mercoledì 17 settembre 2008


Mi chiamava Pikolo

Jean Samuel con Jean marc-Dreyfus, Traduzione di Claudia Legnetti
Frassinelli Euro 17,00

Abbiamo incontrato Pikolo per la prima volta in uno dei capitoli più intensi e significativi della storia della Shoah, “Il canto di Ulisse”, fulcro centrale del libro di Primo Levi “Se questo è un uomo”, uno dei capolavori della letteratura della seconda metà del ventesimo secolo.
“Pikolo”, il ragazzo del kommando chimico, aiutante del Kapo’ con cui Primo Levi porta la zuppa e al quale traduce in francese alcuni versi dell’Inferno di Dante, quel giovane alsaziano di ventidue anni studente di farmacia è Jean Samuel, autore insieme allo storico Jean-marc Dreyfus dello straordinario libro di memorie “Mi chiamava Pikolo”.
Nei versi danteschi che Levi recita all’amico è racchiusa “l’estrema protesta del concentrazionario” e la rappresentazione di quell’inferno che, solo, può descrivere Auschwitz: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”.
Il libro di Jean Samuel, che getta una nuova luce sull’opera di Levi, è la testimonianza unica di un’amicizia che, nata nell’incubo del lager, si mantiene intatta per quarant’anni fino alla morte dello scrittore italiano nel 1987 e l’occasione per porre a confronto due memorie, l’una rimasta senza voce sino ad oggi, l’altra “foriera” di un libro indimenticabile.
Un documento intenso, supportato da uno scambio affettuoso di missive a partire dal 1946 con il quale l’autore - dopo trentasei anni di silenzio - racconta la sua vita di studente, i solidi legami familiari, la deportazione e l’arrivo a Monowitz, terzo campo di Auschwitz all’interno dell’enorme cantiere edile della Buna, lo stabilimento che si serviva dei detenuti del campo per la maggior parte ebrei. Ogni sopravvissuto all’Olocausto che ha narrato l’orrore dei campi di sterminio rappresenta una testimonianza preziosa e irripetibile. Così è anche per Jean Samuel quando descrive alcuni “uomini eccezionali” incontrati nel campo: il dott. Waitz docente di medicina a Strasburgo “che trascorreva la giornata a cercare il modo di aiutarci andando avanti e indietro con il termometro sempre in mano”; l’ingegner Raymond Berr, un ottimo scienziato e noto industriale che non è sopravvissuto a lungo perché “soffriva terribilmente la fame, si gettava su qualsiasi avanzo, anche le ossa da rosicchiare”; Jacques Feldbau, brillante matematico che condivideva il suo sapere con i compagni del lager; Alfred Nakache, il campione mondiale di nuoto, deportato perché ebreo e ridotto dalle SS a “bestia” da esposizione. O quando descrive l’orrore delle impiccagioni e delle bastonature pubbliche cui dovevano assistere senza “nessun diritto alle lacrime, nessun diritto a reazioni umane”.
Scritto con un linguaggio scorrevole senza ambizioni stilistiche, il racconto delle memorie di Jean Samuel è arricchito ulteriormente dalla costante “presenza” di Primo Levi nelle lettere che si scambiavano e che testimoniano un’amicizia condivisa per decenni, resa ancor più solida dalle comuni radici ebraiche, in comunità di antica genealogia e caratterizzate sia da un discreto attaccamento alle tradizioni, sia da un profondo orgoglio per le proprie radici.
Fra Jean e Primo emergono molte similitudini: dalle famiglie di origine, entrambe della media borghesia commerciante, al medesimo amore per il lavoro e le rispettive famiglie, dalla formazione scientifica allo sguardo lucido e obiettivo sulla realtà.
E insieme condividono anche la passione per la “conoscenza” che li porta a salvare sé stessi “conservando la propria dignità” attraverso lo studio, la memorizzazione e l’osservazione analitica di ciò che li circonda: per Jean sarà la matematica a costituire un veicolo di salvezza (“ ….è stato proprio questo ad aiutarmi a sopravvivere, la capacità che avevo di isolarmi dal mondo esterno, di concentrarmi su un problema scientifico”), per Primo la “convinzione di doversi ergere a testimone”. Dopo la liberazione Jean Samuel è tornato a Wasselonne per occuparsi della farmacia di famiglia ma è alla morte della madre che è riuscito a diventare testimone della sua esperienza concentrazionaria nelle scuole, nelle università e persino al Consiglio d’Europa, prima nel 1995 poi il 27 gennaio 2005, pronunciando un discorso davanti all’Assemblea plenaria.
“Che lo vogliamo o meno, noi siamo testimoni e ne portiamo tutto il peso” scrive Primo Levi a Jean Samuel il 17 marzo del 1974.
Vent’anni dopo la scomparsa del suo amico Primo (ex 174517), “con l’incombere dell’età e la memoria che si fa meno presente” Jean ha ritenuto suo compito fondamentale lasciare una testimonianza scritta.
E noi gliene siamo grati. Giorgia Greco

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