venerdì 20 maggio 2011




La battaglia degli ebrei gay (religiosi) per essere accettati
18 maggio 2011 http://www.giornalettismo.com/
Sono omosessuali ma anche profondamente religiosi: vogliono continuare a professare la loro fede e vivere la loro sessualità, apertamente. La Bibbia non lo prevede? E allora? Un movimento che un tempo sarebbe stato inimmaginabile sta sorgendo all’interno della comunità Ebrea Ortodossa di Israele: è quello degli omosessuali che chiedono di essere accettati e abbracciati, non importa ciò che dice la Bibbia. Troppo a lungo la vecchia generazione e le vecchie idee hanno imposto loro di ignorare i loro sentimenti e di astenersi dal sesso, o altrimenti di mettersi in analisi. GAY PARADE - Dieci anni fa, dice Yuval Cherlow, un rabbino eterosessuale, avrei liquidato ogni richiesta che mi fosse pervenuta a questo riguardo come proveniente da “due o quattro folli che sono troppo influenzati dalla cultura occidentale.” Poi è andato a un meeting degli “Ortodossi omosessuali” e ha iniziato a comprendere le loro istanze e adesso è dalla loro parte. Nel Giudaismo Ortodosso, così come nel mondo cristiano, l’omosessualità è generalmente condannata e i gay vengono in generale ostracizzati. Nel mondo islamico invece la situazione è ben peggiore: i gay che si dichiarano sono esposti alla violenza, e in Iran addirittura per gli omosessuali c’è la pena di morte. In Israele gli omosessuali possono servire nell’esercito, avere benefici quando formano coppie stabili, e a Gerusalemme ogni anno si svolge una gay parade. Ma dal punto di vista della religione ci sono molti passi da fare, e l’idea che una persona possa essere omosessuale ma anche osservante dal punto di vista religioso fatica ad arrivare ai rabbini. HOD - 2008 Ron Yosef, un rabbino omosessuale della città costiera di Netanya, ha creato l’associazione Hod, acronimo ebraico per “Omosessuali religiosi”. Sebbene Yosef rigetti l’idea che i gay debbano essere “curati”, insiste sul fatto che le leggi ebraiche vanno rispettate. La bibbia prevede che sia proibito il sesso e il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Altre associazioni di questo tipo sono Havruta (amicizia) e Kamoha (mi piaci). Una caratteristica comune a tutti questi gruppi è la presenza massiccia su Internet con forum, newsletter, chat e librerie online. Le cose stanno cambiando, per fortuna.



«TUTTI SONO PREOCCUPATI PER IL FUTURO DEL PIANETA. VIVRÀ BENISSIMO CON O SENZA DI NOI»: Brian Berkowitz ( (WEIZMAN (INSTITUTE) DA TEL AVIV
«Il termine "cleantech" è nato soltanto nel 2002. I venture capitalist di tutto il mondo hanno subito detto: «È la nuova internet». Investimenti dei privati e dei governi, ricerca e tecnologie per la produzione di energia con il minor impatto possibile sull'ambiente hanno reso il concetto molto popolare. Nel 2011 c'è anche una nuova priorità: il "water management". La scarsità di acqua non è un problema futuro, c'è già. In California, in parte dell'Australia, in Africa, in Medioriente, persino in Europa non c'è Paese che non abbia problemi in alcuni periodi dell'anno». Depurazione, messa in sicurezza, software per la gestione e il monitoraggio della rete idrica, desalinizzazione, irrigazione intelligente: diamo l'acqua per scontata ma la sue gestione è un lavoro complesso e ad alta tecnologia. «Non è la nuova internet: ha tempi di ritorno degli investimenti molto più lunghi – continua Assaf Barnea, ceo di Kinrot ventures, il più grande incubatore al mondo dedicato a start-up attive nella gestione delle acque e cleantech – ma dal 2004, quando colossi come Ge e Siemens hanno deciso di entrare nelle tecnologie per la gestione delle acque, si è attivato il venture capital e altri colossi, come Ibm». Nella palazzina di Herzlya, a nord di Tel Aviv, dove ha sede Kinrot, ci sono gli uffici di 12 aziende che si stanno per affacciare sul mercato. Non è un caso che il primo incubatore specializzato sia nato in Israele. L'emergenza idrica qui è una realtà da decenni e la gestione delle acque ha una lunga tradizione che ha seguito l'ambizione di «far fiorire il deserto» (made the desert bloom). Qui è nato uno dei sistemi di irrigazione più efficienti al mondo, noto come "drip irrigation", che arriva alla singola pianta senza sprechi. È adottato in tutto il mondo grazie a Netafim, che commercializza i suoi prodotti dal 1965 e oggi è una multinazionale con sede nel verdissimo kibbutz Hatzerim. Israele ricicla il 75% delle acque, riutilizzandole per l'agricoltura. La grande centrale Shafdan, a Rishon LeZion, tratta le acque municipali e industriali con un lungo procedimento e un percorso di tubi e vasconi, dove microbi e batteri separano gli elementi contaminati dall'acqua, che poi viene utilizzata per irrigare. Il programma nazionale Israel NewTech punta a raddoppiare l'export delle aziende del settore, promuovere la ricerca e le partnership. «Dell'acqua sappiamo che arriva e che va, ma nulla di più – dice Benjamin Levy, responsabile marketing e business development di Miltel – il nostro sistema ti informa fino a sei volte al giorno su quanto stai consumando, portando a un risparmio del 15 per cento». Ci sono poi i sistemi digitali per la sicurezza: «Monitoriamo in tempo reale la tossicità della acque: vengono contaminate non solo per fini terroristici, anzi, più spesso succede per errori o vandalismo» aggiunge un tecnico di Whitewater. La desalinizzazione delle acque marine entro il 2013 darà acqua potabile al 35% del Paese. Il maxi impianto di Ashkelon, della Ide technologies, è il secondo più grande al mondo e si basa sull'osmosi inversa. Ashkelon ha una capacità di 118 milioni di metri cubi di acqua all'anno «con il risultato più economico mai raggiunto: 52-3 centesimi di dollaro per metro cubo – spiega Ezra A. Barkai, desk manager Europa e Africa di Ide –. Il sale che estraiamo torna in mare». L'osmosi inversa separa l'acqua dal sale sparandola a fortissima pressione dentro membrane semipermeabili. Il risultato è un bicchiere d'acqua potabile. luca.salvioli@ilsole24ore.com http://www.ilsole24ore.com/



AVERE BUON RAPPORTO COI COLLEGHI ALLUNGA LA VITA
Stampa Invia questo articoloWashington - Avere un buon rapporto con i colleghi sul lavoro potrebbe aiutare a vivere piu' a lungo. Lo afferma uno studio su 820 uomini e donne pubblicato su 'Health Psychology' dell'American Psychology Association. I legami positivi con i colleghi, in particolare, sono risultati piu' importanti per una vita piu' lunga soprattutto tra le persone di eta' compresa tra i 38 e i 43 anni. Tuttavia, i rapporti positivi con i propri superiori non hanno alcun effetto sulla mortalita'. Per arrivare a queste conclusioni la ricerca, condotta da un gruppo di ricercatori dell'Universita' di Tel Aviv, in Israele, e' durata oltre 20 anni (tra il 1988 e il 2008). I casi di studio analizzati hanno coinvolto uffici diversi: da quelli che si occupano di assicurazioni a quelli dei servizi pubblici e della sanita' fino alle imprese di produzione dove si lavora in media 8,8 ore al giorno. Un terzo dei partecipanti era 'donna' e l'80 per cento sposato con figli. I risultati hanno mostrato che la longevita' maschile e' aumentata rispetto al potere decisionale che si ha in ufficio: piu' si ha controllo e piu' e' lunga la vita. Le stesse responsabilita' pero' sono risultate avere un effetto diametralmente opposto nelle donne.http://salute.agi.it/







Riaperta l'ambasciata israeliana al Cairo
Mercoledì 18 Maggio 2011 http://www.focusmo.it/Israele riapre l'ambasciata del Cairo dopo le violente proteste che hanno segnato il giorno della Nakba. L'ambasciata è stata riaperta il giorno successivo ai disordini, mai stati così gravi da quelli che seguirono l'accordo di pace Israelo -Egiziano nel 1979. L' Istituto diplomatico era stato chiuso preventivamente da Israele, venuto in anticipo a conoscenza edile intenzioni dei manifestanti. Un portavoce del ministro degli esteri a Gerusalemme che ha preferito mantenere l'anonimato, ha annunciato che le vie di comunicazione tra Il Cairo e Gerusalemme resteranno aperte.



Armeni, parlamento Israele rende omaggio a vittime massacri
Mercoledì 18 Maggio 2011 http://www.lunico.eu/
Alla presenza delle autorità religiose armene di Gerusalemme, la Knesset (parlamento) israeliana ha reso oggi omaggio al popolo armeno per il genocidio perpetrato ai suoi danni all'inizio del secolo scorso in Turchia sotto il governo nazionalista dei 'giovani turchì. Presentata dal partito di sinistra Meretz (opposizione) la mozione di ordine è stata sostenuta da tutti i deputati presenti in aula: dal presidente della Knesset (Reuven Rivlin, Likud), al deputato di estrema destra Arie Eldad (Unione Nazionale) fino al parlamentare comunista Dov Hanin. Tutti hanno rilevato con tono accorato che proprio da Israele - dove palpita il ricordo della Shoah - deve partire un messaggio inequivocabile che il genocidio armeno «non può essere dimenticato o negato, per ragioni di convenienza politica». «Per troppi anni - ha esclamato la parlamentare Zahava Galon (Meretz) - i governi israeliani hanno preferito adottare la posizione turca, e sacrificare così il ricordo del genocidio armeno sull'altare di interessi stretti di politica estera». Rivlin ha quindi ribadito che da un lato «Israele ha l'obbligo morale di ricordare e di far ricordare la tragedia armena» e che dall'altro «ciò non significa assolutamente addossare colpa alcuna alla Turchia moderna, e tanto meno al governo attuale» di Ankara. Israele - ha sottolineato Rivlin - è «vivamente interessato ad intrattenere con la Turchia rapporti di amicizia», anche se nell'ultimo anno c'è stato un deterioramento dei legami. Erano molto solidi in passato, e dunque tali da indurre i governi israeliani ad un atteggiamento cauto. Adesso, a quanto pare, anche i partiti di governo si sentono più liberi di esprimersi sulla questione armena. A nome del ministero degli esteri il ministro (per i culti) Yaakov Marghi ha fatto rilevare che negli ultimi anni si è aperto un dialogo diretto fra Turchia ed Armenia e che Israele, da parte sua, si augura che esso sia aperto e serva a delucidare gli aspetti storici della tragedia. Al termine del dibattito i deputati hanno deciso di approfondire la questione in commissione e hanno ipotizzato di istituire in futuro in Israele una giornata nazionale in ricordo del genocidio armeno.








Razzismo antiarabo in Israele? (ebriaco + sottotitoli inglese)


VIDEO:http://www.youtube.com/watch?v=KvdQite8rww&feature=player_embedded

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da Barbara




Il bagno rituale Faye Kellerman
Traduzione Piero Alessandro Corsini Cooper Euro 17,50
E’ un viaggio affascinante nel mondo ebraico, nei mille aspetti che lo compongono e che si rivelano al lettore pagina dopo pagina offrendogli l’opportunità di conoscere e approfondire una cultura ancora sconosciuta a molti, ma anche di riflettere sul significato delle regole etiche e comportamentali che guidano la vita degli ebrei, in particolare quelli ortodossi. “Il bagno rituale” di Faye Kellerman è un mistery imperdibile: una storia che si legge d’un fiato grazie ad una trama avvincente sostenuta da una scrittura molto piacevole e da uno stile narrativo incalzante.
L’autrice, ebrea religiosa americana che osserva le regole alimentari della kasherut e della purezza, è una scrittrice molto apprezzata negli Stati Uniti e i suoi gialli hanno venduto 10 milioni di copie entrando nelle classifiche del New York Times. Insieme al marito Jonathan Kellerman forma la coppia d’oro della fiction americana contemporanea: se il marito si occupa del dottor Delawere, psicologo infantile che ad ogni romanzo viene coinvolto in un caso complicato di competenza della polizia di Los Angeles, la moglie Faye ha dato vita ad una serie indipendente di cui questo romanzo, pubblicato per la prima volta in Italia, costituisce l’episodio iniziale. L’incontro fra i due protagonisti, Rina Lazarus, giovane vedova devota all’ortodossia ebraica che colpisce con il suo fascino il detective Peter Decker della polizia di Los Angeles (“…C’era qualcosa di classico nel suo volto: la forma ovale, la pelle cremosa, la bocca piena e morbida, gli occhi di un blu mozzafiato”) avviene sullo sfondo di uno stupro e di un omicidio. In una notte d’estate particolarmente afosa nel quartiere ebraico ortodosso, la Jewtown dell’immensa città di Los Angeles, poco lontano dalla mikvah - la vasca utilizzata per il bagno rituale delle donne - viene stuprata Sarah Libba ed è proprio Rina Lazarus a trovarla “incrostata di sporco…con il piccolo volto bagnato …gli occhi fuori dalle orbite e il respiro affannato e vuoto”. Il detective Decker, un omone dai capelli rossicci, occhi scuri e penetranti, già alla prese con un sadico stupratore di Foothill, rimane interdetto da quella chiamata. Uno stupro a Jewtown? Nel quartiere più calmo e tranquillo di tutta Los Angeles, dove gli americani non arrivano mai e gli ebrei vivono nel più completo e tranquillo isolamento? Peter Decker - aiutato da Marge Dunn e da Michael Hollander, i tre moschettieri della divisione minorile e dei reati sessuali - non ha mai avuto a che fare con un caso analogo: nessun indizio, nessun testimone e fin dal principio nessuna pista da seguire. Solo Rina Lazarus insegnante nella Yeshivà, centro di studi della Torah e del Talmud, è disposta ad aiutare il detective, sebbene il contatto con un goy, un non ebreo, scateni nel suo animo rovelli e profonde inquietudini. Il detective Decker, e con lui il lettore, entra in un mondo affascinante ma enigmatico: ombre fuggenti, rumori inspiegabili preoccupano Rina e fanno vacillare la sua straordinaria forza d’animo, il caso diventa sempre più inspiegabile, così come le leggi non scritte che regolano la vita degli ebrei del quartiere ortodosso con le quali il poliziotto deve confrontarsi. Tra i due protagonisti nasce piano piano un sottile legame, fatto di attrazione fisica e desiderio di collaborare al successo di un caso difficile. Entrambi soli, Rina dopo la morte per un tumore al cervello del marito Yitzchak, mente brillante dal cuore d’oro, e Peter dopo il divorzio dalla moglie Jan trovano l’uno nell’altra un affetto e un sostegno che però non può trasformarsi in amore perché ad una ebrea ortodossa non è consentito frequentare un goy, una persona “diversa” che non condivide una fede così totalizzante. Seppur viva in un mondo un po’ isolato all’interno della Yeshivà, Rina frequenta per lavoro molti studenti e insegnanti ed è su di loro che Peter Decker concentra la sua attenzione per carpire informazioni e segreti che possono essergli sfuggiti ad un primo esame. E lì incontra Moshe Feldman, che dopo l’abbandono della moglie, è andato in tilt e benché sia fra gli indiziati per la sua abitudine di vagare nei boschi, è anche un sospettato impossibile da mettere sotto torchio perché con “uno schizofrenico le tecniche abituali di interrogatorio” non possono funzionare; Shlomo Stein, con un passato inquietante che aveva cercato più volte di uscire con Rina ha un alibi perfetto per la notte dello stupro, avendo partecipato ad una discussione sul Talmud con altre persone; Matt Hawthorne, insegnante di inglese e storia, anch’egli invaghito di Rina e decisamente nervoso dinanzi al detective, aveva trascorso quella sera leggendo un libro; Steve Gilbert, insegnante di fisica, “niente affatto nervoso per la presenza della polizia” aveva trascorso due anni nell’esercito, di cui dieci mesi in Vietnam come impiegato. “Gilbert era al Campus ogni giovedì sera, per il Computer Club, fino alle dieci di sera. La sera dello stupro era un giovedì….” Il caso già difficile si complica ulteriormente con il brutale assassinio della vigilante, un donnone di colore che il Rosh Yeshivà, il rabbino Schulman, aveva assunto a protezione delle donne. Chi può volere la morte di Florence Marley, “una carnagione color caffè, un temperamento amichevole” che si era fatta apprezzare dalle donne della Yeshivà non solo per le buone ricette che conosceva ma soprattutto per il senso di sicurezza che offriva? E quest’ultimo efferato omicidio è collegato con lo stupro di Sarah Libba?
Nel corso delle indagini spunta il nome di Cory Schmidt, un giovane antisemita già noto alla polizia per atti di aggressione, dedito alla cocaina e all’alcol le cui impronte digitali vengono ritrovate su un coltello fatto pervenire in modo anonimo alla polizia: il coltello con il quale è stata sgozzata Florence Marley. Qual è il suo ruolo nell’intera vicenda? Mille interrogativi affollano la mente del detective e l’indagine si fa pagina dopo pagina sempre più serrata fino all’inatteso e terrificante finale che tiene il lettore col fiato sospeso fino all’ultimo e alla scoperta di un segreto inimmaginabile cha avvolge l’esistenza del detective Decker e il cui unico depositario sarà l’arguto e intelligente rabbino Schulman. “Il bagno rituale” non è solo un thriller denso di suspense, affascinante e misterioso, un intreccio da brivido narrato con una prosa incalzante e raffinata ma è soprattutto un romanzo da cui si può imparare molto “sulle diverse interpretazioni dell’ebraismo, sull’urgenza di ragionare sulle proprie radici come punto di riferimento per un’esistenza che abbia significato, sui pericoli che continuano a nascondersi nell’eterna tentazione al pregiudizio e agli stereotipi”, quell’ antisemitismo che pervade la società americana e si infiltra come un veleno nell’animo dei giovani. Con questo romanzo, solo in apparenza di evasione, Faye Kellerman ci offre uno straordinario spaccato del mondo ebraico dove convivono ebrei ortodossi come la protagonista Rina Lazarus ma anche “ebrei moderni” come i genitori di Rina oltre agli ex suoceri di Decker che “nell’ansia di assimilazione sembrano quasi aver ripudiato origini e tradizioni”. La lettura di questo libro è anche l’occasione per riflettere sul difficile dialogo tra laicità e trascendenza, sulle tensioni razziali e sulla violenza che esplodono quando l’intolleranza e l’odio si infiltrano nei rapporti umani. Dal punto di vista letterario infine l’autrice delinea con grande sapienza narrativa caratteri e situazioni imprevedibili, sullo sfondo della complessa società americana, dando prova di un talento fuori dal comune che la colloca a pieno titolo “nel solco di una tradizione che ha trasformato la divulgazione in arte, e la narrativa popolare in genere classico”. Giorgia Greco



Auditorium Roma



Napolitano devolve premio Dan David a orchestra di Barenboim
Con musicisti israeliani, palestinesi e arabi opera per pace
Roma, 18 mag. (TMNews) - Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha deciso di devolvere l'importo del premio Dan David ricevuto domenica a Tel Aviv all'Istituto "West-Eastern Divan", nato dall'esperienza dell'orchestra - diretta da Daniel Barenboim - composta da giovani musicisti israeliani, palestinesi e arabi, e attivamente operante nel segno del dialogo umano e culturale per la pace. Lo comunica una nota della Presidenza della Repubblica.



Cannes: il regista Von Trier è “persona non grata”
Il regista danese Lars Von Trier è stato dichiarato dalla direzione del Festival di Cannes persona non grata e di conseguenza pregato di allontanarsi dalla più prestigiosa manifestazione cinematografica europea. Il procedimento, che non esclude dalla competizione il suo film Melancholia, è stato assunto a seguito delle affermazioni di Von Trier che sembravano manifestare una simpatia nei confronti di Adolf Hitler. http://www.moked.it/



Uomini simpatici
Il regista Lars Von Trier è uno di quegli uomini spiritosissimi le cui battute hanno la leggerezza di uno scaffale con tremila libri che piomba sul pavimento. Durante la recente conferenza-stampa a Cannes, dove presentava "Melancholia", il suo allegro film sulla fine del mondo, ha detto di trovare simpatico Hitler quando è nel bunker - sottintendendone il suicidio. In effetti, la morte è l'unico momento della vita di Hitler che riscuota un consenso allargato, ma è probabile che definendo il Furher simpatico, Von Trier alludesse all'etimo greco di simpatia, condizione in cui proviamo sentimenti di forte vicinanza con qualcuno. Poi il regista non ce l'ha con gli ebrei: lo ha precisato nelle fulminee scuse di prammatica. Anzi, oltre a Hitler gli sono molto simpatici proprio gli ebrei. Sinceramente, non è chiaro che volesse dire e a questo punto non si capisce da quale greppia si serva. Tuttavia, non roviniamoci questo bel momento: la conferenza stampa è stato un
fuoco d'artificio, soprattutto quando l'artista ha detto nel suo caratteristico inglese da fattoria danese che Israele è "a pen in the ass" (un pene nel culo). Volendo sottilizzare, la vita è curiosa. Un altro hitleriano magari avrebbe detto che Israele lo infastidisce come una mosca, come un creditore, o una piattola. Von Trier non può: è un regista pornografico e il lavoro è lavoro. Lui è uno che quando gira una scena prima la prova di persona, come quella volta con l'elefante. Se ha detto così sapeva perfettamente di cosa stava parlando. Noi non possiamo neanche immaginare il suo immenso dolore. Il Tizio della Sera,http://www.moked.it/



Un falafel gigante vince il Guinnes dei primati
Un falafel gigante, la polpetta di ceci con prezzemolo, cipolla e spezie, piatto tipico della cucina mediorientale, ha conquistato il nuovo record del Guinnes dei primati battendo quello precedente ottenuto da un cuoco israeliano a New York, che aveva cucinato un falafel del peso di circa 11 chili. L'enorme falafel (circa 24 chili) è stato cucinato per il Santa Clarita Valley Jewish Food and Cultural Festival, grande evento dedicato alla cucina ebraica, che si svolge annualmente in California attestandosi come il più grande al mondo nel suo genere. Le norme vigenti in materia sanitaria hanno impedito però la degustazione della polpetta. Dawn Walker, questo il nome dell'audace cuoco che ha realizzato l'impresa, aveva già fatto un tentativo allenandosi due settimane prima e realizzando un falafel del peso di 22 chili. Gli organizzatori del Festival, ospitato quest'anno dal tempio Beth Ami, dalla Congregazione Beth Shalom e dalla Comunità Chabad, avevano pensato a quali nuovi record battere prima di concentrarsi sulla palla di falafel: "Abbiamo persino pensato a un pallone di matzah," ha rivelato Sandi Hershenson, presidente della manifestazione . L'evento è stato organizzato in concomitanza con la tredicesima edizione della Big Sunday, giornata dedicata all'impegno per la Comunità. Lo scorso anno la manifestazione ha visto la presenza di circa 1500 partecipanti ma si ritiene che quest'anno vi sia stata una partecipazione ancora più massiccia. Tutti i partecipanti al festival sono stati invitati ad aiutare a mescolare il composto con le mani, "Se duemila persone metteranno le mani dentro, non so chi avrà voglia di assaggiarlo una volta cotto", aveva osservato Hershenson qualche giorno prima della manifestazione. La palla è stata fritta e poi messa al forno per assicurarsi che fosse completamente cotta, un requisito indispensabile per partecipare al Guinness. http://www.moked.it/





Yosef Haim Yerushalmi, il profilo
Yosef Haim Yerushalmi (1932 - 2009) è nato a New York in una famiglia originaria della Russia. Il padre era un insegnante di ebraico. Diplomatosi alla Yeshiva University, nel 1966 conseguì il dottorato alla Columbia University. Insegnò Storia ebraica a Harvard e poi, dal 1980 al 2008, fu docente alla Columbia di Storia e cultura ebraica. In questo ruolo successe a Salo Baron, che era lo aveva seguito nella sua tesi di dottorato. Tra i suoi lavori più importanti si segnalano History and Jewish Memory del 1996; Freud’s Moses: Judaism Terminable and Interminable del 1993; Haggadah and History del 1975 e From Spanish Court to Italian Ghetto del 1971. Un volume di grande importanza, quest’ultimo, dedicato alla vicenda dei marrani e dei conversos. Da Giuntina, accanto alla riedizione di Zakhor, è anche disponibile Assimilazione e atisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco. Pagine Ebraiche, maggio 2011




Gerusalemme - suoni e luci
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è senza dubbio un amico sincero dello Stato d'Israele e degli ebrei. Lo ha reiterato esplicitamente nei suoi interventi pubblici nel corso degli ultimi anni, e lo ha dimostrato nel corso delle sue ripetute visite in Israele - fra l'altro al Tempio Italiano a Gerusalemme lunedì. Il Presidente è anche un convinto sostenitore della pace fra israeliani e palestinesi, e certo per questo ha deciso di devolvere l'importo del premio Dan David, ricevuto domenica a Tel Aviv, all'Istituto "West-Eastern Divan", nato dall'esperienza dell'orchestra diretta da Daniel Barenboim e composta da giovani musicisti israeliani e palestinesi. Giorgio Napolitano, durante la sua visita all'Autorità palestinese a Ramallah, ha annunciato la elevazione della delegazione palestinese a Roma al rango di missione diplomatica, e al rango di ambasciatore del rappresentante. Ora ci sarà chi vorrà vedere in questo un atto ostile nei confronti di Israele. Il fatto è che questa è oggi la posizione degli amici, che si distingue nettamente da quella dei nemici. I nemici - e sono molti nel Medio Oriente come in Europa - non vogliono saperne dell'esistenza di Israele. Gli amici, invece, vogliono fortemente l'esistenza e la sicurezza di Israele - accanto a uno Stato palestinese. Non vi è oggi praticamente nessuno al mondo - a parte alcuni settori del collettivo ebraico in Israele e nella Diaspora - che avochi l'esistenza di un solo Stato (ebraico) fra la costa del Mediterraneo e il fiume Giordano. Il fatto che un amico sincero di Israele e del popolo ebraico, come Giorgio Napolitano, possa prendere decisioni come quelle che ha preso questa settimana dovrebbe accendere una lampadina rossa nella stanza dei bottoni del governo di Bibi Netanyahu. E dovrebbe indurre a una seria riflessione sul come Israele possa recuperare l'iniziativa nella grande politica, iniziativa che al momento attuale è totalmente nelle mani degli altri. Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemmehttp://www.moked.it/




Gerusalemme Mahane Yehuda Market
In questo video viene spiegato anche dai musulmani che Gerusalemme ed Israele appartiene agli EBREI e non ha nulla a che fare con i musulmani.

VIDEO: http://youtu.be/xU9CauJP4Pg



da Rosanna










Obama pensa a uno Stato palestinese entro i confini antecedenti il '67
Forte attesa per il discorso che il presidente Usa Barack Obama terrà in settimana sulla situazione in Medio Oriente. Due i punti-chiave contenuti nella bozza di testo anticipata dal quotidiano israeliano di Tel Aviv Yedioth Aharonot. “Si' a uno stato palestinese entro i confini dei Territori israeliani nel 1967. No alla richiesta unilaterale di riconoscimento dinanzi all'Onu di questo stato”. http://www.moked.it/



Neghev

Voci a confronto
Dopo gli avvenimenti dei giorni scorsi che hanno riempito molte pagine dei nostri quotidiani, credo che sia opportuno riflettere anche su quanto in Italia non abbiamo potuto leggere. In Francia Bernard Henry Levy, i cui articoli vengono spesso tradotti in italiano, ha pubblicato una interessante analisi sugli accordi firmati tra Fatah e Hamas; troppi nostri commentatori hanno preferito esaltare la “pace” firmata al Cairo, e questa potrebbe essere la ragione della mancata pubblicazione delle sue parole. E mentre Tsahal e polizia israeliana dovevano domenica far fronte a duri attacchi, solo in parte previsti, in Israele alcuni rappresentanti dell’estrema sinistra ebraica scendevano in strada gridando: “Barak assassino, l’intifada vincerà”. Erano pochi, certo, ma queste parole meritano una attenta riflessione, e magari vanno accompagnate dalle dichiarazioni di alcuni drusi, testimoni diretti degli scontri avvenuti sulle frontiere con la Siria e col Libano, che hanno affermato: “la calma manifestata da Tsahal oggi è quel che ha permesso di avere la pace questa sera”, “l’esercito israeliano ha avuto l’intelligenza di essere tollerante e di evitare che la situazione peggiorasse”, ed infine: “non ho visto che una decina di soldati di fronte a migliaia di manifestanti”. Sono tutte parole, queste, che i corrispondenti dei nostri media hanno preferito trascurare. Quella che stiamo vivendo potrebbe essere un’altra settimana cruciale per il Medio Oriente; ieri re Abdallah II ha incontrato Obama, ed ora, nell’attesa del nuovo meeting Obama-Netanyahu, si cerca di indovinare sia quello che il presidente americano dirà in un suo prossimo discorso molto atteso (ed anche in un nuovo incontro già fissato con le grandi associazioni ebraiche americane), sia quello che il primo ministro israeliano dirà nel suo intervento al Congresso. Utile è inoltre leggere l’articolo firmato da Mahmoud Abbas su Herald Tribune, egli stesso “profugo obbligato a lasciare la sua casa di Safed quando aveva 13 anni”, e ci si renderà forse conto di quanto sia comunque difficile prevedere reali progressi in questo momento. Queste sembrano essere anche le opinioni di David Miller in un articolo pubblicato ancora su Herald Tribune. Anche dopo la lettura di un editoriale pubblicato su L’Osservatore Romano il lettore dovrà arrivare alle stesse conclusioni: se infatti nessuna delle sei condizioni poste da Netanyahu per arrivare a risolvere il conflitto, neppure la seconda, che dice testualmente: “Un accordo di pace deve porre fine al conflitto e alle richieste dei Palestinesi”, è accettabile per il negoziatore Erekat, è evidente la ragione del pessimismo di molti. Della visita del re giordano alla Casa Bianca riferisce attentamente anche Liberal; Obama sarebbe disponibile a benedire il recente accordo tra Fatah e Hamas, ma non sarebbe ancora favorevole alla auto-proclamazione in sede ONU dello Stato di Palestina, con diretto collegamento alle linee-confine del ‘67. Oggi il re giordano sembra essere l’unico fidato alleato arabo rimasto agli USA, ma dovrebbe riflettere sul rischio che tale situazione possa cambiare repentinamente (ndr); lo dimostrano anche le improvvise dimissioni del negoziatore Mitchell, trovatosi abbandonato dal proprio presidente e circondato da un’amministrazione troppo divisa al suo interno. Vincenzo Nigro pubblica su Repubblica un’intervista a el-Arabi, ministro degli esteri egiziano e da due giorni anche segretario generale della Lega Araba; sostiene il diplomatico, nel silenzio consenziente dell’intervistatore, che anche Hamas avrebbe accettato responsabilmente che ci siano negoziati con Israele, pur ammettendo che qualcuno possa essere contrario a ciò. Non una parola gli viene detta da Nigro su quanto sta scritto nello Statuto di Hamas né su quanto dichiarato ancora nei giorni scorsi dai massimi dirigenti di Hamas. El-Arabi sostiene che per Israele trattare con Fatah e Hamas insieme significa riunire in un solo blocco la controparte, e questo dovrebbe assicurare maggiori garanzie di risultati certi con le trattative. Che poi Hamas sia contrario alle trattative è meglio dimenticarlo. L’utilità di questo accordo tra Hamas e Fatah è sostenuta anche da Yasser Rabbo, intervistato da De Giovannangeli su L’Unità, che, per di più, si lascia andare a dichiarazioni del tipo: le recenti rivolte portano democrazia e giustizia, e se alla fine Israele non accetterà di trovare un accordo si cercheranno altre vie non violente. Sarebbe bello per tutti se questa fosse la realtà… Lontano dalla realtà nel suo insieme appare anche Sergio Romano che sul Corriere risponde alla domanda di un lettore che chiede lumi su quanto sta succedendo in Siria e sulle differenze tra il trattamento riservato a Gheddafi e ad Assad. Non sono false le parole di Romano, ma non spiegano in toto la realtà, e verrebbe voglia di suggerire al suo lettore di leggere, sullo stesso tema, quanto scrive Pio Pomba sul Foglio: la politica pericolosissima portata avanti dall’Iran spiega molti degli avvenimenti delle passate settimane, ma ci si ostina tutti a far finta di non vederlo. Pomba arriva addirittura, con frase ad effetto, a chiamare Nakba la missione internazionale in Libia, che di semplice imposizione di no fly zone ha davvero poco. Anche Raineri e De Biase scrivono degli avvenimenti libici, ancora sul Foglio, e nel loro articolo si trova anche un interessante accenno a quanto succederà con le elezioni del 24 luglio in Tunisia: vi è un concreto rischio di una vittoria, anche là, dei fondamentalisti, e magari, subito dopo, di un golpe militare. Manlio Dinucci sul Manifesto descrive, con nessun elemento concreto a sostegno delle sue parole, una struttura paramilitare americana che, con enormi mezzi economici, starebbe allenandosi negli Emirati per proteggere con la forza gli interessi occidentali nel Medio Oriente. Laurent Zecchini per Le Monde visita un villaggio arabo vicino a Gerusalemme, Lifta, abbandonato dai suoi abitanti nel ‘48; Zecchini usa parole a effetto per descrivere la dolce vita rupestre distrutta dagli israeliani, e, nello stesso tempo, nasconde gli orrori imposti agli stessi profughi palestinesi dagli amici arabi che li tengono rinchiusi, privi di diritti, in campi profughi. Si arriva, in questo articolo, a fare un parallelismo tra l’insegnamento della Shoah e quello della Nakba, proibito dagli israeliani, che dovranno, alla fine, guardarsi nello specchio ed ammettere la grave colpa legata alla nascita del loro Stato. Altro argomento, in chiusura, troviamo trattato su Avvenire che, richiamando anche un articolo firmato dall’Ambasciatore Sergio Minerbi su Pagine Ebraiche, parla di “promozione” del Papa da parte degli ebrei. Emanuel Segre Amar 18 maggio 2011http://www.moked.it/



Rehovot - casa di Weizmann

Nakba e Nakba bis
Le esili, ingenue speranze (“spes contra spem”, avrebbe detto Sant’Agostino) che la cosiddetta “primavera araba” avrebbe finalmente aperto uno spiraglio di luce anche sull’impervio terreno delle prospettive di pace in Medio Oriente, dunque, sono durate il breve spazio di un mattino. Le dotte argomentazioni costruite, per esempio, sul piccolo dato di fatto che nelle piazze non si sarebbero viste bruciare le bandiere israeliane (che evento eccezionale!) si sgonfiano come palloncini; le tristi, facili profezie delle varie Cassandre, che temevano che si sarebbero presto rimpiante le plumbee dittature vitalizie dei vari Mubarak e Ben Alì, sembrano avere colto nel segno. Lo spettacolo delle marce “spontanee” dei cosidetti “profughi palestinesi”, mosse nei giorni scorsi contro i confini dell’odiatissimo Israele, sembrano infatti seppellire anche la più azzardata, la più estrema e irrealistica delle illusioni, frantumando qualsiasi miraggio di pace, la più pallida ipotesi di una pur minima possibilità di ragionamento, di dialogo. Coloro che sono andati a premere contro i confini di Israele, cercando di entrarvi con la forza (non importa su suggerimento di chi, seguendo quali impulsi o strategie), non chiedevano allo stato ebraico di smantellare qualche colonia, di modificare qualche comportamento o di spostare qualche linea di demarcazione. Chiedevano a Israele, semplicemente, di non esistere, ribadendo il semplice, elementare messaggio espresso dalle annuali celebrazioni della “Nakba”, la “catastrofe”. Su quanto sia piacevole vivere fianco a fianco con qualcuno che considera la tua esistenza la più grande sciagura della storia, tanto da eleggere il tuo compleanno a giorno di lutto disperato, c’è poco da dire. Così come siamo tristemente abituati all’interpretazione di tali gesti (tristi e sgradevoli quanto si vuole, ma tutt’altro che ermetici) da parte dei mass media e dei commentatori politici, che sembrano ridurli a meri umori o stati d’animo, spesso dimostrando aperta simpatia di fondo per i manifestanti, che agirebbero in risposta a sopraffazioni subite, o sarebbero mossi da ideali di libertà, giustizia, pace, autodeterminazione ecc. Ci sarebbe, forse, bisogno di ripetere che il 14 maggio del 1948, il giorno della Nakba, era il giorno in cui avrebbe dovuto nascere anche lo Stato palestinese, soffocato sul nascere dagli eserciti di cinque nazioni arabe? Chi celebra la Nakba, in realtà, non maledice soltanto la nascita di Israele, ma anche la stessa idea dell’eventuale nascita di una Palestina libera, indipendente e sovrana. Eppure, i palestinesi dicono di desiderare ardentemente di “nascere”, come stato sovrano. Sono talmente impazienti che hanno detto alla loro ‘madre’ designata, l’Assemblea Generale dell’ONU - che, per ora, custodisce amorevolmente in grembo l’embrione - che, a settembre, comunque vada, senza stare a sentire nessun medico e nessuna ostetrica, “nasceranno”. Ma già si sa, purtroppo, che sarà una nascita mancata, impedita: una “non nascita”, proprio come quella del 1948. A tutti gli effetti, una “Nakba bis”. Francesco Lucrezi, storico, http://www.moked.it/

giovedì 19 maggio 2011



Ahava: la nuova cosmesi arriva da Israele
Si tratta di un luogo particolare, un’oasi nel bel mezzo del deserto, un lago salato davvero unico caratterizzato da un litorale fangoso contentente la più grande concentrazione di minerali utili ad idratare l’epidermide, alghe che rallentano l’invecchiamento della pelle e piante con effetti lenitivi. L’azienda è internazionalmente riconosciuta e rinomata per l’efficacia dei suoi prodotti formulati con il fattore MSO, 'Osmotico Minerale per la Pelle', una combinazione ricca di principi attivi in grado di stimolare il naturale ricambio cellulare cutaneo. La soluzione altamente concentrata permette alle cellule della pelle di ricevere i massimi benefici fisiologici. Il Mar Morto, vera e propria SPA naturale, è meta molto frequentata sin dall'antichità per chiunque volesse prendersi cura del proprio corpo e anche oggi continua a riscuotere enorme successo. La AHAVA SEA Laboratories, grazie ai suoi ricercatori, è dal 1988 che studia e utilizza gli ingredienti di questo luogo: macro elementi come Magensio, Calcio e Potassio, e oligoelementi tra cui, Stronzio, Boro, Manganese e Ferro. La ricerca ha messo a punto prodotti realmente efficaci che, grazie al supporto di adeguati test clinici, sono stati confermati in modo indipendente da quotate riviste scientifiche che dimostrano gli effetti rivitalizzanti, riequlibranti, rassodanti e idratanti di questi minerali e piante contenuti nei prodotti cosmetici. 17 maggio 2011 http://lei.excite.it/



L’economia israeliana, da fare invidia a Tremonti
Napolitano in Israele ha visitato un Paese che ha un’economia dinamica, da fare invidia a Tremonti. Secondo dati forniti dall’Ocse, Israele è stato l’ultimo di ventinove Stati ad essere colpito dalla crisi nel quarto trimestre del 2008 e uno tra i primi a uscirne. Nei primi tre mesi dell’anno il Pil è cresciuto del 4,7%. Le ragioni sono diverse fra cui un grande governatore come Stanley Fischer, il ruolo dell’immigrazione e anche la forte spesa militare. Il risultato è che il Paese conta più società sul Nasdaq di tutte quelle di Europa, Cina, Corea, Giappone, India e Singapore messe assieme.
GERUSALEMME - Nel 2011, a quasi tre anni dal fallimento della Lehman Brothers - evento simbolo della crisi finanziaria mondiale - la maggior parte delle economie mondiali si trovano arenate in difficili e lenti processi di ripresa i cui risultati sembrano ancora lontani. La globalizzazione e il rapido espandersi dei modelli capitalisti hanno creato un effetto a catena che ha colpito ogni stato coinvolto nel mercato globale. Uscire dalla crisi è tuttavia apparentemente possibile, e l’economia israeliana ne è forse il maggiore esempio. Nato e sviluppatosi su un’economia neo-socialista, lo stato di Israele si è poi stabilizzato su basi prettamente capitaliste, trasformandosi velocemente in un paese ad alto sviluppo economico. Tale sviluppo ha raggiunto i migliori riconoscimenti nel 2010 con l’entrata di Israele nell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) e la nomina del governatore della Banca Centrale di Israele, Stanley Fischer, quale “Miglior governatore di Banca del Mondo” da parte di Euromoney. Negli anni succesivi alla crisi del 2008, Israele ha infatti attirato l’attenzione degli esperti internazionali per la sua rapida ed efficace reattività alla crisi economica e la sua capacitàdi ridurre al minimo i danni che hanno scosso le maggiori economie mondiali. L’eccezionalità dell’economia israeliana è divenuta argomento riccorente nelle analisi del Fondo Monetario Internazionale e gli esperti prevedono che un crescente numero di investitori istituzionali internazionali sceglieranno il mercato Israeliano per i loro investimenti futuri. Secondo dati forniti dall’Ocse, Israele è stata l’ultimo di ventinove Stati ad essere colpito dalla crisi nel quarto trimestre del 2008 e uno tra i primi a uscirne nel secondo trimestre del 2009. La Banca Centrale Israeliana riporta che nella seconda metà del 2010, appena due anni dopo l’esplosione della crisi, il Pil è aumentato del 5.8%, mentre il consumo interno, le esportazioni e la produzione manifatturiera continuano a crescere. L'82% dell'economia del paese è composta dai servizi, il 16% dall'industria e il 2% dall'agricoltura. Ma quali sono esattamente le ragioni che rendono Israele - uno stato fondato appena sessantatre anni fa, con una popolazione di poco più di sette milioni di abitanti, privo di risorse petrolifere e in ricorrente stato di guerra – un paradigma così interessante dal punto di vista di crescita economica e capacità di affrontare la crisi? I fattori che fanno di Israele un caso eccezionale sono diversi; inoltre variano da motivazioni di tipo prettamente economico ad altre legate all’unicità della società israeliana. Da un punto di vista economico, la crisi è arrivata in Israele in un momento estremamente produttivo: memore di precedenti crisi finanziarie, il modello israeliano si è costituito su basi conservatrici e stabili che hanno decisivamente limitato l’esposizione del suo sistema finanziario e bancario. Di conseguenza durante il quinquennio 2002-2007 si è assistito ad una crescita economica esponenziale e quando nel 2008 il mondo è stato travolto dalla crisi finanziaria, Israele ha potuto contare su solide basi che hanno preservato l’integrità strutturale del proprio sistema finanziario, così che solo alcuni settori economici hanno dovuto far fronte all’emergenza. Eppure, le relativamente severe regolamentazioni adottate negli anni precedenti la crisi internazionale non sarebbero bastate da sole nel far fronte ad una stagnazione economica così acuta. La figura di Stanley Fischer, governatore della Banca Centrale di israele dal 2005, ha giocato un ruolo centrale per quanto riguarda la gestione della crisi in Israele. Fischer, la cui eccellenza è stata più volte riconosciuta a livello mondiale, ha adottato con grande prontezza misure innovative e singolari che hanno garantito ad Israele non solo una precoce ripresa dalla crisi economica, ma anche in certa misura il ripetersi del boom degli anni precedenti il crac. Non appena il livello di disoccupazione è diminuito e il tasso di crescita ha cominciato a stabilizzarsi, Fischer ha progressivamente alzato il tasso di interesse in modo da mantenere la stabilità dei prezzi e non provocare ulteriori danni alle attività commerciali. Inoltre la Banca centrale ha aumentato dall'8 al 9% la base di capitale degli istituti di credito in modo da creare un "cuscino di sicurezza" in caso di perdite inaspettate. Altra misura efficace di Stanley Fischer è stata quella di introdurre una politica interventista del tasso di cambio in modo da rafforzare al contempo sia le riserve finanziare che le esportazioni, che costituiscono un fattore di estrema importanza per l'economia del Paese. Infine Fischer ha introdotto l’estensione a due anni della pianificazione del budget economico, in modo tale da concedere un lasso di tempo maggiore per implementare i piani economici, anziché concentrarsi di continuo sulla loro programmazione. Un altro agente economico che ha supportato Israele durante la crisi è il suo vantaggio comparato in tre principali settori: quello farmaceutico, quello militare e quello delle alte tecnologie. Tali settori, seppur minormente danneggiati dalla crisi, non hanno conseguito nessuna sostanziale perdita durante il periodo del transito tra il 2008 e il 2009, per il semplice fatto di rappresentare ambiti dove la domanda globale è rimasta elevata a prescindere dal crollo dell'economia internazionale. A queste motivazioni “operative” si aggiunge la recente scoperta di ingenti quantità di gas naturale che potrebbero produrre uno sviluppo di portata storica del mercato energetico Israeliano. Oltre a questi determinanti fattori economici, Israele vanta diverse caratteristiche sociali che hanno ugualmente contribuito a superare con successo la crisi e ad accrescere il suo rilievo economico a livello mondiale. Anzitutto va sottolineato il fatto che Israele ha il primato assoluto per quanto concerne il numero di aziende start-up. Ne è evidenza il fatto che il Paese conta più società sul mercato azionario Nasdaq di tutte quelle di Europa, Cina, Corea, Giappone, India e Singapore sommate. Due esperti geopolitici, Dan Senor e Saul Singer hanno scritto un libro al proposito (Start-Up Nation: The Story of Israel's Economic Miracle), dove indagano le motivazioni del successo dell'economia Israeliana. Senor e Singer evidenziano differenti caratteristiche sociali che contribuiscono a rendere l’economia israeliana unica per la sua velocità di sviluppo. Elemento centrale è il perpetuo stato di difesa e all’erta che caratterizza Israele sin dalla sua nascita. Secondo gli esperti, il fatto che Israele si trovi da sempre ripetutamente in stato di emergenza, ha contribuito a formare uno specifico ethos di sopravvivenza che si basa su un'alta dose di intraprendenza e capacità di adattamento. L'instabilità socio-politica, l'impossibilità di intraprendere relazioni commerciali nella regione e le minacce all'esistenza stessa dello Stato, hanno spinto la popolazione israeliana a individuare soluzioni alternative per tenere il passo coi propri partner occidentali. Ed è così che una volta di fronte alla crisi, non è stato difficile per gli israeliani rispondere prontamente alla minaccia economica e aggirarla con misure innovative e d'avanguardia. La sorprendente innovazione che caratterizza Israele deriva inoltre da altri due principali fattori: l'immigrazione e l'esercito. Poichè l'immigrazione costituisce una delle raison d'être del Paese, Israele ha presto imparato a considerare i nuovi immigrati una risorsa anzichè una zavorra. Gli efficaci processi di integrazione e le politiche di favoreggiamento degli immigrati, fanno si che i nuovi arrivati diventino velocemente parte integrante della società Isrealiana e del suo sviluppo, in modo che è il Paese stesso infine a trarne estremo vantaggio. Infatti gli immigrati sono (per definizione) più propensi a rischiare: un immigrato che si trova in un ambiente del tutto nuovo, che deve ricostruire la sua vita dall'inizio e che ha poco da perdere, è stimolato da un incentivo particolare a rischiare. Si può dire che una nazione di immigrati – quale è Israele - è una nazione di imprenditori. A soli vent'anni dall'immigrazione in Israele, la popolazione russa costituisce una delle maggiori forze motrici del Paese. Vi è, infine, un'ultimo ma cruciale fattore che distingue la società Israeliana: l'esercito. L'alta spesa militare (1.487 dollari che a livello pro-capite è la più alta al mondo) spiega molte cose: non solo l'elevato livello di start up nel campo delle alte tecnologie ma anche il motivo per cui in Israele il venture capital è riuscito ad attecchire (il fondo Yozma è un caso di studio) a differenza di quanto accaduto in molti altri paesi (i soldi spesi dalla Malesia nel fondo Bio Valley sono l'esempio contrario). Obbligatorio per entrambi ragazze e ragazzi, l'esercito costituisce parte integrante della vita di ogni israeliano, e seppur spesso constestato, produce anch'esso dei risvolti positivi. Durante i tre anni di servizio militare che comincia ad appena diciott'anni, i ragazzi israeliani sono portati ad assumersi enormi responsabilità, a prendere scelte di vita e di morte per se stessi e per i propri compagni e spesso vengono a contatto con problemi e situazioni più grandi di loro. Ad appena vent'anni ai giovani soldati è conferito un alto livello di autorità che diviene poi di particolare importanza quando i giovani approcciano il mondo del lavoro, già consapevoli delle proprie capacità e dunque senza alcuna inibizione nel criticare le scelte dei veterani e assumersi ruoli di leadership sin dagli inizi. Inoltre la società stessa ha sviluppato la capacità di integrare l'esperienza del campo di battaglia all'interno degli ambiti lavorativi, cosi che le competenze acquisite dai ragazzi durante il servizio militare vengono sfruttate al massimo in campo lavorativo.17 maggio 2011,http://www.linkiesta.it/



Siglato un contratto di distribuzione a lungo termine in Israele tra ERYtech Pharma e Teva
17 Maggio, ANSA
ERYtech Pharma è lieta di annunciare la firma di un contratto esclusivo a lungo termine con Teva per la registrazione, il marketing, la distribuzione e la vendita in Israele di Graspa®, il prodotto di punta dell'azienda. ERYtech è una casa farmaceutica specializzata, leader nello sviluppo di nuovi prodotti medicinali ad alto valore per le esigenze ancora senza risposta in campo oncologico, ematologico e immunitario. Il prodotto di punta dell'azienda è Graspa®, attualmente in fase di studio clinico cardine in Europa. La posizione dominante e la lunga esperienza di Teva nel settore oncologico e specialistico offriranno una solida piattaforma per Graspa® e ne fanno il partner ideale per il lancio sul mercato israeliano del prodotto. Il testo originale del presente annuncio, redatto nella lingua di partenza, è la versione ufficiale che fa fede. Le traduzioni sono offerte unicamente per comodità del lettore e devono rinviare al testo in lingua originale, che è l'unico giuridicamente valido.



Ecco mia figlia Like Una bimba con il nome dell'opzione di Facebook.
http://www.lettera43.it/17 maggio di Giuliano Di Caro
No, non bastavano le circa 20 bambine egiziane chiamate Facebook, in onore del ruolo cruciale giocato dal social network nelle rivolte di piazza Tahrir e l’abbattimento del trentennale regime di Hosni Mubarak. LA NEONATA LIKE ADLER. Lior e Vardit Adler, coppia israeliana che vive a Hod Hasharon, città a nord est di Tel Aviv, hanno deciso di chiamare la terzogenita di casa Like. Sì, proprio come il bottone di apprezzamento su Facebook per i contenuti postati dagli utenti. “Mi piace”, per ora è ignara degli articoli sui giornali che parlano di lei. Dopotutto ha appena una settimana di vita. «Il suono ha giocato la sua parte quanto il significato in sé. Per noi è importante che i nostri figli abbiano nomi che non vengano usati da nessuno, almeno non in Israele», ha spiegato il padre. Semplice. Oppure no? ICONE CONTEMPORANEE. La minuta vicenda rientra, va da sé, nella categoria delle stranezze, delle bizzarrie. Però a sentire parlare il padre di Like viene il dubbio che c’entri in qualche modo anche lo spirito dei tempi, seppure in una versione singolare e sbilenca. Basta pensare all’arrampicata retorica in cui si è lanciato il padre della bimba. «Da secoli le persone assegnano nomi biblici ai propri figli perché la Bibbia è un’icona. Ebbene, oggi il social network è una delle icone più famose del contemporaneo». L’azzardata argomentazione si è spinta fino a descrivere il nome Like come la versione attualizzata del nome biblico Ahuva, che in ebraico significa “amato”. VENTI PICCOLE FACEBOOK EGIZIANE. Nomen omen, a proposito di spirito dei tempi. Perché dai 18 giorni che hanno spodestato il dittatore, le primogenite egiziane chiamate Facebook, secondo il popolare quotidiano Al-Ahram, sono almeno una ventina in tutto il Paese. Un’epidemia lessicale che racconta in controluce la crescita esponenziale dell’utilizzo di Facebook in Egitto, già prima della sollevazione popolare il primo Paese del Medioriente a utilizzare il social network di Zuckerberg con i suoi 5 milioni di utenti registrati. Nelle due settimane successive all’uprising, gli egiziani hanno creato 32 mila nuove pagine e 14 mila gruppi. E la tendenza è continuata anche nei mesi successivi. Il governo temporaneo militare ha addirittura creato una fan page per raggiungere i giovani del Paese.




Una svolta decisiva nel conflitto arabo-israeliano?
di Daniel Pipes 15 maggio 2011 http://www.icn-news.com/
http://it.danielpipes.org/blog/2011/05/svolta-decisiva-conflitto-arabo-israeliano
Qualche settimana fa avevo previsto che gli sconvolgimenti arabi potevano spingere i palestinesi a "prendere le distanze dalla guerra e dal terrorismo a favore di un'azione politica non-violenta che includerebbe delle pacifiche manifestazioni di massa come le marce sulle città, lungo i confini e i posti di blocco israeliani". Proprio al momento giusto, in occasione di ciò che i palestinesi chiamano il "Nakba Day" [N.d.T. "Il Giorno della Catastrofe"], un rifiuto della proclamazione dell'indipendenza di Israele avvenuta il 15 maggio 1948, oggi ha avuto luogo una protesta di massa in modo coordinato e senza precedenti. Un titolo del New York Times ben sintetizza gli eventi: "Israele si scontra con i manifestanti lungo i quattro confini" che sono quelli del Libano, della Siria, della Cisgiordania e di Gaza. Delle quattro [frontiere] la manifestazione che si distingue è quella che ha avuto luogo sui confini delle alture del Golan, in genere tranquilli. Secondo Joel Greenberg del Washington Post: Gli incidenti più gravi sono avvenuti al confine tra la Siria e le alture del Golan, dove migliaia di manifestanti si sono radunati sul lato siriano e centinaia sono affluiti nel territorio in mano a Israele dopo aver abbattuto la recinzione di confine. Decine e decine [di manifestanti] sono entrati nel villaggio druso [sotto il controllo israeliano] di Majdal Shams, radunandosi nella piazza centrale, dove hanno sventolato le bandiere palestinesi. Ma essendo palestinesi, non hanno potuto resistere alla tentazione di ricorrere alla violenza, e così facendo hanno forse minato l'intero sforzo. Secondo quanto riportato da Yedi'ot Aharonot, i siriani hanno calpestato la recinzione di confine, hanno lanciato pietre contro i soldati israeliani, ferendone dieci, e hanno lasciato Israele nel tardo pomeriggio gridando "Torneremo" tra gli applausi degli abitanti del villaggio. Che dei siriani attraversassero in massa le alture del Golan, senza l'autorizzazione israeliana, non è mai (per quel che ricordo) successo prima. E, naturalmente, nella Siria totalitaria, quanto accaduto richiede l'approvazione del governo. Se si può attribuire questa protesta all'esigenza di Damasco di distogliere l'attenzione dai propri problemi interni, essa s'inserisce altresì in un'ottica più generale. Danny Danon, un politico di spicco del Likud, ha descritto la sfida sui quattro confini come una prova generale in attesa di settembre, quando l'Autorità palestinese si aspetta che l'Assemblea generale delle Nazioni Unite proclami uno stato sovrano della "Palestina". Io vado oltre e prevedo che questo ibrido di disobbedienza civile e di violenza di bassa lega sarà la tattica preferita dai palestinesi per qualche tempo a venire. Prevedo inoltre che questa tattica fallirà se, come accaduto oggi, ci saranno delle vittime. Ma questo può causare dei veri danni a Israele se la leadership riuscirà a mantenere le masse non-violente.

mercoledì 18 maggio 2011



Neghev

I Paesi con la tirannia nel destino
di Vittorio Dan Segre17 maggio 2011, http://www.ilgiornale.it/
Raymond Ibrahim, direttore associato del Middle East Forum, un "pensatoio" politico di Filadelfia, in un articolo del 20 aprile scorso intitolato «Il silenzioso sterminio dei "cani cristiani" in Iraq» ricorda come metà della popolazione cristiana di quel Paese ha dovuto emigrare o cambiare residenza dopo che 700 cristiani incluso un vescovo e vari sacerdoti sono stati uccisi e 61 chiese bombardate. La situazione non è migliore in Pakistan ed è diventata paradossale dopo lo scoppio delle rivolte arabe in Tunisia, Libia, Siria ed Egitto. I cristiani si pongono la domanda: sono i tiranni come Saddam o Mubarak a creare società brutali o sono società brutali che creano il bisogno di tirannie per mantenere l'ordine interno? La domanda é di vitale importanza per l'Egitto, stretto fra il desiderio di riconquistare un ruolo di guida regionale e una rivoluzione in cui la "questione cristiana" sta trasformandosi in nuovo fattore politico. La comunità copta d'Egitto è quella cristiana più numerosa nella regione, con potente diaspora in America. Fra la chiesa copta e le chiese ortodosse ci sono da sempre rapporti di fede, ma la posizione di Mosca verso la religione non è più quella dell'epoca comunista. La dura reazione dei patriarchi ortodossi russi dimostra che la comunità copta d'Egitto ha trovato un inaspettato alleato nel governo di Putin. L'uccisione di undici suoi membri e la distruzione di una chiesa alla periferia del Cairo ha un significato che va al di là delle reazioni copte ai passati scontri interconfessionali. Se la causa immediata - falsa o vera che sia - è l'accusa di imposta o rifiutata conversione forzata, le ricadute di questo massacro all'interno e all'estero sono negative per un Paese arabo che vuole riconquistare un posto di guida. Il mancato intervento della polizia a difesa dei copti nella capitale stessa e la maniera con cui ha reagito alla loro protesta davanti alla sede della televisione dimostra la perdita di sicurezza e lealtà dei suoi capi: temono di essere accusati di eccessiva violenza e allo stesso tempo lo stato di crescente insicurezza nel Paese (aumento dei crimini, attacchi alle persone e alle proprietà nei quartieri più ricchi). Dagli scontri coi copti trapela la debolezza di un governo militare transitorio che vuole restare al potere, cosciente della situazione economica catastrofica del Paese e in corrotto controllo delle sue ricchezze e dei costosi armamenti di un esercito che ha perduto tutte le guerre contro Israele. Cristiani e Israele, su piani differenti, diventano bersagli di una dirigenza impaurita. I copti sono lasciati alle prese degli islamici per mantenere aperto il dialogo fra i generali e i Fratelli musulmani che, a loro volta, in epoca elettorale temono l'accusa di "tepore" verso i cristiani. Una minoranza considerata come «osceno nido di paganesimo» e che chiede uguaglianza politica e sociale. Quanto a Israele, solo Paese del Medio Oriente in cui il numero dei cristiani è raddoppiato dal 1948, la tensione con i copti protetti dall'Occidente e dalla Russia, anche se tradizionalmente antisionisti per paura dei musulmani, potrebbe trasformarsi in un pericoloso connubio. Un risultato di questa ipocrita situazione è che Israele e la questione palestinese - ignorati dalla rivoluzione araba di luglio - riaffiorano come temi di propaganda nazionalista neo nasseriana. Lo dimostra il più gettonato candidato "laico" alla presidenza egiziana Amr Mussa, segretario uscente della Lega Araba ed ex ministro degli esteri di Mubarak, noto per la sua viscerale ostilità a Israele. Egli fa della revisione del trattato di pace con Israele e del patrocino egiziano della causa palestinese gli argomenti per ottenere il sostegno di ceti islamici anticristiani e di una intellighenzia convinta che, riaprendo il contenzioso con Israele, l'Egitto ritroverà un ruolo internazionale e più facilmente potrà battere cassa in America e in Europa.La parola rivoluzione ha un doppio significato: lo sradicamento dal passato e la rotazione su se stessa. L'Egitto non ha ancora scelto. Ma il motto del Gattopardo «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima» potrebbe diventare il nuovo slogan della controrivoluzione.



ISRAELE, SCONTRI LIBANESI “ARMA DELLE MASSE”

L’ “Arma delle Masse”. Così è chiamata, dai giornalisti israeliani, la nuova forma di protesta che ieri ha cercato di investire lo Stato ebraico e che ha visto migliaia di persone, provenienti dal Libano, scagliarsi letteralmente contro le recinzioni di frontiera. “La giornata della Naqba (il ‘disastro’ per i palestinesi della fondazione di Israele) ha segnato ieri l’inizio di una nuova fase nel conflitto israelo-palestinese“. Questo è quanto afferma l’analista militare Eitan Haber, poi a proposito della protesta dice: “Questa arma consiste nel trasformare la quantità in qualità”. Secondo molti analisti le marce sui confini di Israele assumeranno, a settembre, un carattere ancora più vasto, quando all’Onu potrebbe essere proclamato lo Stato palestinese. “Per Israele” dice il columnist Nahum Barnea “il ritorno di profughi palestinesi nel proprio territorio è una linea rossa, che non può essere valicata“. La convinzione e il timore comune, oggi in Israele, è che con la manifestazione di ieri sia iniziata, da parte degli estremisti del mondo arabo, la lotta per obbligare ad Israele il così detto Diritto del Ritorno.http://www.notizieitaliane.it/



Tel Aviv




FRATTINI, DIRITTO A ESISTENZA ISRAELE NON E' NEGOZIABILE
(AGI 16 MAGGIO) Roma - "Il diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele non e' negoziabile" e non ci puo' essere pace "con coloro che predicano la sua distruzione": lo ha ribadito il ministro degli Esteri, Franco Frattini, commentando gli scontri di domenica al confine israeliano con Libano, Siria e Striscia di Gaza. Il capo della diplomazia italiana e' intervenuto a MattinoCinque all'indomani della sua visita in Israele dove, ha sottolineato, "la situazione purtroppo e' tesa a causa dell'azione di estremisti che celebrano il giorno dell'indipendenza dello Stato di Israele, chiamandolo il giorno della 'catastrofe'".



Egitto/ Arrestate 186 persone dopo manifestazione anti-Israele
Ministero Sanità: 353 persone arrestate
Il Cairo, 16 mag. (TMNews) - L'esercito egiziano ha arrestato 186 persone dopo gli scontri che hanno contrapposto nella notte tra domenica e lunedì le forze dell'ordine ai dimostranti davanti all'ambasciata di Israele al Cairo, violenze che hanno provocato 353 feriti secondo il ministero della Sanità. Le 186 persone saranno interrogate dalla giustizia militare, ha riportato l'agenzia ufficiale Mena. Il ministero della Sanità da parte sua ha annunciato che 353 persone sono state ferite, la maggior parte delle quali leggermente e dopo avere respirato gas lacrimogeni. Le centinaia di manifestanti celebravano il 63esimo anniversario della "Nakba" (catastrofe, in arabo), cioè la creazione dello stato di Israele nel 1948 e l'esodo massiccio di palestinesi che ne è seguito. Chiedevano l'espulsione dell'ambasciatore di Israele e la rottura delle relazioni tra l'Egitto e lo stato ebraico.



"Non è il momento di dire 'sì' a un ambasciatore palestinese in Italia"
La decisione annunciata da Napolitano a Betlemme Intervista a Fiamma Nirenstein
di Alma Pantaleo 17 Maggio 2011 http://www.loccidentale.it/

l'incontro tra Giorgio Napolitano e Abu MazenIeri il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al termine dei colloqui con il presidente Abu Mazen, ha annunciato che l’Italia ha deciso di levare al rango di ambasciata la delegazione diplomatica permanente dell’Autorità nazionale palestinese a Roma. Passo che, il capo dello Stato, ha ribadito avvenire "in piena amicizia con Israele". L'On. Fiamma Nirenstein, Vicepresidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera dei Deputati esprime delle perplessità sulla scelta presa dal nostro Paese. Onorevole, come giudica la decisione presa dal nostro Paese, annunciata dal presidente Giorgio Napolitano, di levare al rango di ambasciata la delegazione diplomatica permanente dell'Autorità nazionale palestinese a Roma? A me sembra che non siano i giorni migliori per un’iniziativa di questo genere. Fatah ha appena fatto un accordo con Hamas e quindi diciamo che la sua rappresentanza dovrebbe essere anche quella di Hamas, perché i due adesso rappresentano la stessa entità. Hamas è nella lista delle organizzazione terroristiche sia europee che americane da quando Frattini era Commissario europeo. È stata un’iniziativa nostra, seguita poi in tutto il mondo. Hamas è un’organizzazione antisemita, nella sua carta dice di voler uccidere tutti gli ebrei, non ha nessuna intenzione né di trattare con Israele né di riconoscerne lo stato. Ogni soluzione di pace è estranea al suo modo di vedere. Quindi è molto problematico che Fatah stia formando insieme ad Hamas un governo e non vedo come una rappresentanza diplomatica nel nostro Paese possa ammettere che siano presenti anche dei personaggi che sono di fatto dei terroristi. Che gioco sta giocando la Palestina? I palestinesi con grande foga e contro tutte le risoluzioni e la legalità internazionale, che stabiliscono che un accordo tra palestinesi e israeliani debba essere raggiunto tramite trattativa, preparano una mossa di riconoscimento unilaterale dello stato palestinese votato dall’Assemblea dell’Onu a settembre che ha delle maggioranze automatiche (quelle degli stati islamici e dei cosiddetti paesi non allineati). Puntano su questo e sperano di riuscire a far votare una cosa che getterebbe l’intero Medio Oriente nella più grande instabilità perché arrivare a uno stato palestinese senza che sia stata implementata la risoluzione dell’Onu - che dice che si può arrivare a questo stato solo tramite trattativa che garantisca la sicurezza di Israele - sarebbe un disastro, che minerebbe la stabilità dell’area e l’esistenza stessa dello stato d’Israele. Dunque non ha senso dare adesso una rappresentanza diplomatica a un Paese che potrà tranquillamente proclamare il suo stato senza trattare. Insomma, quella presa dall'Italia è una decisione insensata? È una decisione che avrebbe più senso nel momento in cui i palestinesi accettassero un accordo con Israele. Collaborare all’idea che lo stato palestinese possa autodefinirsi non rappresenta niente di buono per la stabilità del Medi Oriente né per la sopravvivenza dello stato d’Israele. Ora come ora, con quest’accordo tra Fatah e Hamas e con questa promessa di dichiarare il loro stato unilateralmente, è il momento più sbagliato perché un’ambasciata, che è il simbolo di uno stato, venga costituito sul nostro territorio nazionale. Soprattutto alla luce delle cronache di queste ore... Due giorni fa c’è stata la celebrazione da parte dei palestinesi del giorno della Nakba, cioè di quello che loro definiscono “la distruzione” di tutte le loro speranze e dei loro sogni e lo fanno coincidere ai giorni in cui Israele celebra l’anniversario della creazione del suo stato. Questa è una cosa terribile. Che significato ha per i palestinesi la Nakba? Il ruolo della Nakba, cioè quello dell’odio e della distruzione si è visto molto bene 48 ore fa perché i palestinesi hanno espresso in maniera molto aggressiva questa loro disperazione. Nel novembre del 1947 la “partizione” tra lo stato d’Israele e i palestinesi non fu accettata da questi ultimi. Gli eserciti arabi entrarono nel futuro territorio israeliano cercando di spazzare via tutti gli ebrei e dissero ai palestinesi di andarsene perché così gli sarebbe stata restituita la loro terra dopo la distruzione dello stato d’Israele, appena proclamato da loro. Per un miracolo Israele riuscì a vincere grazie alla forza della disperazione e alla fede, e i palestinesi che se ne andarono divennero i nonni dei profughi di oggi portando su se stessi quella Nakba che non ci sarebbe mai stata se avessero accettato la partizione. E in questo caso? Qui siamo allo stesso punto della storia: i palestinesi con gli israeliani si devono mettere a sedere e discutere, condividere. Invece, di nuovo, si muovono in una direzione con questa alleanza con Hamas che persegue la distruzione dello stato di Israele. Anche la nostra diplomazia può ottenere migliori risultati condizionando il riconoscimento dell’ambasciata palestinese all’accettazione da parte dei palestinesi stessi di una trattativa. In occasione della sua visita a Betlemme, Napolitano ha ribadito che "non è accettabile considerare la fondazione dello Stato di Israele un disastro"... Non è stato un disastro certamente, ma i palestinesi lo hanno proclamato tale. Hanno mobilitato tutto il mondo arabo, Israele è stata invasa da migliaia di persone provenienti dalla Siria che hanno sfondato i confini di Israele. Libano e Siria hanno mandato pullman di gente sul confine per spostare l’attenzione dalle loro rivoluzioni. Solo la grande moderazione dell’esercito israeliano ha evitato un disastro spaventoso perché il gesto compiuto dal Libano, Siria e Gaza e le manifestazioni particolarmente violente ai checkpoint dell’Autonomia palestinese nel West Bank hanno ribadito una politica di violenza che mira alla sola distruzione di Israele e non alla trattativa.



Barak: Dalle rivolte arabe, per ora, solo caos per Israele
Ministro israeliano: "Ma a lungo termine forse qualcosa di buono"
Roma, 17 mag. (TMNews) - Le rivolte arabe "nel futuro immediato" rappresentano "il caos" per Israele, "ma a lungo termine" sono "forse qualcosa di buono". E' quanto ha sostenuto il ministro israeliano della Difesa, Ehud Barak, in un'intervista al Corriere della Sera. "E' emozionante che la gente alzi la testa, fra una generazione si arriverà a un miglioramento. Ma intanto? Arrivano i Fratelli musulmani, o stati caotici come il Libano", ha spiegato il ministro. Barak ha ancora sul tavolo il rapporto sui morti di domenica, al confine con la Siria e il Libano. "E' stato un attacco provocatorio. Abbiamo reagito come ogni stato sovrano", ha commentato. "Lo rifaremmo. L'esercito ha l'ordine di tenere chiusi quei confini. Non ci interessa avere morti, i palestinesi hanno già i loro leader che li uccidono: 800 in Siria, e non c'era neanche una pallottola israeliana", ha insistito Barak.



Invadere Israele sperando di farla franca
I mandanti: Assad, Ahmadinejad, Nasrallah
di Michele Di Lollo 17 Maggio 2011 http://www.loccidentale.it/
Finita la "nabka", si ipotizza la presenza di Siria e Iran dietro le proteste deipalestinesi."L'invasione" di Israele dunque non sarebbe stato un evento spontaneo. Firmano la regia anche Hezbollah e, molto probabilmente, Hamas. Un vero e proprio attacco coordinato su tre diversi fronti (Libano, Golan, Gaza). I morti tra i palestinesi sono oltre dieci, un centinaio i feriti. I rischi maggiori per le forze di sicurezza israeliane sono giunti dal confine siro-libanese. Ma le proteste hanno interessato praticamente tutto il perimetro dello stato israeliano, con un’unica eccezione: i territori lungo il fiume Giordano. Il perché è presto detto: Amman non voleva. Qui la polizia è intervenuta per impedire a 200 studenti palestinesi di marciare verso il confine e tutto si è risolto con pochi feriti. Leggeri problemi anche nella West Bank, controllata dal partito Fatah di Abu Mazen. A nord-est, sulle Alture del Golan, la situazione si rivela completamente diversa e per tutta la notte di lunedì sono andate avanti perquisizioni casa per casa. Si cercano possibili infiltrati pronti a colpire. Il portavoce della polizia Micky Rosenfeld, dalle pagine del giornale israeliano Haaretz, annuncia l’arresto di un cittadino siriano. L'uomo è stato fermato in un taxi guidato da un palestinese di Gerusalemme est all'uscita del villaggio di Majdal Shams, dove sono rimaste uccise due persone durante gli scontri. Il Libano è sotto lo scacco di Hezbollah. Il movimento sciita, creato nei primi anni '80 da Iran e Siria per contrastare l'invasione israeliana del Libano, controlla il sud del Paese. Se Hezbollah non avesse voluto disordini non si sarebbero verificati. Il segretario generale dell'organizzazione, Hassan Nasrallah, elogia i dimostranti e promette che il loro "diritto al ritorno" non rimarrà a lungo un sogno. "Bisogna inchinarsi di fronte al coraggio di chi ha protestato ieri alle frontiere del Libano e della Siria con la Palestina occupata, che hanno affrontato la tirannia del nemico con petto nudo e testa alta". Ecco la prova del suo coinvolgimento quindi e dell’appoggio, più o meno indiretto, di Teheran e di Damasco. L’esercito libanese, in stato di massima allerta, ha cercato di garantire l’ordine evitando violazioni della sovranità libanese, ma è stato completamente sopraffatto dalla folla, pur coordinandosi con le forze di pace Onu. Secondo Human Rights Watch, vivono in Libano circa 300.000 palestinesi, in condizioni di particolare difficoltà. Non hanno alcun diritto di cittadinanza, di proprietà e non possono accedere a professioni di spicco. Nemmenoo nel sud, nelle terre del partito di Dio. Hezbollah, che si fa vanto di finanziare servizi sociali, scuole, ospedali e servizi agricoli per migliaia di libanesi, a quanto pare si disinteressa per le reali condizioni dei profughi palestinesi, secondarie rispetto alla missione antisionista. L'altro fronte è Damasco, che rompe una lunga tregua. In Siria vivono circa mezzo milione di profughi, alcuni dei quali in campi non lontano dalle Alture del Golan e nonostante ciò, i confini sono rimasti tranquilli per anni. Ma ora che Assad si sta confrontando con la più grave crisi che la sua famiglia e il partito Baath abbiano mai conosciuto, pare difficile credere che le autorità siriane si siano così tanto distratte da non accorgersi di una azione simile. Forse serviva distogliere l’attenzione dei media internazionali sulle violente repressioni scoppiate in Siria negli ultimi mesi. Il non intervento dell’esercito siriano potrebbe rappresentare un chiaro messaggio per Israele e l'Occidente: ecco a cosa andreste incontro, se dovessero cadere il Baath. In una recente intervista al New York Times, il cugino del presidente, Rami Makhlouf, ha dichiarato che "se la Siria dovesse cadere nel caos, allora anche Israele cadrebbe nel caos". Il regime ha preso ovviamente le distanze da queste osservazioni, ma alla luce di quanto accaduto sarebbe errato sottovalutare il loro peso. C'è poi l'altra faccia della medaglia di cui tener conto: quale e se ci sarà una risposta di Israele. C'è il rischio che Netanyahu possa radicalizzare la sua politica. Una scelta del genere costerebbe molto cara all'Anp, che entro il prossimo settembre dovrebbe procedere alla dichiarazione di indipendenza dello Stato palestinese in sede Onu. Abu Mazen, ancora una volta, rischierebbe di perdere la credibilità internazionale guadagnata in questi ultimi anni. Per la Siria i pericoli maggiori deriverebbero da un appoggio occidentale ai movimenti di opposizione al regime e da un escalation con Israele sulle Alture del Golan, che al momento le forze di sicurezza siriane non possono permettersi. Anche Hezbollah e l'Iran avrebbero molto da perdere: il sostegno alla causa palestinese portò all’occupazione del 1982 e ad altri inteventi negli anni a seguire. Inoltre i palestinesi in Libano non hanno partecipato alla guerra contro Israele nel 2006, segno di una certa distanza tra profughi ed esponenti dell'organizzazione sciita. Teheran ha altro a cui pensare al momento: i rapporti tra clero e pasdaran (le frizioni Khamenei-Ajmadinejad) preoccupano più di Israele, anche se il presidente iraniano potrebbe trarre beneficio dai fatti di ieri. Insomma, ogni attore regionale avrebbe avuto almeno una ragione per non aggredire Israele. Eppure, puntualmente, è accaduto.




Haraimi
Ingredienti:
1 Cernia o Dentice di 3 Kg, 2 Scatole di Pelati da 800 gr, 1/2 Bicchiere d’Olio d’oliva, 2 Cipolle bianche, grandi, tagliate in piccoli cubetti, 6 Spicchi d’Aglio, schiacciati e tagliuzzati, 1 pugno e 1/2 di prezzemolo finemente tagliuzzato, 1 Peperone Rosso tagliato in piccoli cubetti, 1 costa di sedano finemente tagliuzzata, 4 o 5 Patate grandi tagliate per lungo in 6
spicchi ognuna, 1 Cucchiaio di Cumino in polvere, 1/2 Cucchiaio di Curry in polvere, Succo di limone, Sale q.b. e Pepe Nero a piacere. Preparazione: in un tegamino, scaldare la metà dell’olio e soffriggere cipolla e peperone fino a quando siano quasi a punto; aggiungere quindi il sedano, prezzemolo con l’aglio e soffriggere per 2 minuti; ritirare dal fornello e conservare a parte. Mettere all’interno del pesce la maggior parte del soffritto e ungerlo con il resto ai lati. Depositare il pesce in una gran padella o vassoio per forno. In tegame a parte, versare i pelati già mezzo frullati ai quali si sarà aggiunto sale, pepe, cumino e curry, amalgamando la salsa cruda ottenuta e immergere gli spicchi di patate facendo cuocere a fuoco lento, finché le patate siano quasi cotte, ma sempre dure. Versare quindi questa salsa sul pesce, adagiando le patate tutt’intorno. Cuocere su un fornello grande, a fuoco dolce o infornare a 250º, fino a quando, patate pesce siano cotti a puntino. Preparazione salsa piccante: prelevare un poco di salsa, aggiungendo il peperoncino piccante in abbondanza e lasciare bollire in un tegamino per 2-3 minuti, servendo a parte, per coloro ai quali piace il piccante. Sullam n.72