venerdì 20 maggio 2011



Rehovot - casa di Weizmann

Nakba e Nakba bis
Le esili, ingenue speranze (“spes contra spem”, avrebbe detto Sant’Agostino) che la cosiddetta “primavera araba” avrebbe finalmente aperto uno spiraglio di luce anche sull’impervio terreno delle prospettive di pace in Medio Oriente, dunque, sono durate il breve spazio di un mattino. Le dotte argomentazioni costruite, per esempio, sul piccolo dato di fatto che nelle piazze non si sarebbero viste bruciare le bandiere israeliane (che evento eccezionale!) si sgonfiano come palloncini; le tristi, facili profezie delle varie Cassandre, che temevano che si sarebbero presto rimpiante le plumbee dittature vitalizie dei vari Mubarak e Ben Alì, sembrano avere colto nel segno. Lo spettacolo delle marce “spontanee” dei cosidetti “profughi palestinesi”, mosse nei giorni scorsi contro i confini dell’odiatissimo Israele, sembrano infatti seppellire anche la più azzardata, la più estrema e irrealistica delle illusioni, frantumando qualsiasi miraggio di pace, la più pallida ipotesi di una pur minima possibilità di ragionamento, di dialogo. Coloro che sono andati a premere contro i confini di Israele, cercando di entrarvi con la forza (non importa su suggerimento di chi, seguendo quali impulsi o strategie), non chiedevano allo stato ebraico di smantellare qualche colonia, di modificare qualche comportamento o di spostare qualche linea di demarcazione. Chiedevano a Israele, semplicemente, di non esistere, ribadendo il semplice, elementare messaggio espresso dalle annuali celebrazioni della “Nakba”, la “catastrofe”. Su quanto sia piacevole vivere fianco a fianco con qualcuno che considera la tua esistenza la più grande sciagura della storia, tanto da eleggere il tuo compleanno a giorno di lutto disperato, c’è poco da dire. Così come siamo tristemente abituati all’interpretazione di tali gesti (tristi e sgradevoli quanto si vuole, ma tutt’altro che ermetici) da parte dei mass media e dei commentatori politici, che sembrano ridurli a meri umori o stati d’animo, spesso dimostrando aperta simpatia di fondo per i manifestanti, che agirebbero in risposta a sopraffazioni subite, o sarebbero mossi da ideali di libertà, giustizia, pace, autodeterminazione ecc. Ci sarebbe, forse, bisogno di ripetere che il 14 maggio del 1948, il giorno della Nakba, era il giorno in cui avrebbe dovuto nascere anche lo Stato palestinese, soffocato sul nascere dagli eserciti di cinque nazioni arabe? Chi celebra la Nakba, in realtà, non maledice soltanto la nascita di Israele, ma anche la stessa idea dell’eventuale nascita di una Palestina libera, indipendente e sovrana. Eppure, i palestinesi dicono di desiderare ardentemente di “nascere”, come stato sovrano. Sono talmente impazienti che hanno detto alla loro ‘madre’ designata, l’Assemblea Generale dell’ONU - che, per ora, custodisce amorevolmente in grembo l’embrione - che, a settembre, comunque vada, senza stare a sentire nessun medico e nessuna ostetrica, “nasceranno”. Ma già si sa, purtroppo, che sarà una nascita mancata, impedita: una “non nascita”, proprio come quella del 1948. A tutti gli effetti, una “Nakba bis”. Francesco Lucrezi, storico, http://www.moked.it/

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