipando anche alla terribile Marcia della Morte. Faceva parte di una famiglia ebraica borghese, fin dall’infanzia sionista. Dopo l’Olocausto la nuova vita in Israele fino al dramma della morte del figlio Dani nella Guerra del Kippur (1973).
La Spezia porta della Speranza è invece un libro documentatissimo che fa da supporto a un eccezionale documento storico: il filmato dedicato dalla Associazione Gruppo Samuel (di La Spezia, fondata e diretta da Don Gianni Botto) alla Alià Beth, ovvero alla ondata migratoria verso la Terra di Israele che vide il proprio centro in Italia e in particolare a La Spezia tra il 1945 e il 1948, data di nascita dello Stato di Israele. Una ondata migratoria che la Gran Bretagna, potenza mandataria in Palestina, cercò di bloccare in ogni modo, nonostante che i profughi fossero i reduci dai campi della morte nazisti. La popolazione italiana unita fu invece solidale con questi reduci e scrissero insieme una pagina poco conosciuta ma fondamentale della storia moderna.
Infine Diario dalla Galilea ci riporta ai giorni nostri e alla realtà del conflitto Mediorientale ancora in corso. L’autrice è una donna di pace, una insegnante che ha creato un esperimento di convivenza con straordinari risultati, agendo come una sognatrice contro la realtà della violenza e dell’odio di tutti i giorni. Angelica Livnè Calò è una esuberante ragazza romana quando arriva più di 20 anni fa nel suo kibbutz della Galilea al confine con il Libano. Coniuga in sé gli ideali della Hashomer Hazair (movimento sionista socialista) con una religiosità profonda. Una miscela esplosiva che la porta a combattere tutti gli establishment per creare una compagnia teatrale composta da giovani ebrei religiosi e laici, cristiani e musulmani. Una realtà “impossibile” in Medioriente , che diventa possibile grazie alla forza dei sogni e crea ben presto una “catena del bene” che arriva fin da noi in Italia con lo straordinario successo della compagnia teatrale Beresheet La Shalom che ad oggi ha potuto portare il suo messaggio d’amore a più di 100.000 giovani.

martedì 22 aprile 2008

sulle rive del Kinnereth (Tiberiade)

Israele. Rabbini: un buon ebreo non fuma durante la settimana di Pasqua

Un buon ebreo deve astenersi dal fumare sigari e sigarette per l'intera settimana in cui si festeggia la Pasqua: e' l'ultimo proclama dei rabbini ortodossi che hanno rivolto un appello a tutti i propri fedeli a rinunciare per sette giorni di seguito anche a questo vizio.Ma le ragioni del nuovo divieto (che per un fumatore rischia di rivelarsi come la piu' dura delle penitenze), non sono ispirate dai timori per la salute, ma dal sospetto (perche' di questo al momento si tratta) che anche il tabacco possa contenere tracce di lievito, prodotto rigorosamente proibito in questa settimana santa durante la quale e' consentito consumare solo pane azzimo.I rabbini Moshe Sternberg ed Eda Haredit hanno spiegato che 'molti degli aromi aggiunti alle sigarette e che derivano da farina e frumento, contengono lieviti, per non parlare poi del fatto che il tabacco viene sciacquato in alcool'.In ricordo della fuga degli israeliti dall'Egitto (quando furono costretti per otto giorni a mangiare solo pane non lievitato), il rito della pasqua ebraica (iniziato ieri sera) vieta agli ebrei di consumare per una settimana qualunque prodotto che contenga lieviti come pane, biscotti, pasta o birra.Per scongiurare il rischio che un fedele possa utilizzare nella settimana del divieto altri generi di consumo che siano accidentalmente entrati in contatto con lieviti, anche durante la fase di produzione, i rabbini eseguono controlli nelle fabbriche certificando poi la 'purezza' di molte merci.Certificazione presente pure su alcune marche di sigarette, ma che secondo il rabbino Moshe Sternberg 'non puo' essere credibile': secondo il religioso non sarebbe infatti possibile effettuare controlli sufficientemente accurati su tutti gli elementi che intervengono nella fabbricazione delle sigarette, al punto da poter davvero escludere che il tabacco non sia stato 'contaminato' dai lieviti. Da qui il divieto di fumare nei giorni della Pasqua, cui va aggiunto anche l'obbligo di lasciare fuori dalla porta di casa pacchetti di sigarette e portarceneri, capaci di rendere impura l'intera abitazione.

lago Kinnereth (Tiberiade)

Restaurata la più antica porta ad arco del mondo

La più antica porta ad arco del mondo, che si trova ad Ashkelon, è stata restaurata quasi quattromila anni dopo la sua costruzione.La porta cananea, costruita intorno al 1850 a.e.v. come parte delle fortificazioni portuali della città, è ritenuta essere la più antica porta ad arco del mondo. Composta soprattutto di mattoni e calcare, è lunga 15 metri, larga più di 2 e alta quasi 4.La base fu scoperta nel 1992 durante uno scavo archeologico dell'Università di Harvard diretto dal prof. Lawrence Steiger, dice Ra'anan Kislev, direttore della conservazione all'Antiquities Authority. L'ente ha ora finito di ricostruire la porta, dopo otto anni. Tre archi di legno sono stati ricostruiti per restaurare la figura completa di un arco e per dare sostegno alla struttura, dice Kislev, aggiungendo: "Volevamo dare ai visitatori la sensazione di camminare attraverso una porta che conduce dentro una città".Il progetto, che è costato $700.000 ed è stato attuato grazie alla donazione del Council for a Beautiful Israel in collaborazione con l'Israel Nature and Parks Authority, fa parte di un piano a lungo termine per convertire la zona, storicamente molto ricca, in un grande parco archeologico, dice Zeev Margalit, capo del dipartimento conservazione e sviluppo dell'Authority, spiegando che l'idea fa parte di un cambiamento concettuale: da parco usato per picnic, barbecue e bagni a parco ricco anche di valori e contenuti.Ashkelon, la cui storia è ricca di periodi alterni di costruzione e distruzione da parte degli invasori, fu un importante centro commerciale grazie alla sua posizione sulla Via del Mare, la strada principale tra Egitto e Siria. Fuori dalla porta è stato anche scoperto un piccolo santuario urbano, su un pendio che scende verso il mare. Nel santuario è stata trovata una figurina di bronzo ricoperta d'argento che raffigura un vitello. Il vitello era il simbolo della divinità cananea Ba'al e il santuario era forse usato per il culto. Gli studiosi ritengono che il santuario fosse situato sulla strada per il porto di Ashkelon in modo che quelli che si imbarcavano per un viaggio per mare o ne ritornavano potessero pregare o ringraziare la divinità per il successo del loro viaggio. Il parco comprende i resti della basilica romana della città, delle antiche mura, statue di dee greche e romane, un'antica ruota idraulica e un pozzo oltre ai resti di una chiesa del periodo bizantino, tutti situati in mezzo a una vegetazione lussureggiante, ed è aperto al pubblico tutta la settimana.
Jerusalem Post 2008-04-20

campi d'Israele montagne della Giordania


“Icone nazionaliste. Per un’analisi della rappresentazione geografica del contenzioso territoriale.”

10 aprile 2008 Marco Paganoni,

Storia e Istituzioni dello Stato di Israele,università di Trieste; Storia di Israele , Corso di Laurea in Studi Ebraici, Collegio Rabbinico Italiano, Roma.

Sintesi della conferenza

E’ con un’affermazione paradossale che il prof. Marco Paganoni ha iniziato la conferenza, tenutasi nella sala della Comunità ebraica di Verona, sul tema “Icone nazionaliste. Per un’analisi della rappresentazione geografica del contenzioso territoriale”. Ha ricordato infatti che, alla domanda di un giornalista se per la pace in Medio Oriente si deve trattare con Hamas anche se non riconosce lo Stato di Israele, Sergio Romano ha risposto: “Sì, perché il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere è materia del contendere!” A 60 anni dunque dalla fondazione dello Stato di Israele, sancita anche dal diritto internazionale, la sua esistenza, e non i suoi confini, sembra ancora materia di discussione.” Ma - ha proseguito l’oratore- anche se aberrante, purtroppo per molti è ancora così”.Ufficialmente il problema non sembra porsi più da tempo dagli interlocutori delle trattative mediorientali: nelle varie dichiarazioni rilasciate la posizione sembra ormai chiara, con la soluzione del conflitto a portata di mano. C’è la Palestina occupata, il conflitto c’è perché parte è occupata dagli Israeliani; liberare la Palestina significa porre fine al conflitto arabo-israeliano. Coerentemente tutte le fonti arabo-palestinesi (dalle più moderate alle estremiste) parlano di liberare la Palestina.Ma il dubbio sorge quando ci si pone la domanda relativa a quale Palestina si vuole liberare. E la conferenza del prof. Paganoni ha dimostrato, attraverso un’ampia serie di immagini talvolta veramente agghiaccianti, che esiste ancora oggi, sia ufficialmente sia a livello di propaganda arabo-palestinese, una pubblicistica che quando parla di Palestina non intende i territori occupati dagli Israeliani nel 1967 (sostanzialmente Gaza e Cisgiordania), ma l’integrità della terra della Palestina mandataria, cioè parla esplicitamente di terra rivendicata come la totalità della terra, per cui lo stato di Israele non ha diritto di esistere. E’ questa la posizione di Hamas e del presidente iraniano. Tale posizione si può comprovare in vari modi, citando comizi e dichiarazioni, ma il prof. Paganoni impernia la sua lezione sulla documentazione attraverso un’icona, cioè la rappresentazione geografica della mappa della Palestina come la terra rivendicata, la terra dell’irredentismo arabo-palestinese, presentando una carrellata di immagini con un’iconografia consolidata e indiscussa che caratterizza tutta una certa posizione politico-diplomatica. Spicca la costanza quasi ossessiva dell’icona della terra da rivendicare.
Oggi c’è un’evidente frattura fra le correnti palestinesi a livello religioso, culturale, territoriale così come c’è nel mondo arabo in generale: sembrerebbe allora che ci fosse una lacerazione anche a livello di progetto politico. Se Fatah ha acquisito l’idea della spartizione della terra, cioè dell’esistenza di una stato palestinese a fianco di quello israeliano, è logico che è possibile un negoziato per la pace sugli infiniti problemi che si pongono (confini, sicurezza, profughi). Ma se esiste ancora una convinzione comune, radicata e coltivata di rivendicazione di tutta la terra anche da parte delle correnti palestinesi più moderate, allora non c’è spazio per un negoziato. Come osservava giustamente la scorsa settimana il Jerusalem Post, bisogna capire se il problema è la questione dei confini o dell’esistenza dei due stati. Purtroppo vi è la rivendicazione della totalità della terra e ciò è comune a posizioni palestinesi anche molto distanti fra loro.Dopo queste premesse il prof. Paganoni ha mostrato le immagini da lui scelte, facendoci notare che sono tutte molto recenti e non vogliono certo riferirsi alla Palestina storica.

Tre sono i modi legittimi dal punto di vista storico e giuridico di rappresentare la terra di cui si parla:
1 la carta geografica che rispecchia la situazione della spartizione dell’ONU del 1947, con uno Stato Ebraico, uno Arabo e la zona internazionale di Gerusalemme (mappa che per altro è rimasta sulla carta per il rifiuto arabo e lo scoppio della guerra )
2 la carta storica che rappresenta la situazione di fatto dopo la I guerra di indipendenza. La terra è divisa: abbiamo Cisgiordania e Gaza sotto il controllo degli eserciti arabi rispettivamente giordano e egiziano e lo Stato di Israele che comprende tutto il resto. La situazione di fatto si è protratta dal ‘49 fino al 1967. E qui abbiamo Israele entro i confini (linea verde) così come li ha riconosciuti la comunità internazionale al momento della nascita dello stato ebraico ed è su questa situazione che si svolgono i vari negoziati.
3 la mappa che rappresenta lo stato di fatto giuridico e diplomatico dopo il processo di pace degli anni ’90. Qui Israele è entro i confini di Egitto (pace 1979), Libano , Siria (linea separazione delle forze1974) Giordania (pace 1994); Gaza e Cisgiordania divisa in zona A e B con parziale giurisdizione palestinese secondo gli accordi del ’95. Questa è la mappa che si trova sui siti ufficiali per esempio del Ministero degli Esteri israeliano. Ma il mondo arabo-palestinese non usa nessuna di questa tre carte. Quando parla di Palestina intende sempre la terra integrale e in un manifesto, che l’oratore ci mostra in foto, qualora non bastasse l’icona, il concetto è ribadito dallo slogan “ from the river to the see Palestine will be free”.Il Prof. Paganoni ha dimostrato quindi, con la sua solita chiarezza e serietà di documentazione, che si indica la Palestina con l’icona della terra integrale con una costanza notevole in svariate immagini ufficiali che vanno dai simboli delle diverse rappresentanze armate palestinesi (OLP, FATAH, PFLP, DFLP, PLF, Movimenti Giovani Studenti, Comitati Resistenza Palestinese), dove alla mappa si associano spesso armi e kefiah e bimbi che tirano sassi, a quelli dei movimenti jihadisti in cui la mappa è associata a simboli religiosi quali la cupola della moschea di Gerusalemme, la Cupola della Roccia ( quasi a dire che non basta una Palestina tutta araba, si vuole una Palestina tutta islamica).

Molto spesso nelle mappe ci sono città come Gerusalemme e Jaffa, perché sono anche città arabe, ma manca Tel Aviv perché città ebraica. Particolare rilievo merita il fatto che i simboli dell’OLP e di Fatah, movimenti nati come antagonisti di Israele, passano senza modifica alcuna all’Autorità Palestinese, che invece nasce grazie ai negoziati con Israele degli anni ‘90. E la mappa integrale ritorna allora nei simboli degli svariati organismi e ministeri nati dall’Autorità palestinese, così come nell’icona della televisione gestita da Fatah. Persino nei locali delle Nazioni Unite si sventolava la bandiera con la mappa integrale accanto a quella dell’ONU ogni 29 novembre, giorno in cui l’ONU votò la spartizione dei territori e in cui da allora il mondo arabo celebra la giornata di solidarietà con il popolo palestinese. Solo dopo reiterate proteste da parte anche di Israele, dal 2006 si è tolta la mappa, ma la giornata si continua a celebrare.Questi simboli ricordati fino ad ora e mostrati dal Prof. Paganoni sono tutte espressioni ufficiali dei movimenti palestinesi e dell’autorità palestinese; ancor maggiori di numero e con infinite varianti ma con la costante della mappa integrale sono quelli che si possono trovare nei vari siti web palestinesi o arabi o filopalestinesi o filoarabi: addirittura la mappa integrale è presente in AMAL, sito italiano ONLUS di “solidarietà” per la pace dei bambini.In qualche immagine la rivendicazione non è più contro l’occupazione israeliana, ma contro l’apartheid israeliana. E qui il prof. Paganoni ha espresso una riflessione e un commento molto interessante in quanto da qualche tempo nelle proteste il tema dell’apartheid sembra affiancarsi se non addirittura sostituirsi a quello della libertà. L’apartheid era il regime nato in Sud Africa quando un gruppo minoritario di bianchi, che deteneva il potere, negava i diritti civili e politici fondamentali alla maggioranza di colore. Nello stato di Israele non c’è l’apartheid perché si ha una maggioranza di Ebrei che riconosce i diritti civili e politici alla minoranza araba che vive in mezzo a loro e non c’è nemmeno nei territori. Però si denuncia sempre più spesso l’apartheid israeliana. Questo mutamento piuttosto esplicito ha una sua spiegazione profonda. Nel momento in cui Israele, come governo e come opinione pubblica e politica, si è dichiarato pronto a dividere la terra , come sempre si era dichiarato, dimostrando anche con i fatti concreti (negoziati, ritiro da Gaza, accettazione della road map, accordi di Camp David del 2000, ecc) che è pronto a far nascere uno stato palestinese al proprio fianco, non si parla più di occupazione, ma di apartheid. Quando si denuncia un’occupazione, si evoca un ritiro dell’occupante entro i suoi confini, ma quando si denuncia l’apartheid, si evoca un cambiamento totale di regime e di comando. Perciò come Israele è pronto a dividere la terra, inizia la campagna contro l’apartheid e inizia con l’icona della mappa integrale. Non interessa dividere la terra, interessa cambiare gli assetti di potere di quella terra.Ritroviamo poi la nota icona in giochi grafici, poster recenti, vignette satiriche in cui i cartoonist con notevole abilità tecnica e artistica presentano sempre, come costante, il riferimento alla Palestina attraverso la mappa integrale ( spesso con giochi dei colori della bandiera palestinese), ora calpestata dall’invasore israeliano brutalmente sovrapposto, ora incatenata e bloccata da lucchetti Usa e Israele, ora trasformata in grattacielo accanto al gemello grattacielo Iraq a commento dell’attentato dell’11 settembre alle Twin Towers con un’ apoteosi del revisionismo storico che mostra questi due stati quali vere vittime dell’attentato. Talvolta c’è il colono con i tratti somatici dell’ebreo del nazismo degli anni ’30, ma vestito con jeans e con mitra imbracciato, trafitto dalla mappa Palestina. L’icona si usa anche senza alcun riferimento politico: quando si vuole identificare una famigliola comune palestinese, si pone sullo sfondo la mappa.

Accanto alla mappa vi è spesso Handala , il personaggio creato da un cartoonist palestinese di fama mondiale che rappresenta il palestinese in esilio: è un bimbo ripreso sempre di spalle, lacero, senza scarpe, che vive nella paziente attesa del ritorno alla sua terra rappresentata appunto dalla mappa integrale. Addirittura in una striscia di un fumetto Handala pian piano si trasforma nell’icona della mappa, segno che sta perdendo la sua pazienza. Anche nelle scuole palestinesi che esistono dal 1994-95, cioè da quando esiste l’Autorità palestinese, le mappe per spiegare agli alunni la situazione del loro paese sono tutte con la terra integrale. Molto spesso l’icona è inserita fra gli altri stati arabi indicando un’unità araba in medioriente, segno che il nazionalismo arabo è più forte di quello palestinese e che in quella zona non c’è spazio per un’altra comunità diversa. Un’immagine mostra la scuola a ispirazione religiosa di Hamas a Gaza con la carta geografica con la terra integrale e la maestra che, alla domanda di un bimbo “ dove abitano i Palestinesi?”, risponde “ A Gaza, in Cisgiordania e nelle terre del ‘48”, alludendo a coloro che vivono in Israele ma evitando accuratamente anche solo di nominarlo. E’ lampante l’indottrinamento cui sono sottoposti gli alunni. Pure i libri scolastici e non rappresentano la mappa integrale, anche se editi in occidente. Due concetti importanti vengono poi esaminati dal prof. Paganoni: la Naqba e Al Awda.Naqba significa disastro e per noi occidentali allude alla situazione dei profughi palestinesi. La Naqba però viene celebrata il 14 maggio, cioè il giorno della nascita dello Stato di Israele, in quanto il “disastro” dai Palestinesi è identificato con Israele. Nella celebrazioni vi sono cortei in cui le persone portano grandi mappa integrali in compensato o cartone come vessilli.Al Awda significa “ritorno”, un tema fondamentale per il mondo palestinese che pretende il diritto al ritorno dei profughi, figli e nipoti nelle proprie case, nei propri campi, nelle proprie terre, non tanto nel futuro stato di Palestina. ( da notare che per il diritto internazionale non ha diritto alla condizione di profugo il nipote). La simbologia qui ricorre all’icona della chiave quasi sempre associata alla mappa integrale. Se in sede di negoziazione i rappresentanti palestinesi tendono a minimizzare questa rivendicazione, di fatto in sede di pubblicistica il messaggio che si dà è che la chiave deve riaprire la porta della vecchia casa abbandonata. Anche qui le immagini sono svariate ma sempre con la costante della chiave e della mappa: c’è l’aquila (simbolo del Saladino quindi del potere arabo) che porta la chiave al profugo, c’è il bimbo con la bomba in mano piangente di fronte alla mappa al quale si insegna che con le armi potrà riottenere i diritti di cui è privato, c’è la colomba della pace incatenata perché ai profughi è negato il ritorno. C’è perfino un’immagine anatomica: il cuore è dato dalla moschea di Gerusalemme, la trachea dalla chiave e i polmoni dalla mappa in questo caso per l’occasione raddoppiata. Il cuore pulsante dell’islamismo darà la chiave ai profughi perché possano rientrare nei territori da cui sono stati cacciati impadronendosi di tutta la terra.Il prof. Paganoni è passato poi ad illustrare alcune immagini dei graffiti sui muri delle strade in cui sempre e costante ritorna l’icona della mappa.Infine l’oratore ha presentato il mondo del gadget, mondo banale, se si vuole, che ha molta importanza perché fa opinione. Infiniti gli oggetti ritratti da proporre in vendita, ma tutti rigorosamente con l’icona della mappa: si va dai ciondoli alla kefiah da usare come sciarpa, dalle collane all’Handala portafortuna, dalle spille con slogan sulla Palestina libera alle magliette, in vendita anche su internet, con scritte stampate sulla mappa quali “le mie radici sono nel suolo della Palestina”, o “Palestina, 60 anni di occupazione” (Da notare che Cisgiordania e Gaza sono occupate dal ’67, quindi da 41 anni; la scritta perciò allude alla nascita dello stato di Israele, vista come occupazione di terre palestinesi). Ancora una volta quindi si nega ad Israele il diritto di esistere.

A conclusione della sua conferenza il prof. Paganoni, sollecitato da una domanda di un ascoltatore, ha ribadito la gravità dell’indottrinamento della popolazione palestinese e la presenza di un forte iato fra le posizioni ufficiali di quanti, anche in buona fede, operano a livello di negoziazione politica e l’opinione della massa e il suo immaginario collettivo. Certa pubblicistica però non solo viene tollerata, ma anche talvolta favorita per avere l’appoggio della popolazione.

Annamaria Petrone
v. mappe su ”Israele-Palestina, la lunga via per la pace”, Proedi editore 2006, pag. 26/30 e su http://www.israele.net/categories.php?type=scat&maincat=105

deserto della Giudea coltivato


Questo il commento di un lettore del blog all'articolo di Reuters:

Sì, militanti del terrorismo! Se non cambiamo atteggiamento (la sinistra, voglio dire) continueremo a vivere distanti dal presente e dalla verità. Come risultato ci autoescluderemo dal parlamento e vivremo una dialettica politica pubblica in guanti bianchi (vedi Bertinotti) ed una "fede" ideologica legata al passato disancorata dalla storia contemporanea. Svegliati "compagno", guarda bene dov'è l'avversario da battere! Probabilmente è, sì, in medioriente, ma si chiama "fondamentalismo" Siro-iraniano! Cioè il capitalismo del burqa! Luca

Militanti uccisi in attentato a valico di frontiera Gaza-Israele
sabato, 19 aprile 2008 9.06

GAZA (Reuters) - Un attentatore suicida palestinese e altri due militanti oggi hanno perso la vita nell'attacco a un valico di frontiera tra la Striscia di Gaza e Israele, che ha provocato il ferimento di 13 soldati israeliani. Lo hanno riferito militanti di Hamas e l'esercito israeliano.
Un portavoce del gruppo militante ha detto che l'attentatore, che era alla guida di un'auto quando si è fatto saltare in aria, è morto nell'attacco al valico di frontiera Kerem Shalom nella parte sud della Striscia di Gaza.
Una portavoce dell'esercito israeliano ha confermato l'attentato e ha detto che altri due militanti, che avevano attaccato il valico assieme al kamikaze, sono rimasti uccisi.
Hamas più tardi ha confermato di avere sferrato l'attacco.
La portavoce ha detto che 13 soldati sono rimasti feriti, due dei quali in modo serio. Gli altri hanno riportato ferite leggere.
"L'attentatore si è avvicinato al valico di frontiera nella fitta foschia mattutina, l'esplosione probabilmente faceva parte di un attacco più ampio", ha spiegato la portavoce.