mercoledì 17 settembre 2008


Le donne di mio padre

di Savyon Liebrecht, Traduzione di Alessandra Shomroni
Edizioni e/o Euro 18,00

Scrittrice esperta dei segreti dell’animo umano e dotata di grande discrezione, Savyon Liebrecht affronta nel suo ultimo romanzo “Le donne di mio padre” il tema della memoria, seppur di un tipo diverso rispetto a quello dei sopravvissuti allo sterminio.
Se il ricordo della Shoah è il filo conduttore dei suoi libri precedenti, dal romanzo “Prove d’amore” alle successive raccolte di racconti, “Mele dal deserto” e “Un buon posto per la notte”, in quest’ultima opera la scrittrice israeliana, attraverso un’attenta rielaborazione del passato e dell’oblio, delinea con grande capacità introspettiva il rapporto che lega un padre a suo figlio analizzando l’influenza dei comportamenti paterni sulla psiche di un bambino di sette anni.
Meir Rosenberg è uno scrittore di trent’anni in crisi creativa quando la madre lo informa che il padre Aharon, un poeta squattrinato che negli anni 60 frequentava i circoli letterari di Tel Aviv, non è morto come credeva Meir ma ha trascorso quasi vent’anni in carcere: gravemente malato arriverà in America per sottoporsi a cure mediche.
L’annuncio sconvolge il giovane e fa riaffiorare ricordi della sua infanzia che aveva volutamente dimenticato: i sette anni trascorsi a Tel Aviv con i genitori, i loro momenti di tenerezza ma anche le liti cui assisteva, il gelato della gelateria Whitman in Allenby Street, “dove andavamo tutti insieme come in un bel quadretto familiare”; la partenza della madre per gli Stati Uniti che lo lascia con un profondo senso di abbandono; i cinque mesi trascorsi peregrinando al seguito del padre sfrattato perché non era in grado di pagare l’affitto, passando da un caffè all’altro, dalla casa di un’amante all’altra, ma “sempre con donne che amavano i bambini” e, almeno per pochi giorni, erano disposte a prendersi cura del figlioletto.
Testimone delle tecniche di corteggiamento del padre, Meir “ascolta quello che un bambino non dovrebbe sentire, vede quello che non dovrebbe vedere” fino all’ultimo drammatico episodio avvenuto nella casa di due attrici, Ola e Pola, che incide nella mente di Meir il ricordo di “una grande macchia rossa su un lenzuolo” e che cambia radicalmente la sua giovane vita portandolo a vivere in America con la madre.
Per ricostruire il suo passato, per capire chi era in realtà Aharon Rosenberg arrivato in Israele dalla Polonia attraverso la Russia e per conoscere quella verità che si cela come un oscuro segreto nelle pieghe della sua mente, Meir ritorna in Israele per incontrare il padre.
In un susseguirsi di immagini del passato, a volte piccoli frammenti, a volte quadri più ampi, la trama si snoda priva di colpi di scena eppure intensa e ricca di personaggi indimenticabili, alcuni dei quali lasciano un ricordo indelebile nel piccolo Meir per la sensibilità e l’affetto di cui hanno saputo circondarlo. Come il vecchio Barel, scampato all’Olocausto che condivide con Meir e Aharon il suo misero scantinato in Shlomo HaMelech Street dove “conservava i suoi tesori; sedie rotte, cuscini sbrindellati, pantofole logore…” e dove il bambino aveva conosciuto quel calore umano che la vita gli aveva negato. O come Ernie, medico e compagno della madre, un uomo buono che lo accoglie con amore e simpatia sin dal suo arrivo in America e farà le veci del padre ogniqualvolta Meir si troverà ad affrontare le gioie e le difficoltà della sua vita di bambino prima, e di adolescente e giovane uomo poi. Le donne di mio padre è un romanzo di raffinata eleganza, costantemente teso verso una possibile via d’uscita, in una perenne attesa di luce che può essere la propria verità o la propria versione dei ricordi. E nella speranza di Meir che “il sole sarebbe sorto anche l’indomani” traspare quel senso della complessità dell’esistere che è anche un segno della qualità morale del romanzo. Giorgia Greco

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