giovedì 24 aprile 2008

la Siria vista dal Golan


La città delle rose

di Dalia Sofer
Traduzione di Caterina Lenzi
Piemme €16,50

La scrittura, come mezzo per ritrovare le proprie radici e rivivere attraverso i ricordi - alcuni dolci altri dolorosi - il paese dal quale si è dovuto fuggire, è il punto di partenza di due romanzi autobiografici usciti recentemente: Prigioniera di Teheran di Marina Nemat e La città delle rose di Dalia Sofer.
Comune denominatore, oltre alla cifra autobiografica, è l’appartenenza delle autrici ad una religione diversa da quella consentita dal regime dei mullah. Marina, di fede cristiana, finisce giovanissima in carcere al tempo di Khomeini, sposa il suo carceriere e solo dopo sofferenze indicibili riesce ad abbandonare l’Iran; Dalia, di famiglia ebrea, lascia il suo paese all’età di dieci anni per trasferirsi negli Stati Uniti insieme ai genitori.

Il padre di Dalia come Isaac Amin, protagonista del romanzo, ha conosciuto il carcere; tuttavia, sebbene la trama sia frutto della sua fantasia, le vicende narrate richiamano emozioni e sentimenti provati dalla stessa autrice.
Il titolo del libro “La città delle rose” riecheggia l’immagine di Shiraz, la meravigliosa città che ospita il mausoleo del famoso poeta medievale Hafez e dove Isaac Amin ha scoperto la poesia e conosciuto Farnaz, colei che diverrà sua moglie, trascorrendo le più belle estati della sua giovinezza.
La fotografia di Shiraz campeggia all’inizio del romanzo in una pagina dell’agenda di Isaac Amin insieme ai numerosi appuntamenti previsti per quella giornata. Ma il 20 settembre1981 è un giorno funesto per Isaac perché i guardiani della rivoluzione, entrati nell’ufficio armati di fucile, sono venuti per arrestarlo.
Qual è la sua colpa?
Isaac Amin è un rinomato gioielliere che, lavorando duramente all’epoca dello scià, ha potuto garantire alla moglie e ai figli Shirin e Parviz una vita agiata e benestante.
Le sue gemme, apprezzate dalla stessa imperatrice Farah Diba, lo hanno messo in contatto con il mondo dorato dell’aristocrazia iraniana.
Una colpa imperdonabile per i turbanti giunti da poco al potere alla quale si aggiunge il fatto di essere ebreo, seppur non praticante; un motivo sufficiente per essere portato in carcere e torturato con l’accusa di essere una spia d’Israele.
Il romanzo ripercorre i lunghi mesi trascorsi da Isaac in carcere, un luogo di orrore e violenze per accedere al quale è sufficiente essere comunisti, aver avuto incarichi nel passato regime o semplicemente essere appassionati di musica come il pianista Sofoyan Vartan che con le dolci note del suo pianoforte allietava le serate mondane alle quali Isaac partecipava in una vita che ora gli pare lontana anni luce.
Lo sguardo dell’autrice si posa con delicatezza anche su Parviz, il figlio dei coniugi Amin, che studia architettura a New York e vive presso uno scantinato affittatogli da una famiglia di chassidim. Parviz, innamorato della figlia dei Mendelson, ritrova le sue radici nel ricordo delle festività ebraiche trascorse con la famiglia a Teheran, pur nella consapevolezza che nemmeno per amore potrà accettare le rigide regole imposte dalla tradizione chassidica.
Shirin, sorella di Parviz, segue con preoccupazione e angoscia l’evolversi della situazione: l’arresto del padre, la disperazione della madre fino a trovare il coraggio, inaudito per una bimba di otto anni, di rubare nella casa di un’amichetta, figlia di un Guardiano della Rivoluzione, alcuni fascicoli compromettenti di persone (fra le quali Javad, il fratello della madre) in procinto di essere arrestate.

Isaac Amin dopo lunghi mesi di carcere, con i piedi distrutti dalle torture, quasi irriconoscibile torna a casa dopo essere andato in banca e aver consegnato ai suoi carcerieri i sacrifici di tutta una vita. Anche la loro bella casa sul mar Caspio sarà occupata da una famiglia fedele ai principi della rivoluzione.
La decisione di lasciare l’Iran diventa una scelta sofferta ma obbligata.
Un viaggio pericoloso e pieno di incognite aspetta la famiglia Amin: da una parte la nostalgia per Isfahan “con le sue cupole blu, Yadz “dove in una piccola lampada a olio, brucia la fiamma immortale dei zoroastriani”, Ramsar sul Caspio “sempre avvolta nella nebbia” e il rimpianto per la madre di Isaac che, troppo vecchia per seguirli, è rimasta a Teheran; dall’altra il pensiero vola alle città dove li attende la libertà e la speranza di potersi ricostruire una vita, Ginevra, Parigi, New York.
Romanzo di raffinata sensibilità psicologica affronta con una prosa scorrevole e priva di sentimentalismi una vicenda umana di forte impatto emotivo sullo sfondo di un’epoca storica che ha visto la Rivoluzione komeinista trasformarsi in un regime dittatoriale e crudele dove anche i più elementari diritti umani sono violati e dove gli ebrei – come altre minoranze religiose – sono “tollerati”, più spesso minacciati, sia per la religione professata che per il legame che li unisce ad Israele, un paese del quale l’attuale presidente Ahmadinejad continua ad invocare la cancellazione, nella quasi totale indifferenza del mondo occidentale.

Giorgia Greco

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