sabato 20 settembre 2008

Tel Aviv: in parte di questo l'edificio risiede l'Ambasciata italiana


IL NUOVO AMBASCIATORE D'ITALIA IN ISRAELE LUIGI MATTIOLO

L'AMBASCIATORE LUIGI MATTIOLO HA PRESENTATO UFFICIALMENTE LE CREDENZIALI AL PRESIDENTE DELLO STATO D'ISRAELE SHIMON PERES

Mercoledi' 17 settembre 2008, il nuovo Ambasciatore d'Italia in Israele, Luigi Mattiolo , ha presentato ufficialmente le credenziali al Presidente dello Stato d'Israele Shimon Peres. La solenne cerimonia si e' tenuta a Gerusalemme, nel Beit HaNassi - la Casa Presidenziale, ubicata nel quartiere di Rehavia.
L'Ambasciatore Mattiolo, accompagnato dal suo seguito, e' stato accolto nel piazzale antistante la Casa Presidenziale da un drappello d'onore dell'Aviazione israeliana e dalla fanfara dell'esercito. Accanto alla bandiera israeliana sventolava la bandiera italiana, mentre la fanfara suonava l'inno di Mameli e la Hatikva. L'Ambasciatore Mattiolo ha presentato le credenziali al Presidente Shimon Peres, con il quale poi si e' intrattenuto in una cordiale conversazione, nella quale il Presidente Peres ha di nuovo espresso i profondi legami di amicizia che da sempre legano Italia e Israele.
Dopo la cerimonia ufficiale l'Ambasciatore Mattiolo, con i rappresentanti del Ministero degli Affari Esteri israeliano ha ricevuto, per un brindisi, all'Hotel King David, lo staff dell'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv e al brindisi hanno presenziato anche i Consoli onorari d'Italia a Nazareth, Haifa, Beer Sheva e Eilat. Presenti anche il Presidente del Comites e della Hevrat Yehudei Italia, e il prof. Arch. David Cassuto, gia' Vice Sindaco di Gerusalemme e componente del Comites.
Luigi Mattiolo, nuovo Ambasciatore in Israele, tra gli incarichi ricoperti nel corso della sua carriera, e' stato dal 1997 a Bruxelles come Consigliere alla Rappresentanza permanente dell'Italia presso l'Unione Europea, dove fu confermato nel 1999 con funzioni di Primo consigliere. Nel 2001 e' stato Primo consigliere alla Rappresentanza permanente presso le Nazioni Unite a New York e nel 2004 e' stato promosso al grado di Ministro Plenipotenziario. Nello stesso anno fu alle dirette dipendenze del Direttore Generale per l'Integrazione Europea e poi con l'incarico di Corrispondente Europeo e Coordinatore delle attivita' inerenti alla Politica Estera e di Sicurezza Comune, sino al settembre 2005, quando fu incaricato Ministro alla Rappresentanza permanente d'Italia presso il Consiglio Atlantivo a Bruxelles.
(Uff. Coordinamento Com.It.Es. Israele) 19 Settembre, 2008 www.politicamentecorretto.com/

venerdì 19 settembre 2008

villaggio samaritano in Galilea

MUSICA: IL FESTIVAL PUCCINI RIPARTE DA ISRAELE

(AGI) - Lucca, 18 set. - E' ripartita da Tel Aviv, la tournee intorno al mondo del Festival Puccini di Torre del Lago che dopo l'intensa stagione estiva 2008 nel Gran Teatro all'aperto di Torre del Lago riprende il programma di eventi all'estero per celebrare Giacomo Puccini nell'anniversario dei 150 anni dalla nascita.Un concerto di arie pucciniane interpretate dagli artisti del festival torrelaghese al fianco di interpreti israeliani per la serata che si e' svolta mercoledi' 17 settembre presso il Teatro dell'Opera di Tel Aviv e che ha visto la consegna del Puccini International Award al Teatro dell'Opera di Israele, riconoscimento attribuito per l'impegno profuso al fine di valorizzare in Israele l'opera del compositore lucchese e per la sua promozione presso il pubblico israeliano compreso quello dei piu' giovani. Alla serata di gala in un teatro da 1.500 posti gremito, erano presenti il sindaco di Tel Aviv e il ministro della cultura di Israele. A consegnare il Puccini International Award, premio istituito dalla Fondazione Festival Pucciniano con la collaborazione del Ministero degli affari Esteri, il presidente della Fondazione Massimiliano Simoni e l'ambasciatore Luigi Mattiolo, recentemente nominato Ambasciatore d'Italia in Israele. Il gala pucciniano e' stato il primo evento pubblico del nostro ambasciatore che la mattina aveva presentato al presidente israeliano Shimon Peres le sue credenziali. Il Puccini International Award al teatro dell'opera di Israele e stato consegnato al presidente Hanna Munitz in rappresentanza del Teatro dell'Opera di Tel Aviv che si e' aggiunta all'albo dei piu' autorevoli personaggi o rappresentanti di istituzioni premiati nel corso di questo 2008, per aver contribuito in tutto il mondo all'attivita' di promozione del repertorio operistico e dell'eredita' del Maestro Puccini. Il presidente della Fondazione Festival Pucciniano Massimiliano Simoni si e' a lungo intrattenuto col presidente del Teatro dell'Opera di Tel Aviv gettando le basi per costruire un futuro di collaborazione tra il Festival Puccini e l'Opera di Tel Aviv. "Alla mia prima occasione di rappresentare il Festival Puccini all'estero - ha dichiarato Massimiliano Simoni- sono stato davvero colpito dall'accoglienza che prestigiose istituzioni all'estero riservano al Festival Puccini e alle sue proposte artistiche. A Tel Aviv abbiamo avuto una entusiastica accoglienza e la conferma dell'avvio di nuovi progetti" Calorosa l'accoglienza del pubblico per gli artisti del Festival Puccini di Torre del Lago, i tenori Gian Luca Terranova e Fulvio Oberto e il baritono Massimiliano Valleggi che si sono esibiti al fianco delle due soprano israeliane Ira Bertman e Larisa Tetuiev accompagnati al piano da Eitan Schmeisser in una selezione di arie pucciniane tra le piu' conosciute dal pubblico di tutto il mondo. (AGI)


UNA STORIA DI AMORE E DI TENEBRA

Di Amos Oz Trad. Elena Loewenthal, Ed. Feltrinelli, Milano 2003, €.18

Quando uscì in Italia nel 2003, non tardai ad acquistarlo; ma confesso che questo poderoso romanzo, salutato come un’autobiografia nazionale e il capolavoro di Amos Oz, mi ispirava una certa soggezione. Una cara amica di Tel Aviv mi consigliò vivamente di leggerlo: “Non preoccuparti per la mole” cercò di rassicurarmi “resterai coinvolta da quelle pagine e non farai fatica ad andare avanti” E spiegò: “E’ un libro importante perché…è anche la storia di Israele”. Trascorse altro tempo; seguirono diverse vicende e letture. E il librone restava lì, nella biblioteca di camera da letto in legno color verde chiaro -piccola, ma straripante di volumi- in piedi, ultimo del ripiano, dopo “Gente d’Israele” di Ruthie Blum, quasi a far da sostegno, per le sue dimensioni, a tutti gli altri. Il padre di Oz mi avrebbe giustamente rimproverato per questa soluzione. Pazienza. Finché, alla fine del mese scorso, la decisione: non è possibile affrontare la letteratura (e cultura) israeliana con cognizione di causa, sia pure per collaborare in un piccolo sito web di amici, anzi a maggior ragione per rispetto nei loro confronti, senza aver digerito ed assimilato alcuni testi, tra i quali “Una storia di amore e di tenebra” occupa un ruolo di primordine; anzi non se ne può prescindere, per nulla al mondo. Nel nostro romanzo si intrecciano vicende complesse; magia, psicologia, storia , favola; risate, lacrime, speranze, delusioni, tragedia, gioia sublime, in un continuo andirivieni tra passato e presente. Tra il piccolo Amos Klausner di otto anni cui, in un primo momento, viene permesso dal padre, il 29 novembre 1947, di assistere alla trasmissione radio della votazione all’Assemblea ONU sulla Risoluzione n. 181, e il premiatissimo scrittore Amos Oz che ogni mattina, ad Arad dove risiede dal 1986, appena spuntato il sole, va a vedere che cosa c’è di nuovo nel deserto. Si mescolano la storia di un uomo, di due famiglie nell’arco di oltre un secolo, di una Nazione. Lo stile cambia di continuo, in una ricerca appassionata. Luce e tenebra e contraddizioni. Passato e Presente. Avanti e Indietro. Amore e Tenebra. C’è un centro, per così dire, forte, che determina l’unitarietà del racconto: il suicidio dell’amata madre, Fania Mussman, a seguito di una lunga, dolorosa depressione, avvenuto in casa della sorella di lei, Haya, a Tel Aviv, nel gennaio 1952, quando Amos non aveva ancora tredici anni. Su questa tragica vicenda egli aveva serbato un silenzio lungo un cinquantennio. E confessa: “Di mia madre non ho parlato quasi mai, per tutta la mia vita fino a ora, che scrivo queste pagine. Né con mio padre né con mia moglie né con i miei figli né con nessun altro. Dopo la morte di mio padre, nemmeno di lui ho quasi mai parlato. Come se fossi stato un trovatello”.
Che cosa lo ha spinto a ritornare ai suoi primi 15 anni di vita che aveva, potremmo dire, rimosso per tanto tempo? In un’intervista rilasciata tempo fa confessava che, cinque anni prima, un nipote gli aveva chiesto se si ricordasse di suo nonno. “Gli ho dato questa risposta lunga 600 pagine….Avvicinandomi ai sessant’anni ho sentito il bisogno di comunicare con i miei genitori, morti molti anni prima. Avevo bisogno di capire….da che cosa fossero scappati… Io ho scritto questo romanzo in un momento in cui…ero pieno di…empatia verso di loro”. Il linguaggio è efficace, colorito, pieno di sfumature, con pensieri e annotazioni che vanno dritti al cuore del lettore; non mancano, nei contesti giusti, né l’ironia affettuosa, né i toni ed accenti epici, ma non vi troverai un granello di retorica. L’opera si snoda lungo sessantatre capitoli ed è composta, per così dire, di diversi piani che si intersecano l’un l’altro in un mirabile castello palpitante di vita. Alcune (poche, per la verità) ripetizioni attestano un non esatto incastro tra i diversi piani; ma ciò non è un limite, poiché sta ad indicare la sofferenza, il vissuto faticoso dell’Autore sulle pagine che scrive, una carne viva, come tale non perfetta. Altro aspetto interessante, nell’intreccio tra storie personali e grande storia, l’apparire sulla scena, in prima persona o grazie alle parole dei diversi personaggi, di interpreti rilevanti per le vicissitudini del popolo ebraico e/o di Israele. Da Bialik, a Shmuel Yosef Agnon (un “ragazzo sottile e sognatore…”) da Yosef Chayyim Brenner (“un ebreo russo ombroso e isterico, tozzo, trasandato….un’anima dostoevskijana sempre in bilico fra l’entusiasmo e la depressione….”), a David Ben Gurion (all’incontro del giovane autore col quale è dedicato un gustosissimo capitolo), a Menahem Begin (ritratto in maniera impareggiabile) a Vladimir Zeev Jabotinsky e tanti altri, come la poetessa Zelda, verso la quale Amos Oz nutre profondo affetto e gratitudine. Vi è la ricostruzione avvincente della storia, nel tempo e nello spazio, di due famiglie della borghesia ebraica europea, da Odessa, Vilnius e Rovno a Gerusalemme, dove esse -a seguito delle persecuzioni antisemite prenaziste- giungono, con la volontà di impiantare nella Terra dei Padri una nuova esistenza ed identità. Interessanti le vicende dei due gruppi, con le numerose ramificazioni, gli spaccati di storia e le annotazioni psicologiche. E poi c’è Gerusalemme, che non si accontenta a far da sfondo, ma assurge al ruolo di personaggio del romanzo, come del resto in altre opere dello stesso Autore. Si potrebbe quasi dire che essa cambia e cresce insieme con lui. Torniamo agli altri attori della vicenda. Il nonno paterno dell’A. Alexander, soprannominato fin da piccolo Zussi o Zussl (zucchero), è la figura più piacevole nella schiera dei parenti e il nipote non nasconde una forte simpatia nei suoi confronti. Nonno Alexander (nato nel 1881 e morto nel 1977/’78) era mediatore commerciale e rappresentante di prodotti di abbigliamento, di giorno; ma poeta, di notte. Nella solitudine del suo studiolo, con un bicchierino di liquore dolce sulla scrivania, spandeva sul mondo (indifferente) rime d’amore, di ardore e malinconia, rigorosamente in russo. Fu irresistibilmente attratto dalla bellezza femminile fino alla tardissima età e amato dalle stesse donne, che trovavano ricca di fascino la sua capacità di ascolto. Egli aveva una predilezione per la nuora Fania, della quale temeva la tristezza; la morte di lei lo addolorò moltissimo. A 17 anni Alexander si era innamorato della cugina Shlomit Levin; la celebre nonna Shlomit, la figura più bizzarra del romazo, che, giunta al porto di Haifa nel 1933, appena sbarcata dalla nave, emetterà la sentenza inappellabile: “Il Levante è pieno di microbi”. Ella muore nel 1958, nella vasca da bagno per le troppe abluzioni, espressione di una profonda inquietudine interiore. Il figlio minore della coppia e Padre dello scrittore, Yehuda Arieh, vantava una vastissima cultura, parlava undici lingue; era persona di grande sensibilità, anche se magari non gli faceva difetto una certa pedanteria nell’erudizione e nei ripetuti giochi di parole. Aveva anche studiato letteratura ebraica con lo zio, il celebre Prof. Yosef Klausner (altro personaggio della vicenda); ma questi non lo aiutò nella carriera accademica per non essere tacciato di favoritismi; e in seguito, passato il “tempo di Klausner”, per il nipote non fu possibile accedere ad una cattedra universitaria. Dunque Yehuda si dovette accontentare di un posto di bibliotecario presso la Biblioteca nazionale di Gerusalemme. Ma non aveva rinunciato a scrivere.. L’amarezza per la mancata affermazione universitaria negli anni di maggiore produttività non possono non aver influito sulla sua vita personale, sui rapporti con la moglie Fania Mussman, conosciuta una sera del 1936. Una studentessa di 23 anni introversa, bellissima “scura di pelle e dagli occhi neri, che parlava molto poco ma la cui solo presenza induceva gli uomini a parlare e parlare a più non posso”. Qualche tempo prima ella aveva lasciato l’Università di Praga ed era giunta da sola a Gerusalemme, nel 1934, dove già stavano i genitori e la sorella maggiore Haya, per studiare storia e filosofia all’Università del Monte Scopus. Anche Fania ha dimestichezza con le lingue: ne legge sei, otto, e ne parla quattro o cinque. Yehuda che ama molto parlare, spiegare, esporre; Fania che sa ascoltare e sentire ciò che sta tra le righe.
Purtroppo fra di due non si instaurò mai quella comunione che, insieme con l’amore, fa superare le gravi delusioni e prove che la vita inevitabilmente ti impone.
“Qualcosa nella proposta formativa di quel liceo [frequentato da Fania, a Rovno, Ucraina] o forse un muschio romantico annidato in profondità nell’animo di mia madre e delle sue amiche, negli anni della loro giovinezza, la fitta nebbia sentimentale russo polacca, una via di mezzo tra Chopin e Mitzkiewitz… tarlò mia madre per quasi tutta la vita e l’avvinse finché ne fu sedotta e si uccise, nel 1952. Aveva trentanove anni…” A tutto questo va aggiunto il trauma irreparabile della Shoah, con la distruzione del mondo amato da questi inguaribili europofili che erano gli Ebrei: il mondo amato era la vita prima dell’avvento del nazismo e, prima ancora, del dilagare inarrestabile dell’antisemitismo. All’inizio del romanzo lo scrittore che, nel loro piccolo appartamento del quartiere di Kerem Abraham -trenta metri quadri, al piano terra, sotto un soffitto basso, situato in un edificio il cui pianterreno era scavato nel dorso della montagna-, i libri riempivano tutta la casa. “Se il senso culturale li spingeva a leggere per lo più in tedesco e inglese, certamente era lo yiddish a popolare i loro sogni, la notte. Quanto a me, mi insegnarono solo e soltanto l’ebraico: forse per paura che la padronanza di tante lingue esponesse anche me alle seduzioni della letale Europa” che li aveva cacciati. “Ebrei andatevene in Palestina!” si leggeva sui muri. Né più né meno di quando, qualche decennio dopo, sugli stessi muri, apparve chiara la scritta: “Ebrei fuori dalla Palestina!”.Fania è una lettrice infaticabile, finché ha l’energia per farlo, finché non si riduce a stare tutto il giorno (e la notte) seduta davanti alla finestra, con una tazza di the che le si raffredda in mano e gli occhi spalancati, come avviene negli ultimi, terribili tempi: “I libri non ti abbandoneranno mai” diceva ad Amos, il quale, ad un certo punto, sogna addirittura, di poter diventare da grande un libro, per difendersi dalle angosce della vita. Certo, i libri possono anche essere bruciati, com’era accaduto tante volte nella storia, ma “è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna….in qualche piccola sperduta biblioteca”.
Nella speranza di superare il trauma per la morte della madre, complice il fatto che il padre aveva contratto, poco tempo dopo, un nuovo matrimonio e rimosso, almeno in apparenza, il ricordo della moglie, ma, soprattutto, per diventare membro di quella “una nuova razza di ebrei-eroi, in confidenza col buio” (che abitava oltre i Monti di Tenebra), guidava il trattore e conosceva l’arabo, sulla quale aveva favoleggiato tante volte, Amos, a quattordici anni e mezzo, lascia Gerusalemme e si trasferisce nel Kibbutz di Hulda, dove cambia il proprio cognome da “Klausner” a “Oz” , che significa “forza” o “coraggio”. “ Il kibbutz sarà la sua casa per un trentennio; fino al 1986. Il nuovo ambiente del kibbutz è vivo e palpitante; e anche quelli furono per lui anni di letture vastissime, grazie anche all’aiuto di Sheftel, il bibliotecario e futuro suocero, uomo dal cuore d’oro e appassionato di canto. Amos deve pure confrontarsi con il problema irrisolto del rapporto conflittuale tra Ebrei e Arabi. A tale proposito viene riportato un colloquio rivelatore avvenuto con Efraim Avneri, poco prima della campagna del 1956, durante un turno di guardia al kibbutz, a proposito delle ragioni degli uni e degli altri. Questo grande poema o affresco si apre e si chiude, in omaggio alla circolarità dell’ebraismo, in due ambienti tanto modesti quanto alto è il sentire dei protagonisti: il minuscolo appartamento, zeppo di libri, a piano terra nel quartiere di Kerem Abraham della famiglia Klausner e la semplice abitazione di zia Haya a Tel Aviv, in cui Fania decide di congedarsi dal mondo.L’ultimo capitolo è dedicato alla morte di Fania. E’ di altissima intensità; una sinfonia, col canto della capinera Elisa sullo sfondo. Valgono per Fania le parole di “zia” Rauha -la missionaria finlandese, amica dei genitori; uno dei personaggi c.d. secondari del romanzo, che meriterebbero tutti un commento a parte-: “Un’anima tormentata, la pace sia su di lei……vedeva nel cuore degli uomini, e quel che vedeva non era facile per lei accettarlo.” L’ultimo paragrafo -con l’emblematica annotazione finale: Arad, dicembre 2001- è da brivido. Sarebbe irrispettoso commentarlo. Bisogna leggerlo e rileggerlo.
Mara Marantonio, http://www.mara.free.bm/; http://www.italiaisraele.free.bm/

giovedì 18 settembre 2008


Introduzione a E. Benamozegh, Storia degli esseni, Marietti, Genova-Milano 2007.

«Duemila anni dopo l’inizio della grande diaspora che è seguita alla distruzione del Secondo Tempio, per la prima volta si fa udire una voce che si riaggancia al tempo dei profeti ebrei. Dopo la lunga parentesi di questa notte diasporica, riprende il tempo in cui i profeti ebrei parlavano simultaneamente in ebraico per Israele e nelle settanta lingue per le nazioni. Dopo un’eclisse di un secolo, ecco che Elia Benamozegh è di nuovo presente, nostro contemporaneo nel cuore di questo problema, tenuto conto dei due grandi eventi storici che ha presagito e al di fuori dei quali il suo messaggio non sarebbe stato possibile: la restaurazione della società ebraica da un lato e la riabilitazione del discorso cabbalistico dall’altro. Ai suoi tempi parlare di Ebraismo e di Qabbalah significava profetizzare nelle tenebre».(1)
Le parole con le quali Rav Léon Askénazi (1922-1996) (2), un grande maestro sefardita del XX secolo, rende omaggio a un grande maestro sefardita del XIX secolo aprono gli occhi sulla portata dell’impresa iniziata da Benamozegh intorno al 1860. In quell’anno infatti l’«Alliance Israélite Universelle» aveva bandito un concorso con il quale chiedeva di esaminare quali fossero gli elementi che l’ebraismo aveva trasmesso alle religioni che l’avevano seguito. Benamozegh si mise all’opera e nel 1863 spedì a Parigi un manoscritto intitolato Essai sur l’origine des dogmes et de la morale du christianisme (3). In quegli stessi anni egli teneva “a un’eletta schiera di giovani livornesi” un corso triennale di lezioni che venne poi pubblicato con il titolo Storia degli esseni (4).
Negli esseni egli intravedeva “i predecessori della buona nostra Teologia”(ossia della Qabbalah) e nella loro storia “una fonte ricchissima di elementi atti a spiegare l’origine del cristianesimo”. Ma per cercare di capire il significato della sua opera occorre fare un passo indietro e avvicinarsi agli anni di formazione del giovane Benamozegh.
Perduto ben presto il padre, Avraham, Elia era stato allevato dalla madre Clara e dallo zio Yehudah Coriat, un cabbalista proveniente da Fez, in Marocco. Vi erano stati collegamenti molto importanti tra Livorno e il Marocco. Si pensi a Hayyim ben Atar (1696-1743) che vi insegnò per più di un anno nel 1739 prima di pubblicare Or ha-hayyim, il suo commento alla Torah, e di andare a fondare la sua Yeshivah a Gerusalemme. Egli ha nel mondo sefardita un’importanza pari a quella che il Baal Shem Tov (1700-1760) ha nel mondo aschenazita. Di famiglia marocchina era anche Hayyim Azulai (1724-1807), un cabbalista che trascorse a Livorno gli ultimi trent’anni della sua vita. Lo stesso Benamozegh nella Introduzione al Berit Avot di suo cugino Avraham Coriat (Livorno 1862) sottolineava con forza il suo legame con la Tradizione marocchina: «Questa è dunque la Tradizione alla quale ho l’onore di ricollegarmi: questa Tradizione sviluppa le sue radici nel Maghreb, e non ha mai conosciuto interruzioni: i padri hanno acquisito dei meriti per i figli, e lo studio non si è mai spento nelle loro bocche». (5)
Insieme allo zio Yehudah lesse per ben due volte lo Zohar, un’opera che fu dunque di fondamentale importanza nella sua formazione. Occorre tenere presente che vi è uno speciale rapporto tra lo Zohar e la città di Livorno, dal momento che in quella città furono fatte cinque edizioni dell’opera tra XVIII e XIX secolo. Lo stesso Elia, che nel 1839 a 16 anni aveva già debuttato come scrittore firmando l’Introduzione a un’antologia di scritti cabbalistici scelti dallo zio (6), insieme a S. Leoni e Y. Millul pubblicò un’edizione dello Zohar nel 1851. (7)
Ora, è proprio lo Zohar ad attribuire uno straordinario significato a quegli anni: «Nel 600° anno del 6° millennio [l’anno 5600 corrisponde all’anno 1840] le porte della conoscenza della Torah si apriranno dall’alto simultaneamente alle porte della conoscenza dal basso». (8) Questo ci fa capire in quali orizzonti Benamozegh inserisse la sua attività di quegli anni.
Non va inoltre dimenticato che egli partecipò alle vicende del Risorgimento e salutò con entusiasmo la nascita del Regno d’Italia e le nuove possibilità che essa apriva agli ebrei italiani con l’estensione dello Statuto Albertino.
2. Prima della scoperta dei rotoli del Mar Morto conoscevamo gli esseni solo grazie a Filone, Flavio Giuseppe, Ippolito e Plinio.(9) Sapevamo che essi conducevano una vita filosofica: ripudiavano i piaceri come un male e cercavano la virtù nel resistere alle passioni, disprezzavano la ricchezza e vivevano in ammirevole vita comunitaria, ciascuno dava ciò di cui disponeva a chi ne aveva bisogno e riceveva ciò di cui necessitava. Uomini, e donne, capaci di dominare l’ira, costruttori di pace (così li definisce Flavio Giuseppe) che non temevano la morte e credevano nella resurrezione dei corpi. La loro giornata vedeva l’alternarsi di lavoro e preghiera, immersioni nel miqweh e partecipazione alla seudah, il pasto comunitario nel quale la mensa simboleggia l’altare, anticipazione del banchetto al quale parteciperà la coppia messianica formata dal Kohen, che per primo pronuncerà la benedizione sul pane e sul vino, e dal Re Messia.
Generazioni di studiosi erano stati affascinati dal loro genere di vita, sorpresi dalle affinità con il cristianesimo e sconcertati dalla contraddittoria presenza di questi “cristiani prima di Cristo”(10).
Nella primavera del 1947 un giovane pastore beduino di nome Mohammed inseguendo una pecorella smarrita scopre in una grotta nei pressi di Qumran rotoli di pergamena manoscritti, accuratamente avvolti in tela di lino, sigillati con bitume e riposti in giare di argilla.
E’ iniziata da allora un’avventura che ha trovato una prima conclusione con la pubblicazione e traduzione in molte lingue dei testi principali. (11) Complessivamente si tratta di circa 15.000 frammenti di circa 850 manoscritti, composti tra il III sec. a.e.c. e il I sec. e. c. In prima approssimazione, e utilizzando criteri anacronistici, possiamo dire che si tratta di testi di tre tipi: biblici, apocrifi o psedoepigrafi, settari o comunitari.
Alla fine del 1951 ebbe inizio la prima campagna di scavi diretta da De Vaux e Harding e per la prima volta si iniziò a mettere in relazione quelle rovine, che fino ad allora non avevano destato l’interesse di nessuno, da un lato con i manoscritti e dall’altro con gli esseni di cui parlavano le fonti antiche.
Come ha osservato Lawrence Schiffman, per un mondo che ancora stentava a rimettersi in piedi dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah sembrò quasi una nuova rivelazione. L’interesse principale fu in primo luogo rivolto a quello che i manoscritti potevano dire di nuovo sulle origini del cristianesimo e «i mass media e il pubblico ebbero seri problemi a distinguere la spesso sottile differenza tra l’uso dei rotoli per illuminare il background della Cristianità – una impresa accademica legittima e necessaria – e la confusa lettura dei rotoli come testi cristiani». (12) Solo in un secondo tempo i testi vennero recuperati alla storia dell’ebraismo, sottolineandone p. e. l’importanza per l’evoluzione della Halakhah, poiché contenevano una legislazione che precedeva di due secoli la redazione della Mishnah. (13)
(Essendo il testo molto lungo, sul blog viene riportato solo parzialmente. Chi volesse l'intero scritto, può farmene richiesta, grazie nr )

mercoledì 17 settembre 2008

università di Gerusalemme

Tra studenti e proff niente sesso in Israele

La Hebrew University mette al bando gli amori in ateneo: "Troppi abusi"
Si fossero incontrati qui, tra i vialetti ordinati della Hebrew University, la matricola Simone de Beauvoir e il professor Jean-Paul Sartre avrebbero fatto bene a non pubblicizzare troppo il loro colpo di fulmine. Non oggi, almeno. La Sorbona del 1929 appare lontanissima dall’ateneo gerosolimitano contemporaneo dove, alcuni giorni fa, la Commissione dei saggi ha vietato ufficialmente ogni relazione sessuale tra studenti e professori. Nessuna chance per il docente che s’invaghisce, non solo intellettualmente, dell’allievo, topos letterario e romantico sin dai tempi dell’antica Grecia: il nuovo ordinamento della Hebrew - 24 mila iscritti, 2600 candidati al Phd e 1200 ordinari - minaccia gli eventuali colpevoli con «sanzioni disciplinari» severe quanto quelle che puniscono le molestie. Negli Stati Uniti, modello culturale della scuola israeliana, il divieto dura fino a tre anni dopo la fine del rapporto didattico. «Un’esagerazione», commenta l’aspirante avvocato Ruth Ravid, 21 anni, fazzoletto in testa come le ragazze religiose, jeans e manuale di diritto sotto il braccio. Lei, ammette uscendo dal campus stile americano sul Monte Scopus, è indifferente al fascino del docente, sogna un uomo che si occupi della famiglia a tempo pieno e i professori le sembrano «troppo astratti». Ma la nuova legge no, non la convince affatto: «Basterà che gli amanti stiano un po’ più attenti». Il provvedimento, senza precedenti nazionali, non c’entra affatto con la deriva ultrareligiosa della Città Santa, per arginare la quale la Jerusalem Foundation e il Jerusalem Institute for Israeli Studies hanno appena lanciato il programma Vision for Jerusalem, un piano strategico per portare a vivere qui 100 mila abitanti non ortodossi entro il 2020. Piuttosto, spiegano in amministrazione, risponde allo scandalo di Eyal Ben-Ari, il ricercatore del dipartimento di sociologia della Hebrew University arrestato alla fine di luglio con l’accusa di aver piegato ai suoi desideri non esattamente platonici diverse studentesse in cambio di borse di studio o raccomandazioni. Allora, a quella contro Ben-Ari, seguirono decine di denunce fino a quel punto taciute «per pudore». «L’università non è un’istituzione puritana e non pretende di interferire nelle storie private tra insegnanti e allievi», dice al quotidiano Haaretz il portavoce dell’ateneo Orit Soliciano. «Ma giacché questo tipo di relazioni esiste, ci limitiamo a prescrivere che non siano simultanee». Chi tiene un corso insomma, deve fare una scelta. Secondo il Consiglio dei saggi le ragioni del cuore fatte valere in classe aprono «un conflitto d’interessi», «creano un’inadeguata atmosfera educativa» e possono «indurre il superiore a sfruttare la sua condizione di vantaggio». L’età degli innamorati non conta, né tantomeno che siano consenzienti: professori e studenti, laureandi e relatori di tesi, membri di facoltà e borsisti stipendiati, tutti ugualmente diffidati dall’abbandonarsi alla passione. «In linea di principio sono d’accordo, ma sono certa che non funzionerà», afferma Sharon Bar Lev, iscritta al primo anno di scienze della comunicazione a Monte Scopus. E poi: varrà solo per i neofiti o riguarderà anche i veterani? La bozza licenziata dal Consiglio prevede che nel caso di un coppie già formate l’insegnante debba «troncare immediatamente la relazione accademica» con la dolce metà o «informare il proprio superiore perché possa modificare il corso di studi dello studente». Cambia poco che, come ricorda il newyorkese Thomas Lowinger sul blog del campus, «la Torah non proibisce le relazione con una donna non sposata». In questo caso c’è in ballo molto di più, il potere della cultura e il suo potenziale abuso. Violare qualsiasi capitolo del nuovo regolamento costituirà «un’infrazione» grave, equiparabile, nota il vice rettore professor Miri Gur-Arye, al reato di Eyal Ben-Ari. Vale a dire che innamorarsi, ricambiati, può costare quanto allungare la mano sotto la cattedra in piena sessione d’esami. I potenziali protagonisti non commentano. Miha Mihaeli, docente di economia e il collega Avraham Sela, titolare del corso di scienze politiche, rimandano al portavoce dell’università, «no comment». Le frecce di Cupido troveranno più d’un ostacolo. Il presidente dell’ateneo della liberale Tel Aviv professor Zvi Galil ha appena istituito una Commissione per valutare modifiche, modello Hebrew, al codice che definisce il rapporto docenti-allievi. Che siano poveri amanti o futuri compagni Sarte-de Beauvoir.


Non chiamatela guerra

di Luca Del Re
Cairo Editore Euro 14

E’ l’obbligo morale di rendere testimonianza, espressione della sua libertà di raccontare che ha spinto il giornalista Luca Del Re a pubblicare proprio nell’anniversario della Seconda Guerra del Libano questo libro intenso e commovente che racconta senza inutili orpelli la guerra israelo-libanese scoppiata il 12 luglio 2006 e conclusasi trentacinque giorni dopo.
L’aggressione contro lo stato ebraico di Hezbollah, il partito di dio, finanziato dall’Iran che ha portato all’uccisione di soldati israeliani, al rapimento di altri due militari, Udi Goldwasser e Eldad Regev e al lancio di razzi contro centri abitati ha costretto Israele a intraprendere una vasta azione militare per difendersi da un’organizzazione, protetta dalle autorità libanesi, che vuole la distruzione dello stato ebraico.
Per raccontare questa guerra, che nessuno all’inizio definisce tale, Luca Del Re, ebreo della comunità romana e inviato di guerra si reca come corrispondente del Tg La 7
nei luoghi del conflitto e osserva senza pregiudizi, dalla parte israeliana del fronte, lo svolgersi di quell’operazione militare avviata con lo scopo di recuperare in fretta i due soldati rapiti dai guerriglieri di Hezbollah ma che dopo trentacinque giorni di combattimenti aveva provocato centinaia di morti e feriti. Luca Del Re parte per la “guerra d’estate con una Mercedes bianca senza scritte del tipo press o tv sulle fiancate” con Ugo il cameraman e Sofia, la produttrice e “contatto con una lingua sconosciuta”. Gli incontri si susseguono a ritmo serrato e narrano i piccoli gesti, le grandi tragedie, le miserie di una guerra che ancora una volta il popolo israeliano non avrebbe voluto ma che deve combattere per difendere il suo diritto all’esistenza.
Sagy, ufficiale dell’Israeli Air Force che pilota un F16 Fighting Falcon , un caccia da combattimento consapevole che “dovevamo fare qualcosa contro chi ci ha attaccato per primo”; Lama e Kholoud due ragazze arabe che dedicano una poesia straziante al padre Walid colpito, insieme ad altri operai, mentre lavorava alla stazione ferroviaria di Haifa da un razzo dei “guerriglieri di dio”; Tekestè, un ebreo etiope “nero come la notte” unico superstite del massacro di una trentina di riservisti presso il kibbutz Kfar Giladi; Angelica Livnè Calò che riempie scatole ermetiche con lasagne e pizza per il figlio Ygal che comanda un’unità schierata sul confine “a venti minuti di macchina da casa di mamma”; Keren, piccola e bionda che ha studiato meccanica applicata agli elicotteri, ambiva alle missioni peggiori ed era “felice quando veniva chiamata da riservista”, colpita insieme ai suoi quattro compagni in un angolo di Libano che si chiama Yater ancora una volta da un missile di dio. E ancora Metulla, Haifa, Kyriat Shemona, Sasa, Zfat, Zarit, Nahariya sono i luoghi ma anche i volti, le voci, i protagonisti di una guerra che fa morire persone innocenti, donne, bambini, civili e riservisti raccontati dall’autore, uno “scriba” che ha vissuto il conflitto in “presa diretta”, con un ritmo serrato, una prosa scorrevole e incisiva in un libro appassionante che commuove, fa riflettere sulla ineluttabilità di una condizione di guerra eterna e indignare per gli errori dei vertici politici costati la vita a giovani soldati. Un saggio che senza darci lezioni di geopolitica fa conoscere e amare come pochi altri Israele e il suo popolo.
Giorgia Greco


Le donne di mio padre

di Savyon Liebrecht, Traduzione di Alessandra Shomroni
Edizioni e/o Euro 18,00

Scrittrice esperta dei segreti dell’animo umano e dotata di grande discrezione, Savyon Liebrecht affronta nel suo ultimo romanzo “Le donne di mio padre” il tema della memoria, seppur di un tipo diverso rispetto a quello dei sopravvissuti allo sterminio.
Se il ricordo della Shoah è il filo conduttore dei suoi libri precedenti, dal romanzo “Prove d’amore” alle successive raccolte di racconti, “Mele dal deserto” e “Un buon posto per la notte”, in quest’ultima opera la scrittrice israeliana, attraverso un’attenta rielaborazione del passato e dell’oblio, delinea con grande capacità introspettiva il rapporto che lega un padre a suo figlio analizzando l’influenza dei comportamenti paterni sulla psiche di un bambino di sette anni.
Meir Rosenberg è uno scrittore di trent’anni in crisi creativa quando la madre lo informa che il padre Aharon, un poeta squattrinato che negli anni 60 frequentava i circoli letterari di Tel Aviv, non è morto come credeva Meir ma ha trascorso quasi vent’anni in carcere: gravemente malato arriverà in America per sottoporsi a cure mediche.
L’annuncio sconvolge il giovane e fa riaffiorare ricordi della sua infanzia che aveva volutamente dimenticato: i sette anni trascorsi a Tel Aviv con i genitori, i loro momenti di tenerezza ma anche le liti cui assisteva, il gelato della gelateria Whitman in Allenby Street, “dove andavamo tutti insieme come in un bel quadretto familiare”; la partenza della madre per gli Stati Uniti che lo lascia con un profondo senso di abbandono; i cinque mesi trascorsi peregrinando al seguito del padre sfrattato perché non era in grado di pagare l’affitto, passando da un caffè all’altro, dalla casa di un’amante all’altra, ma “sempre con donne che amavano i bambini” e, almeno per pochi giorni, erano disposte a prendersi cura del figlioletto.
Testimone delle tecniche di corteggiamento del padre, Meir “ascolta quello che un bambino non dovrebbe sentire, vede quello che non dovrebbe vedere” fino all’ultimo drammatico episodio avvenuto nella casa di due attrici, Ola e Pola, che incide nella mente di Meir il ricordo di “una grande macchia rossa su un lenzuolo” e che cambia radicalmente la sua giovane vita portandolo a vivere in America con la madre.
Per ricostruire il suo passato, per capire chi era in realtà Aharon Rosenberg arrivato in Israele dalla Polonia attraverso la Russia e per conoscere quella verità che si cela come un oscuro segreto nelle pieghe della sua mente, Meir ritorna in Israele per incontrare il padre.
In un susseguirsi di immagini del passato, a volte piccoli frammenti, a volte quadri più ampi, la trama si snoda priva di colpi di scena eppure intensa e ricca di personaggi indimenticabili, alcuni dei quali lasciano un ricordo indelebile nel piccolo Meir per la sensibilità e l’affetto di cui hanno saputo circondarlo. Come il vecchio Barel, scampato all’Olocausto che condivide con Meir e Aharon il suo misero scantinato in Shlomo HaMelech Street dove “conservava i suoi tesori; sedie rotte, cuscini sbrindellati, pantofole logore…” e dove il bambino aveva conosciuto quel calore umano che la vita gli aveva negato. O come Ernie, medico e compagno della madre, un uomo buono che lo accoglie con amore e simpatia sin dal suo arrivo in America e farà le veci del padre ogniqualvolta Meir si troverà ad affrontare le gioie e le difficoltà della sua vita di bambino prima, e di adolescente e giovane uomo poi. Le donne di mio padre è un romanzo di raffinata eleganza, costantemente teso verso una possibile via d’uscita, in una perenne attesa di luce che può essere la propria verità o la propria versione dei ricordi. E nella speranza di Meir che “il sole sarebbe sorto anche l’indomani” traspare quel senso della complessità dell’esistere che è anche un segno della qualità morale del romanzo. Giorgia Greco


Mi chiamava Pikolo

Jean Samuel con Jean marc-Dreyfus, Traduzione di Claudia Legnetti
Frassinelli Euro 17,00

Abbiamo incontrato Pikolo per la prima volta in uno dei capitoli più intensi e significativi della storia della Shoah, “Il canto di Ulisse”, fulcro centrale del libro di Primo Levi “Se questo è un uomo”, uno dei capolavori della letteratura della seconda metà del ventesimo secolo.
“Pikolo”, il ragazzo del kommando chimico, aiutante del Kapo’ con cui Primo Levi porta la zuppa e al quale traduce in francese alcuni versi dell’Inferno di Dante, quel giovane alsaziano di ventidue anni studente di farmacia è Jean Samuel, autore insieme allo storico Jean-marc Dreyfus dello straordinario libro di memorie “Mi chiamava Pikolo”.
Nei versi danteschi che Levi recita all’amico è racchiusa “l’estrema protesta del concentrazionario” e la rappresentazione di quell’inferno che, solo, può descrivere Auschwitz: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”.
Il libro di Jean Samuel, che getta una nuova luce sull’opera di Levi, è la testimonianza unica di un’amicizia che, nata nell’incubo del lager, si mantiene intatta per quarant’anni fino alla morte dello scrittore italiano nel 1987 e l’occasione per porre a confronto due memorie, l’una rimasta senza voce sino ad oggi, l’altra “foriera” di un libro indimenticabile.
Un documento intenso, supportato da uno scambio affettuoso di missive a partire dal 1946 con il quale l’autore - dopo trentasei anni di silenzio - racconta la sua vita di studente, i solidi legami familiari, la deportazione e l’arrivo a Monowitz, terzo campo di Auschwitz all’interno dell’enorme cantiere edile della Buna, lo stabilimento che si serviva dei detenuti del campo per la maggior parte ebrei. Ogni sopravvissuto all’Olocausto che ha narrato l’orrore dei campi di sterminio rappresenta una testimonianza preziosa e irripetibile. Così è anche per Jean Samuel quando descrive alcuni “uomini eccezionali” incontrati nel campo: il dott. Waitz docente di medicina a Strasburgo “che trascorreva la giornata a cercare il modo di aiutarci andando avanti e indietro con il termometro sempre in mano”; l’ingegner Raymond Berr, un ottimo scienziato e noto industriale che non è sopravvissuto a lungo perché “soffriva terribilmente la fame, si gettava su qualsiasi avanzo, anche le ossa da rosicchiare”; Jacques Feldbau, brillante matematico che condivideva il suo sapere con i compagni del lager; Alfred Nakache, il campione mondiale di nuoto, deportato perché ebreo e ridotto dalle SS a “bestia” da esposizione. O quando descrive l’orrore delle impiccagioni e delle bastonature pubbliche cui dovevano assistere senza “nessun diritto alle lacrime, nessun diritto a reazioni umane”.
Scritto con un linguaggio scorrevole senza ambizioni stilistiche, il racconto delle memorie di Jean Samuel è arricchito ulteriormente dalla costante “presenza” di Primo Levi nelle lettere che si scambiavano e che testimoniano un’amicizia condivisa per decenni, resa ancor più solida dalle comuni radici ebraiche, in comunità di antica genealogia e caratterizzate sia da un discreto attaccamento alle tradizioni, sia da un profondo orgoglio per le proprie radici.
Fra Jean e Primo emergono molte similitudini: dalle famiglie di origine, entrambe della media borghesia commerciante, al medesimo amore per il lavoro e le rispettive famiglie, dalla formazione scientifica allo sguardo lucido e obiettivo sulla realtà.
E insieme condividono anche la passione per la “conoscenza” che li porta a salvare sé stessi “conservando la propria dignità” attraverso lo studio, la memorizzazione e l’osservazione analitica di ciò che li circonda: per Jean sarà la matematica a costituire un veicolo di salvezza (“ ….è stato proprio questo ad aiutarmi a sopravvivere, la capacità che avevo di isolarmi dal mondo esterno, di concentrarmi su un problema scientifico”), per Primo la “convinzione di doversi ergere a testimone”. Dopo la liberazione Jean Samuel è tornato a Wasselonne per occuparsi della farmacia di famiglia ma è alla morte della madre che è riuscito a diventare testimone della sua esperienza concentrazionaria nelle scuole, nelle università e persino al Consiglio d’Europa, prima nel 1995 poi il 27 gennaio 2005, pronunciando un discorso davanti all’Assemblea plenaria.
“Che lo vogliamo o meno, noi siamo testimoni e ne portiamo tutto il peso” scrive Primo Levi a Jean Samuel il 17 marzo del 1974.
Vent’anni dopo la scomparsa del suo amico Primo (ex 174517), “con l’incombere dell’età e la memoria che si fa meno presente” Jean ha ritenuto suo compito fondamentale lasciare una testimonianza scritta.
E noi gliene siamo grati. Giorgia Greco

martedì 16 settembre 2008


Chavitata Egozei Kokos - Frittelle ripiene di noce di cocco e uva passa

INGREDIENTI: 3 tazze di farina, 1 ½ tazze di zucchero, 1 ½ tazze di latte, 85gr di uva passa, 225 gr di noce di cocco triturata, 3 uova, 30gr di zucchero di vaniglia, olio.
PREPARAZIONE: In una ciotola combinare la farina, lo zucchero, lo zucchero vanigliato ed il latte. Miscelare bene. Sbattere le uova ed aggiungerle al composto. Ungere leggermente una casseruola da frittura, mettere sul fuoco basso e quando è caldo versarci un cucchiaio di pastella. Roteare la casseruola per permettere alla pastella di distribuirsi uniformemente sul fondo della casseruola stessa. Rimuovere e ripetere fino a che la pastella non sia finita. Mettere un po'di noce di cocco mischiata con l'uva passa sul lato fritto della frittella. Arrotolare e far imbiondire leggermente in padella. Servire caldo o come dessert o per i pasti all'ultimo minuto.
Bollettino Sullam n.14




Due ricette per Rosh Hashana (Capodanno ebraico):

Buriche dolci di uva passa

INGREDIENTI: Impasto: 1 bicchiere di olio di semi, 1 bicchiere di acqua fredda, farina quanto basta, pizzico sale Ripieno: ½ kg uva passa, 3 mele sbucciate a pezzetti, 2 etti di zucchero, alcuni chiodi di garofano, 50 grammi di pinoli
PREPARAZIONE: Ponete l'olio e l'acqua in una terrina. aggiungete farina fino a che la pasta avrà consistenza. Formate una palla liscia e soda da tenere in frigo per qualche ora. Mettete gli ingredienti del ripieno in una pentola, coperti di acqua e lasciate consumare fino ad ottenere l'aspetto di una marmellata densa. Ritagliate la pasta in tanti dischi, riempiteli con il ripieno e ripiegateli a triangolo. Cuoceteli al forno (180°) fino a quando i dolci avranno preso un color dorato.

Dolce di pane e miele

INGREDIENTI: 5 manciate di pane raffermo, 2 uova, 3 cucchiai di zucchero, 50 gr. di uvetta, 2 cucchiai di canditi, olio, sale, miele, fichi, datteri, melograno
PREPARAZIONE: Ammollare il pane nell’acqua alcune ore, passarlo al setaccio dopo averlo ben
strizzato. Mettere un pizzico di sale, le uova battute, 2 cucchiai di zucchero, l’uvetta rinvenuta un po’nell’acqua e asciugata, la frutta candita a pezzetti. Ungere di olio una teglia, versarci dentro il composto ed infornare. Dopo aver tolto il dolce dal fuoco cioè dopo circa 3/4 d’ora, farlo raffreddare e guarnirlo con abbondante miele, un giro esterno di datteri snocciolati, uno più interno di fichi spaccati in quattro e al centro un mucchietto di chicchi di melograno oppure un melograno ben lavato, asciugato e aperto in quattro.
Bollettino Sullam n.15


Jiri Georg Langer, Eros nella Cabbalà, La Parola, Roma 2007

Jiri Langer (Praga 1894 - Tel Aviv 1943) a 19 anni decide di patire per Belz (Galizia Orientale) per vivere tra i Hassidim. Da questa sua esperienza nascono due libri: Le nove porte, pubblicato anni fa da Adelphi, e Eros nella Cabbalà, appena uscito per i tipi della nuova casa editrice romana La parola.
Il libro secondo le intenzioni dell’Autore - un raffinato intellettuale praghese la cui avventurosa esistenza di per sé potrebbe costituire un romanzo - costituisce un’introduzione ai misteri della Qabbalah e insieme una riflessione sulla natura e potenza di Eros considerato come suo fondamento. Non si tratta, beninteso, dell’eros tanto celebrato dalla nostra società segnata dal consumismo e da un vuoto edonismo, ma dell’Eros visto come principio dell’essere, Yesod, elemento di unione fra le dieci Sefirot, entità considerate emanazioni divine attraverso le quali D. crea e mantiene in vita tutto l’universo. Bellissime sono le espressioni con le quali Langer, ispirandosi ad antichi testi della tradizione cabbalista e biblica, parla di D. definendolo l’Infinito, l’En Sof, “che congiunge e unifica tutti coloro che si appartengono”, che abbellisce incessantemente la sua creazione e la porta, superando progressivamente il male stesso, i dolori e le sofferenze, verso il Bene assoluto. “L’intera creazione è simile a un albero che vive solo grazie alle proprie radici; così tutte le creature sussistono solo grazie alla Causa delle Cause, che è la radice che tutto vivifica”.
Per tentare di comprendere quale sia il posto di Eros nella Qabbalah, afferma Marco Morselli, curatore e, insieme a Daniele Capuano, traduttore del libro, dobbiamo ricordare che il mondo in cui viviamo costituisce solo una parte di un sistema di mondi molto complesso. Questi mondi spirituali si compenetrano e interagiscono tra loro e il mondo materiale. Ognuno di questi mondi corrisponde ad una delle quattro lettere del Nome di D. Tutti sono vivificati, circondati e compenetrati dal Suo amore. L’amore infinito è l’unica cosa che possiamo conoscere della natura di D., ed un suo riflesso possiamo sperimentarlo nella nostra vita ogni volta che facciamo esperienza dell’amore in tutte le sue sfaccettature.
Sottolineando come vi siano profonde connessioni tra pensiero cabbalistico e antichissime espressioni della mistica orientale (alla quale hanno attinto anche molti filosofi greci, tra i quali in particolare Platone), Langer, dopo aver paragonato il giudaismo ad “un albero spuntato in un abisso profondo coperto da spesse nubi” che però “ è fiorito magnificamente”, si chiede quale sia stata la forza misteriosa che lo ha reso così pieno di frutti. La risposta,secondo il suo parere, contenuta in due significativi brani dello Zohar (il testo basilare della Qabbalah), deriva dal passo del Levitico:” Voi sarete santi perché Io sono santo. Io, Colui che è, il vostro D.” (Lv 19). “Per questo il Santo, sia benedetto, scrive Langer, non prende dimora se non in chi è uno come Lui… E quand’è che l’uomo è detto uno? Quando l’uomo e la donna sono uniti durante l’atto sessuale… formando un unico corpo e un’unica anima”. Una tale affermazione, che a prima vista potrebbe sembrare quantomeno bizzarra a chiunque si accostasse con diffidenza al tema della sessualità e dell’amore, fa parte invece del patrimonio spirituale dell’ebraismo: “Chi non ha mai conosciuto la violenza di un amore appassionato nei confronti di una donna, non potrà mai giungere all’amore di D.” ribadisce il famoso cabbalista Rav Eliyahu di Vidas da Safed, ben noto per il suo rigore e per il suo ascetismo.
Ciò che leggiamo sull’eros nel Simposio di Platone o in altri importanti testi orientali,come le Upanishad indù, trova ampio riscontro negli scritti più significativi dell’ebraismo, dal libro del Genesi al Talmud. In quest’ultimo il versetto biblico: “E D. creò l’uomo a sua immagine, a immagine di D. lo creò, maschio e femmina li creò” (Gn 2,22) viene interpretato come: ”Egli li creò con due volti e solo dopo li separò”. Con tali parole viene spiegato ciò che è alla radice del desiderio erotico: la tensione alla ricomposizione di un’unità originaria perduta che possa nuovamente formare nella sua completezza il biblico Adam, l’essere terrestre in cui la componente maschile e quella femminile erano armoniosamente integrate. Da questa stessa radice deriva altresì l’ardente desiderio di accogliere intimamente, con profondo amore, le parole della Torah e di metterle in pratica nella vita. La stessa Torah è paragonata al volto dell’amata che, in un sottile e intenso gioco di seduzione, solo l’amato riesce a vedere.
Il potenziale straordinario dell’amore, la sconvolgente forza dell’Eros percorre dunque anche il pensiero biblico ed emerge con particolare impeto nell’ambito dei testi profetici e soprattutto nel Cantico dei Cantici, dove D. ed Israele sono rappresentati come due fidanzati, in un contesto sponsale. Tutto ciò mostra come, nel trascorrere dei secoli, sia progressivamente maturata una riflessione tesa ad estendere il rapporto dell’Eros non solo dal Creatore alla singola creatura, ma a tutto il popolo di Israele e poi al mondo intero. Una parte interessante del libro – che, ricordiamolo, alterna pagine dedicate alla riflessione filosofica e teologica con altre che ripercorrono le vicende biografiche di alcuni personaggi, capaci di avvalorare con il loro vissuto ciò che Langer espone a livello concettuale, è dedicata a descrivere due differenti modi di valutare e di vivere concretamente l’esperienza dell’Eros presenti nella spiritualità dell’ebraismo, pur partendo dalla stessa radice. Da una parte infatti si è assistito ad una vera e propria idolatria della donna, praticata prima dai sabbatiani ( discepoli di Shabbatai Sevi, l’aspirante Messia del XVII sec.), poi da Jakob Frank (1726-1816) e dai suoi seguaci, dall’altra all’esaltazione dell’amore fra uomini, inteso come conseguenza di una profonda attrazione sia fisica che spirituale, capace di legare un Maestro ai suoi discepoli e di fondare vere e proprie comunità come quella degli Esseni nel mondo antico, o quella dei Hassidim, fondata dal Rebbe Yisrael ben Eliezer Baal Shem Tov nel XVIII secolo.
Significative sono le pagine che descrivono la vita in questo ultimo tipo di comunità, segnate tutte da una vera e propria venerazione per il Rebbe che ne è a capo, dalla vita comunitaria, dalla preghiera e dall’incessante studio della Torah e degli altri grandi testi della spiritualità ebraica, le cui stesse lettere alfabetiche che li compongono, secondo i cabbalisti, possiedono una forza attiva soprannaturale, una profonda energia sessuale capaci di creare, attraverso la potenza di Eros/Yesod, arcane ed ineffabili corrispondenze tra il mondo materiale dell’azione (Asiyah) e i mondi superiori, la cui esistenza e la cui conservazione dipendono incessantemente da En Sof, Causa di tutte le cause, Motore di tutte le motivazioni. Concludendo, non ci si può che congratulare con la casa editrice La parola per avere messo a disposizione del lettore italiano quest’opera di Langer, poiché essa costituisce una positiva introduzione allo studio della Qabbalah per i lettori non esperti di tale materia, ma comunque interessati ad avere un corretto approccio con i suoi contenuti, ben oltre certe superficiali e distorte interpretazioni che in questi ultimi anni sono state proposte dai mass-media.
Ma la lettura può essere stimolante anche per chi possiede della Qabbalah già una certa conoscenza, in quanto offre l’occasione di un ulteriore approfondimento e inoltre può contribuire a sviluppare nuovi interrogativi e ricerche sull’influsso che i testi cabbalistici hanno avuto, talvolta anche in maniera occulta, su tanti aspetti del pensiero, della spiritualità, della letteratura e dell’arte europea. Di Gabriella Maestri

lunedì 15 settembre 2008

Gerusalemme, ponte Calatrava


Solo poche pagine di un dettagliato, splendido diario del nostro ultimo viaggio in Israele, febbraio 2008, scritto da Luisa Fazzini. Chi volesse l'intera opera può farne richiesta con un commento sul blog.

24 febbraio 2008 – domenica

Oggi visiteremo tre punte di diamante della realtà gerosoliminiana, la Knesset , la Corte Suprema , il grande Museo della Shoah, lo Yad Vashem e saranno emozione e commozione altissime, un’esperienza indimenticabile. Grandissimo è stato il mio coinvolgimento,al di là e al di sopra di quanto mi aspettavo.. Ho avuto davanti agli occhi come è stata realizzata, con sistematicità, l’attuazione di una minuziosa simbologia attraverso un’ architettura moderna di importante impatto visivo e di evidente intento didascalico in un contesto che non dimentica mai la dimensione estetica.
Arriviamo con il pullman alla Knesset, ma prima abbiamo percorso una vasta area che è la cittadella universitaria modernissima, frequentata da studenti provenienti da tutto il Paese ma anche dall’estero, con un vario programma di ricerche in tutti i settori. Ogni edificio è circondato da un parco di alberi di alto fusto e di ricco fogliame. Anche l’edificio del Parlamento ha tutto intorno distese di prati con aiuole fiorite, tra cui 15 acri che accolgono roseti con esemplari provenienti da tutto il mondo. Si può ammirare sull’orizzonte il Monte Herzl , coperto da un folto parco , che è dedicato a Theodor Herzl, l’ispiratore del Sionismo, sulla cima del monte, di più di 800 metri, c’è la tomba di Izhac Rabin e sul lato nord il cimitero militare dei 6.000 caduti in guerra. Davanti al Palazzo della Knesset (Assemblea) c’è una colossale Menorah di bronzo, opera di B. Elkan, donata dal governo inglese , che nelle sue braccia ha raffigurata in precisi riquadri la storia di Israele. Il Palazzo ha elementi ispirati alla classicità del Partenone e vuole ricordare anche la struttura del primo Tempio degli Ebrei, ha una base di cristallo trasparente perché così deve essere la vita dell’ organo di governo, l’opera è del 1966 dell’architetto Klarwin e di D. Karmi. All’interno, oltre alla sala del Parlamento, ad emiciclo, con poltrone di cuoio e prevalente colore marrone anche perché tutte le pareti sono ricoperte di legno, con la parete di fondo, dietro il tavolo della Presidenza, di pietra bianca di Gerusalemme, che vuole richiamare il Muro del Pianto, ammiriamo gli stupendi arazzi , il Trittico, ispirato alla Bibbia: Creazione – Esodo dall’Egitto – Entrata in Gerusalemme e i mosaici pavimentali, tutte opere di Marc Chagall, grande pittore ebreo russo, che ha voluto donare questi ornamenti al suo Paese.
[La rappresentazione di David che danza, desideroso di umiliarsi di fronte a Dio, felice, davanti all’arca che entra in Gerusalemme, con in un angolo, dietro una porta , la moglie Micol, che lo guarda con aria critica, è proprio come la descrive Dante nel Canto X del Purgatorio (vv. 64-69: “ Li precedeva al benedetto vaso , / trescando alzato, l’umile salmista, / e più e men che re era in quel caso. / Di contra, effigiata ad una vista / d’un gran palazzo, Micòl ammirava / sì come donna dispettosa e trista.” ( l’episodio è tratto dalla Bibbia, 2 Reg , VI,16) ]
Al vertice opposto di un ideale collegamento diretto rispetto alla Knesset c’è l’ardito edificio modernissimo, ideato dai coniugi Ram Carmi e Ada Carmi Malamed , una delle cose più interessanti ed indimenticabili di questo viaggio, la Corte Suprema (1993). Qui tutto è stato previsto per avere un significato allegorico preciso, a cominciare dalla scala di ingresso che deve far pensare alla salita al Cielo, anche attraverso la spettacolare vista che si ha di Gerusalemme dalla grande vetrata che si trova al punto terminale della scala. Nel corridoio d’entrata un muro è di pietra bianca di Gerusalemme, per ricordare la continuità del passato, l’altra parete è semplicemente bianca per accennare al futuro che è tutto da scrivere. L’edificio ha tre piani come ci sono tre Corti e tre tipi di giudizi. L’ampio spazio di accesso, di fronte alle aule, con pareti altissime e grandi vetrate e con emicicli corredati di comodi sedili e un sistema di insonorizzazione per consentire colloqui più discreti e privati di avvocati e ricorrenti, allude ad una strada o piazza a cui si accede senza difficoltà, perché così deve avvenire per chi adisce alla giustizia. Così sono state concepite le aule di giudizio , di misura e di struttura tali da essere accoglienti per ebrei, musulmani, cristiani ossia devono apparire come un spazio simile ad una sinagoga, ad una moschea o ad una chiesa. Il luminoso cortile interno conserva le scansioni austere di tutta la restante costruzione ed è attraversato da un solco in cui scorre acqua gorgogliante, nella direzione esatta della Knesset perché il Parlamento deve essere ispirato da quei principi di purezza e vitalità, rappresentati dall’acqua corrente, che gli provengono dalla Corte Suprema . All’interno dei vari piani si alternano continuamente, linee rette e linee curve, nell’intento di ispirare l’idea che le leggi devono essere rette, mentre il giudice deve giudicare dopo aver valutato la complessità della realtà in cui farà valere la sua sentenza.
Ma le emozioni non erano esaurite: mi attendeva quella che da sola può motivare questo viaggio.: la visita allo Yad Vashem, “Un monumento un nome”: questo è il significato delle due parole . Le lacrime mi sono salite, ma le ho trattenute, agli occhi sin dal primo impatto, benché ero abbastanza preparata a quanto avrei incontrato sul mio cammino. E’ stata una vera discesa nel Dolore; non so quanto condiviso da tutta quella folla di visitatori, certamente toccati da una simile atroce vista ma anche troppo intenti a fotografare, sedersi, bisbigliarsi qualcosa di immediato, non collegato con quanto li circondava.. Io ho sentito uno strappo nella mia carne. Mi è venuta in mente la descrizione dello stato d’animo della cosiddetta seconda generazione di ebrei, soprattutto americani, nati da sopravvissuti alla Shoah, che ho molto apprezzato nel libro “L’archivista” di Martha Cooley (Guanda,1998). Lì veniva messo in luce il senso di colpa per la propria vita rispetto a quella, stroncata, di tanti esseri fratelli e, comunque, il profondo senso di angoscia per quelle inenarrabili sofferenze, da esserne intaccati per sempre. Ho provato tutto questo di fronte sia alle immagini introduttive a questo luogo di memoria, quelle del Campo di sterminio di Clod, da cui nessuno è uscito vivo, sia a quelle degli incendi di libri nel famoso inizio dello sterminio e alla profetica frase , detta da Heine nel 1921, ancora lontano da quel furore : “Quando i libri vengono bruciati, anche l’essere umano verrà bruciato”. Ancora maggior commozione mi ha invaso di fronte alle originalissime fotografie animate con il computer da una fotografa americana, che è riuscita a far “muovere” le figure che erano state fissate su pellicole , nei loro gruppi famigliari o nelle loro occupazioni quotidiane o nel via vai di città o dei poverissimi ma intensi schtetl del centro Europa, dalla fine ‘800 ai primi decenni del ‘900.
In questa sorta di filmato un po’ più statico dell’abituale si potevano apprezzare le teste che si giravano verso di noi, mostrandoci il sorriso, o il faticoso pedalare di un contadino di uno schtetl polacco, che aveva caricato sulla sua bicicletta anche cesti di verdure o animali da cortile, o ancora il lento passo di eleganti figurine femminili a passeggio per i viali di un bel giardino di città o bambini intenti a rincorrere il rimbalzo di una palla. E poi, improvvisamente, altre immagini, più irrigidite e soprattutto viste dall’esterno di case, le cui finestre sempre più raramente erano aperte, sino a giungere allo squallore di uno scorcio di polverose strade abbandonate dove erano agitati da un turbine, metaforica allusione allo sconvolgimento imminente dello sterminio, di tristi e stentati cespugli: la parabola, neanche troppo velata, di una vitalità che da vigorosa e attiva si è andata restringendo e rallentando fino allo spegnimento. L’annullamento era in atto e stava quasi vincendo. Lo sgomento mi ha preso mentre mi infilavo nella via in leggera discesa che ci costringeva a procedere verso gli altri ambienti, l’uno svolgentesi nell’altro dove i nostri occhi non potevano posarsi se non su immagini che suscitavano continua costernazione per la loro moltiplicante dolorosità, senza però alcuna concessione a scorci di mestizia edulcorata; sono presentazioni di una pura e immane tragedia. Credo che il maggiore merito di questa esposizione è di dare la cognizione della enormità e della sistematicità dello sterminio, che però non è riuscito nel suo intento ultimo, la cancellazione del popolo ebraico, per un’unica forza, credo, quella della mente di coloro che sono riusciti a non piegarsi e a trovare in sé e in qualche altro compagno la tenacia della volontà di affermazione della loro umanità, prevalente su tutto. Ma è indicibile il male inferto e sopportato; quel peso mi è entrato dentro e non lo posso allontanare: ho temuto, ho patito, ho pensato che comunque era facile per me, che ero lì e guardavo: non avevo gli occhi pieni della vista di quel sangue, le narici piene di quegli odori, le membra tremanti per quel gelo e per quella fame. Ho meglio compreso la frase che mia madre diceva negli anni immediatamente dopo la guerra: “Non potrò mai più sorridere”. La sua lunga e operosa oltre che generosa vita l’ ha portata a godere, invece, di tanti buoni momenti, ma credo che Lei si sia sempre sentita una privilegiata, quindi con un obbligo sacrale e assolutamente mai rivelato, ma non per questo inconsapevole, all’impegno costante a vedere gli altri e a farsene carico, mai richiudendosi in una cieca e irraggiungibile staticità nel proprio, mai sentito come esclusivamente tale . Questa convinzione maturata davanti a quelle emozioni è una delle ricchezze che mi ha portato questo viaggio. Altre due forti esperienze, voglio ricordare di questa visita.
Una si è sviluppata quando abbiamo raggiunto l’ultima sala del nostro percorso, la Sala dell’Archivio. Siamo entrati in essa da una passerella sospesa, che collega due larghe pareti cilindriche concentriche.: su quella di fondo si stagliano le mensole concentriche , l’una sopra l’altra lungo tutta l’altissima parete e sono occupate da centinaia e centinaia di allineati dossier cartonati scuri, con sul dorso un’etichetta che porta scritti rigorosamente a mano, in elegante corsivo antico, un nome e un cognome, gonfi al loro interno di fitti fogli di carta, talora anche accartocciati e un po’ stracciati : gli unici documenti che attestano le singole vite di tutte quelle vittime. L’altra parete interna, che si rastrema ed incurva in una cupola è del tutto coperta di fotografie di uomini donne vecchi bambini, che ci guardano ma, nel contempo, si riflettono in uno specchio d’acqua contenuto in un bacino posto sul pavimento, sprofondato, in corrispondenza alla cupola. L’effetto di moltiplicazione di tutte quelle immagini lancia un chiaro messaggio di continuità e di collegamento di quei volti, di quelle persone con noi visitatori, a loro collegati attraverso questa corrente visiva. Qui le lacrime non le ho potute, né volute, trattenere.
Eppure da questo strazio venivamo obbligati a staccarci nel momento in cui ci siamo avviati sull’ultimo tratto di questa sorta di strada che ci aveva portato sin lì, ma, differentemente da prima, ora si stava innalzando verso una radiosa parete di cristallo, aperta su uno spettacolare panorama della vallata circostante, verdeggiante di tanti alberi e costellata dei colori dei fiori, dei prati, delle case, insomma , andavamo verso la vita. Gli stessi criteri architettonici e didascalici guidano il visitatore anche nel Memoriale dei Bambini, più di un milione, sterminati nei lager. Qui, tuttavia, è più forte e avvertibile il richiamo all’obbligo della memoria, che deve permanere squarciando le tenebre dell’oblio come fanno le illimitate fiammelle che tremolano nel buio di un passaggio, attraversato con l’aiuto di un corrimano e avanzando con la sensazione della cecità. Poi si ritrova la luce e si esce nel giardino che circonda anche questa costruzione. Quelle mille luci altro non sono che il riflesso in pareti di specchio di sole cinque candele, dimostrando ancora una volta quanto possa una forte e tenace volontà, quanto valga l’amore per la vita, magari nel ricordo. Bene hanno fatto a disseminare vari monumenti a persone che si sono impegnate in grandi imprese di salvazione nel parco tutto intorno; voglio ricordarne una sopra tutte, il monumento che eterna l’eroica azione di protezione e poi di personale sacrificio estremo del dott. Janusz Korczak, che aveva organizzato un ospedale-ricovero per bambini prevalentemente orfani e, pur potendo salvarsi, ha voluto seguirli nel lager per essere loro vicino fino all’ultimo; è commovente la rappresentazione dell’abbraccio di quell’uomo generoso che vuol creare uno scudo col suo braccio e con la sua grande mano ai suoi piccoli protetti. A questi luoghi si accede dal famoso Viale dei Giusti, dove ogni albero, di solito un olivo, benché inizialmente si volevano dei sicomori, molto diffusi in questo territorio e utilizzabili in tutte le loro parti nonché citati nella Bibbia e crescenti tanto lentamente che chi li pianta sa che lo fa per i suoi discendenti, porta il nome di una persona, non ebrea, che si è prodigata, a rischio della sua vita, per salvare un ebreo.
Dopo questa serie di visite di particolare valore e intensità di emozioni, che forse sarebbe stato meglio diluire in due giorni, a tutela di equilibri cardiaci messi a dura prova da tanta intensità di ondate emotive, raggiungiamo il complesso universitario dove avremo l’incontro con il prof. Sergio della Pergola, italiano ma ora docente presso l’Università di Gerusalemme, che sarà, in autunno nostro oratore a Trieste. Prima di arrivare però a questa meta, attraversiamo il quartiere abitato esclusivamente da ultraortodossi (haredim), detto Mea Schearim (che significa “cento porte o cento volte”). Qui, gli uomini non lavorano ma studiano soltanto il talmud e i sacri testi, perché rifiutano di modificare la natura che li circonda con il lavoro manuale, mentre le donne, rigorosamente a capo coperto con fazzoletti, cappelli o parrucca, vestite pesantemente con calze grosse, gonne lunghe e braccia completamente coperte, oltre a fare , mediamente, 5/6 figli, spesso lavorano per aiutare il mantenimento della famiglia. Lo Stato eroga un sussidio ai maschi, in segno di rispetto per i loro studi, ma questo non è sufficiente al mantenimento di tali numerose famiglie. Nel quartiere, tutto è separato; hanno propri negozi, ospedali, scuole, si cibano e si comportano nella piena osservanza del rituale più rigido; evitano di uscire dal quartiere stesso; hanno giornali e trasmissioni radio specifiche, ma vi ricorrono poco; preferiscono dare notizie attraverso un sistema di manifestini, che vengono attaccati agli alberi, sulle vetrine dei negozi o sui portoni. Ad uno sguardo rapido, la vita sembra molto povera e arretrata. Spesso, giovani promettenti di queste comunità scappano e, talora, vengono accolti da famiglie meno osservanti, vengono adottati e poi proseguono negli studi e raggiungono brillanti posizioni.. Incredibile il colpo d’occhio di queste strade affollate e animate da moltissimi giovani e ragazzini oppure austeri uomini con lunghe barbe fluenti e lunghi ricci, alle tempie , i peots, i riccioli rituali, che sbucano dai più strani cappelli, prevalentemente di feltro nero, a larga tesa, mentre altri portano dei grossi colbacchi di pelliccia; tutti sono coperti, in qualsiasi stagione, da lunghi e pesanti cappotti neri. Il tempo è scandito come negli schtetl del centro-Europa; si parla lo yiddish mentre l’ebraico è usato solo per i riti religiosi. Non riconoscono lo Stato di Israele perché non fondato dal Messia Come scoprirò dalla risposta che il prof. Della Pergola mi darà, gli ultra-ortodossi sono presenti in tutto Israele, calcolabili al 10 % e sono, quindi, un non piccolo problema per il Governo, che li deve mantenere. Si registra, ora, un compromesso per certi lavori nell’elettronica, in quanto ritenuta un campo di azione non manuale, per cui si può ipotizzare che le nuove generazioni saranno impegnate in qualche lavoro di questo tipo..
Attraverso un lungo tragitto che comprende il passaggio in una galleria , una specie di ambiente da metropolitana, dove invece gli studenti universitari prendono i vari mezzi per tornare a casa, procediamo verso il terzo piano di un edificio universitario e, in una bella aula ad emiciclo, ascoltiamo l’ interessante conversazione-lezione.del prof. Della Pergola, che ci illustra come è organizzata la società in Israele. Ci sono state molte domande molto ben impostate e fatte da persone preparate e intelligenti e anche la mia domanda al professore è stata molto apprezzata dai miei compagni di viaggio, che mi hanno dimostrato apertamente il loro consenso, e anche da lui, che si è molto divertito quando ho introdotto il quesito sul pesante problema economico rappresentato da questa fascia di cittadini non-lavoratori e ostili, pur riconoscendo l’alto valore ideale dello studio e della dedizione alla meditazione filosofico -religiosa .
La bella giornata si è conclusa quindi con questa immersione nella vita politica e quotidiana di Israele, poi siamo andati a cena e qui vale la pena di dire due parole su cosa e come si mangiava.
Nel bell’albergo di Gerusalemme, era sempre tutto preparato, con grande abbondanza e buon gusto nel porre insieme piatti di cibarie coloratissime e appetitose, sicchè bisognava stare attenti a non avere gli occhi più grandi della bocca, abbondavano verdure cotte e crude, salsine piccanti o dolci, ma sempre gustose, c’era varietà di carni rosse e bianche, c’era quasi sempre della minestra di cipolla, piuttosto delicata, e insalata di pasta (non so se una concessione agli ospiti italiani), c’era anche del pesce, che è stato gradito a chi lo ha assaggiato. Al mattino, la colazione, offriva una tale gamma di yogurt e di formaggi molli, insaporiti alle erbe o dolci, brioches e torte che, a lasciarsi andare, si rischiava una indigestione bella e buona. Non mi è accaduto nulla di tutto ciò. Ultimo pernottamento a Gerusalemme : è certo che è un luogo da rivisitare, è sicuramente un luogo dell’anima.

25 febbraio 2008 – lunedì


Si parte con puntualità dall’albergo con i nostri bagagli perché ora si incominciano i veri spostamenti, con una sequenza piuttosto fitta di visite ad Istituti di ricerca, monumenti e/o luoghi storici, kibbutz e visite a territori caratteristici. Questo viaggio è stato impostato sulla conoscenza dello Stato di Israele in occasione del 60° anniversario della sua fondazione perciò toccheremo certi punti , come l’Istituto di Ricerca Weizman o l’Ayalon Institut presso Rehovot, dove potremo valutare la capillarità e vastità dell’impegno dello Stato per approfondire studi e sperimentazioni in campo medico, agricolo, fisico-chimico, da cui trarre benefici per tutta la comunità con sistemi di avanguardia ma anche luoghi di memoria storica carissima ai fondatori di Israele, evocatori di tempi eroici..
Lo comprendiamo bene quando veniamo accolti con vivo senso di ospitalità e con una colazione gentilmente offerta da due delle organizzatrici dell’Istituto e della nostra visita, in un’originale sala di illustrazione, e vediamo, attraverso sistemi televisivi e cinematografici, da schermi posizionati anche in delle finestre alternate ai nostri sedili e attraverso le tradizionali proiezioni informative, le attività svolte nei laboratori attrezzatissimi e modernissimi dell’Istituto che prende il nome dal primo Presidente dello Stato israeliano. Abbiamo modo di ammirare la sua luminosa casa, di impronta assai borghese ma non certo lussuosa, sobria e corredata da elementi caratterizzanti l’uomo: un intellettuale, scienziato e studioso di grande spessore, pieno di libri, che fanno mostra di sé in una sala studio-biblioteca, che ha certamente molta più importanza, nella casa, di quanto ne abbia la sala di ricevimento. Mi sono molto piaciute le tante e tante fotografie che caratterizzano l’atmosfera di questa abitazione. Sono la testimonianza degli importanti incontri avuti dal padrone di casa con scienziati, artisti, dei viaggi in tantissimi paesi e dei colloqui con uomini politici e potenti di vario tipo , in cui è sempre accompagnato dalla elegante moglie, e pongono, altresì in risalto anche i gusti personali, come la musica, la pittura e la passione per un collezionismo raffinato di statuette orientali,. La villa , modesta di proporzioni, ha l’impronta di quegli anni ’30 del ‘900, evocatori dello stile della Bauhaus , che l’architetto Mendelsohn, infatti, aveva prima seguito e poi rinnegato.. Negli ultimi tempi di vita, Weizman aveva fatto apporre, sul davanzale della veranda rotonda della sua stanza da letto, una piccola mensola, a cui si faceva avvicinare perché impossibilitato a camminare, per mettere i semini a nutrimento degli uccellini del parco, così abituati da lui stesso. Mi ha colpito questo intreccio di dimensioni pubbliche e private, che vengono percorse con semplicità e duttilità, senza rinunciare a nulla e dando grande valore agli affetti, sia famigliari, come è dimostrato dalla forte presenza di immagini che ritraggono il Presidente con la amata moglie, che amicali. Così, mi sembra, di aver conosciuto un uomo vero. Siamo informati dalle nostre guide dell’imponenza dell’Istituzione di Ricerca, che spazia in vari campi, dalla medicina all’energia alternative alla biomatica, scienza tra biologia e matematica, dagli studi sul cervello e sul cancro alle 250 sperimentazioni più varie, a cui partecipano 2.200 tra studiosi e studenti , suddivisi in 100 gruppi, guidati da professori sia locali che esterni; la presenza studentesca è rispettosa del 50% di genere. Ci viene raccontato come la famosa Dichiarazione Balfour venne fatta a compenso di un’importante formula dell’acetilene, che era stata messa a punto in questo luogo di studio, e ritenuta, in quel momento, molto utile agli armamenti inglesi. Ed eccoci, dopo poco, inseriti in un ambiente del tutto opposto: raggiungiamo il Kibbutz Ayalon, un rustico e piuttosto povero luogo, caratterizzato da basse e antiquate casupole , che fanno pensare ad una piccola fabbrica anni ‘40/50. Infatti siamo arrivati in un’area che contava una lavanderia e un panificio. La strana presenza era motivata dalle esigenze dei contadini del kibbutz, pionieri, coltivatori, duramente e poco produttivamente impegnati nei primi tentativi di fertilizzazione del deserto, che infatti circonda con la sua riarsa distensione di sassi e terriccio tutto il territorio. Ma c’è una sorpresa, che, come ormai ci abitueremo a registrare, ci fa scoprire che, in realtà, tutto ciò che vediamo: attrezzi, macchinari, forni, camini, lavatrici arcaiche e stiratrici altrettanto improbabili, in quel momento era funzionante, con un rumore tale da costringere a tapparsi le orecchie per la sua intollerabilità ; apparentemente si provvedeva al servizio di lavatura dei panni e alla fornitura di pane e pasta per tutti i lavoratori della comunità di Ayalon e anche di abitanti di villaggi vicini.
Ma non era tutto qui, infatti, spostando a fatica una pesantissima macchina, si scopre una botola che permette di scendere di parecchie decine di metri sotto terra. Sotto entrambe le costruzioni, sempre passando da rocambolesche e segretissime aperture, si giunge ad ampi spazi , tutti attrezzati da macchine tutt’altro che imbelli: servivano per la produzione di proiettili, con cui rifornire il neocreato esercito di Israele, impegnato nella mortale guerra dichiarata da sei Stati Arabi, contemporaneamente, all’indomani della votazione dell’ONU, che aveva approvato la nascita dello Stato ebraico. Lavorarono qui,dal 1944 a metà del 1946, in assoluto segreto, affidato alla conoscenza di una sola donna, che aveva il compito, dopo che tutte le operaie della lavanderia-stireria erano andate nella mensa comune per il pranzo, di dare il segnale al gruppo dei 12 turnisti, che si alternavano nella fabbrica sotterranea ed emergevano per il cambio turno, in quel momento. Analoga operazione veniva fatta con coloro che lavoravano nel vasto complesso sotterraneo , rispondente al forno del pane. Entrambi gli edifici avevano dei camini da cui doveva fuoriuscire , giustificatamene, fumo, che ovviamente, non era solo quello delle operazioni di superficie ma anche quello prodotto dalle fusioni per i proiettili. I camini, inoltre, consentivano anche l’areazione dei locali interrati. Era stato escogitato un sistema vero e proprio di camuffamento di questi addetti, di colorito pallido e , naturalmente, puliti, per farli passare per normali contadini, scuriti dal sole e sporchi di terriccio o altro materiale proprio dei campi. Così, questi operai segreti si sottoponevano a lampade abbronzanti e a veri trucchi per simulare una condizione esteriore uguale a quella dei contadini. Un casuale ritardo di uscita di un’operaia aveva fatto scoprire a questa altra persona, che si era poi unita nel lavoro ai sotterranei, tutto il complicato andirivieni tra sopra e sotto terra, con la conseguenza che, dopo poco, si preferì abbandonare questo luogo, trasferendo altrove tutta l’attività clandestina. Tutta questa avventurosa storia è molto ben rappresentata poiché luoghi, oggetti, suppellettili sono stati conservati in originale e, addirittura, gli ambienti sono stati animati da figure a grandezza naturale di operai e operaie intenti a varie mansioni così da avere l’impressione di entrare in un mondo di più di 60 anni fa e, per chi quella realtà l’ ha vissuta in età di ragione, è un’esperienza assai emozionante
La meta di grande impatto emotivo ci aspettava, però, a Tel Aviv : la “Sala dell’Indipendenza”.Situato in quella che era stata la casa del primo sindaco di Tel Aviv, un po’ sotto il livello stradale, l’ambiente piuttosto spartano, di ampiezza limitata, mi ha dato l’impressione di una palestra, era stato scelto come luogo di riunione, nella urgenza di garantire un minimo di sicurezza a quello che era il parlamento provvisorio e ai personaggi che sarebbero diventati il nerbo del governo del nuovo Stato ebraico : Ben Gurion e Golda Meir, tra essi. L’impareggiabile guida, una giovane signora di origini albanesi, in ottimo italiano, ci ha trasmesso tutto il suo entusiasmo di appassionata patriota nel raccontarci le frenetiche ore, precedenti il grande annuncio del 14 maggio 1948, in cui , non soltanto si è dovuta allestire, sotto minaccia di continui bombardamenti, la sala adeguata a fare il grande annuncio della nascita dello Stato di Israele, ma si sono dovute decidere moltissime e fondamentali scelte: il nome del nascente Stato, i principi ispiratori dello stesso, i ministri e i rappresentanti del parlamento provvisorio, i riferimenti ai confini dello Stato, il collegamento per la diffusione radiofonica, ; era un venerdì, quel giorno e, per la differenza del fuso orario, si rischiava di entrare nello shabbat ossia nel periodo in cui gli ebrei osservano strette misure di comportamento. Sarebbe stato impossibile usare la radio o organizzare qualsiasi ufficiale cerimonia che dovesse servirsi di mezzi meccanici: il sabato è il momento della preghiera e della meditazione, quindi non si deve fare nulla di manuale. Decisero di chiamare il nuovo Stato Israele e fecero una serie di affermazioni di motivazione alla sua nascita e ai suoi futuri comportamenti, per cui si scrisse e si modificò il testo sino all’ultimo minuto. Grande polemica, ad esempio, era scoppiata se inserire un cenno alla volontà di Dio circa la nascita di Israele o no e si scelse una frase neutra “ si sarebbero poggiati sulla roccia di Israele”.
Abbiamo visto, in una teca esposta alla Knesset, il documento riportante questo testo e le firme dei rappresentanti del governo provvisorio . Ma è stato curioso sapere la faticosa gestazione di quello scritto, con un’antiquata macchina da scrivere, usata da un dattilografo che doveva continuamente ribattere dei tratti per le correzioni che venivano apportate, con l’affanno cui accennavo più sopra; segno di esso è la strana forma che assume l’ultima pagina di quello scritto : è letteralmente appiccicata all’ultima facciata ed ha una lunghezza diversa. Era accaduto che, per accorciare i tempi, si era fatto firmare i vari rappresentanti su un foglio a parte con l’intenzione di aggiungerlo, opportunamente, ma, nella concitazione degli ultimi istanti, il copista aveva rovesciato una boccetta di inchiostro, posta sul tavolo, e il liquido nero aveva macchiato proprio il bordo superiore di quel prezioso foglio, ma non, per fortuna, le firme autografe. Si era allora provveduto a tagliare la parte macchiata e incollare l’altra restante all’ultima pagina del documento. Questo continuo rimescolamento di atti sublimi e di piccoli, quando non buffi, eventi è un dato che mi è molto piaciuto dell’esperienza di vita in Israele: si percepisce un contatto continuo con l’umiltà della quotidianità, che appare sempre molto viva e mobile, e con l’austerità e importanza indiscutibile di tracce passate e attuali di fondamentale rilievo. E’ quell’impasto di passato-presente, con una forte ed esplicita spinta al futuro, che ho sentito qui, con una mia immediata sensazione di essere proiettata in una dimensione potentemente vitale raggiunta per merito di una vera e propria carica propulsiva.
Nella famosa giornata della dichiarazione dell’indipendenza ci fu anche un’altra forsennata diatriba. Sapevano chiaramente che, a votazione favorevole dell’ONU alla nascita di Israele, ci sarebbe stata, immediata, l’aggressione dei sei stati arabi coalizzati contro questa realtà, dotati di armamenti formidabili e, soprattutto, determinati a distruggere, prima ancora che si insediasse, la nuova realtà politica. Decisero di inviare un rappresentante dello Stato negli Stati Uniti per raccogliere fondi e poter, così, armare l’esercito, neppure ancora costituito e, comunque, privo di effettivo armamento. Ben Gurion sembrava e voleva essere quel rappresentante, ma Golda Meir fu determinata; sarebbe andata lei in America perché la presenza di una figura autorevole e riconoscibile come Gurion era necessaria nella difficilissima situazione locale. Così, infatti, a dichiarazione fatta, fu questa donna tenace e fortissima a partire, la sera stessa, e a raccogliere ben 40 miliardi di dollari, dalle comunità ebraiche americane.
Altro problema complicatissimo fu far entrare armi e danaro in Israele per i gravi ostacoli frapposti dagli altri Stati, timorosi del disequilibrio che poteva verificarsi nel Merio Oriente. La nostra guida ha anche raccontato come il tecnico radiofonico, che aveva offerto la sua opera gratuitamente, aveva avanzato una sola richiesta: che sul microfono centrale dal quale avrebbe parlato Ben Gurion ci fosse una piastrina con il nome della sua azienda, per motivi di pubblicità. Bello questo intrecciarsi della microstoria con la macrostoria !
Poi, anche noi, visitatori non casuali ma pur sempre di passaggio, abbiamo sentito la voce ferma ma contenuta nell’emozione affiorante di Ben Gurion che ha scandito parole a noi incomprensibili, che tuttavia ci sono sembrate sonanti: oggi nasce lo Stato di Israele; un’onda di suono travolgente, un colossale applauso, è dilagata nella Sala, che si è come animata, nuovamente, di partecipazione, di commozione, di esaltazione, di gioia, a ben 60 anni di distanza e tra persone che non erano le dirette interessate ! Credo che tutti coloro che assistono a questa commovente rievocazione la vivano raccordandola a loro esperienze; certamente noi triestini, così provati nella nostra volontà di affermare la nostra italianità, e così combattuti e spesso contrastati in questo cammino, abbiamo un motivo in più per partecipare completamente a questo entusiasmo e capirlo totalmente. Usciamo tutti con gli occhi lucidi di lacrime, presi da una profonda comprensione dello sforzo immane fatto dagli ebrei per guadagnarsi questa loro terra, che doveva e deve restare il loro Eretz Israel.
Ma la giornata non è ancora conclusa: mi attende uno splendido concerto dell’Orchestra Filarmonica di Israele, sotto la direzione del Maestro Itzak Perlman e il violinista Vladim Guzman. Le musiche sono: Stravinsky , Concerto in D for string orchestra; Mendelssohn, Concerto in E minor for violin and orchestra, op.64; Berlioz, Symphonie fantastique, op.14. L’Auditorium è un’imponente sala di 3.000 posti, mi impressiona, con ammirazione, il Maestro Direttore, che mi sembra molto valido, gravemente colpito nella deambulazione, sorretto da due stampelle, che depone nel momento in cui si siede su uno scranno un po’ elevato per dirigere. Anche questa è un’esperienza interessante: esempio di forza d’animo e volontà per attuare la propria vocazione artistica. Il violinista si rivela un virtuoso di altissima qualità e la musica che ne scaturisce mi rende felice per la sua doppia qualità, quella tecnica e interpretativa e quella del luogo in cui l’ascolto : Tel Aviv (Israele). Ecco , è questo che volevo: la mia agognata ( e impossibile, per la maggior parte) presenza in luoghi internazionali per seguire gli eventi di musica, arte, cultura in generale! Questa sarebbe vita se fossi ricca; non lo sono e, quando raggiungo questi traguardi, mi sento padrona del mondo, dato che essi mi accompagnano e moltiplicano dentro di me quel piacere estremo che è il contatto con la BELLEZZA, che voglio sempre raggiungere. Luisa Fazzini, Trieste