venerdì 18 aprile 2008

il fiume Giordano

"Grandi bugie: Demolire i Miti della Propaganda di Guerra Contro Israele"
di David Meir Levi, edito dal Centro Studi di Cultura Popolare

L’importanza di questo testo
Prefazione di David Horowitz

La guerra in Medio Oriente dura ormai da quasi sessanta anni. La maggior parte delle persone che vivono oggi ha poca familiarità con la sua storia e le sue origini e manca un’adeguata conoscenza dei fatti. Questo stato di ignoranza offre un terreno fertile a persone prive di scrupoli che creano falsi miti per giustificare le loro azioni distruttive. La macchina di propaganda politica ha creato molti di tali miti per alimentare la guerra contro lo stato ebraico. Israele è l’unica democrazia nel Medio Oriente che elegge i suoi leader in libere elezioni, garantisce diritti ai suoi cittadini e onora quei diritti. Eppure Israele è l’obiettivo di quelli che sostengono di lottare per “i diritti umani”. Ci sono più di un milione e mezzo di arabi che vivono come cittadini in Israele e che eleggono rappresentanti al parlamento di Israele, e che godono di più diritti degli altri cittadini arabi di qualunque altro stato arabo. Eppure Israele è l’obiettivo di quelli che sostengono di lottare per la “giustizia sociale”. La stessa creazione di Israele è definita dai suoi nemici arabi come la “Nakba”, ovvero la “catastrofe”, cosa che implica in maniera chiara che Israele non dovrebbe esistere. Eppure Israele è l’obiettivo di quelli che affermano di sostenere l’autodeterminazione dei popoli e di opporsi al genocidio. Israele fu vittima – alla sua stessa fondazione – di un’aggressione non provocata da parte di cinque tra monarchie e dittature arabe. Israele è stato l’obiettivo di una guerra araba che continua ininterrottamente da quasi sessanta anni perché gli stati arabi hanno rifiutato di fare la pace. Eppure Israele è l’obiettivo di quelli che dicono di volere “la pace.” Israele è vittima di attacchi terroristici – i bomber suicidi – che insieme agli ebrei di cui si prefiggono l’estinzione, uccide anche donne e bambini palestinesi. Eppure Israele è l’obiettivo di quelli che sostengono di parlare per umanità e per un futuro di “libertà”. Come è possibile questo? Come può il male vestire i panni della giustizia? Come può una guerra genocida, mirata a distruggere un popolo democratico, essere giustificata come una lotta per “la liberazione nazionale”? Tutto ciò è possibile tramite la creazione di miti politici che razionalizzano l’aggressione e giustificano la guerra contro popolazioni civili. Nel romanzo futuristico di Giorgio Orwell, «1984», il Ministero della Verità per lo stato totalitario proclama: «La Conoscenza è Ignoranza; la Libertà è Schiavitù». La natura del doppio linguaggio politico non cambia mai e la sua missione è sempre la stessa: obliare la memoria storica al servizio del potere. «La lotta dell’uomo contro il potere» scrive l’autore ceco Milan Kundera «è la battaglia della memoria contro l’oblio». Solo una memoria ristabilita può demolire i miti del totalitarismo e rendere liberi gli uomini. David Meir-Levi ha scritto un testo che ristabilisce la memoria dei fatti che giacciono al cuore del conflitto in Medio Oriente. Fatti che sono cruciali non solo per il recupero della conoscenza storica e politica oscurata, ma anche per la sopravvivenza di un popolo che vive all’ombra della sua distruzione. Chiunque sia interessato alla giustizia vorrà leggere questo piccolo libro.

Grandi bugie, di David Meir Levi

1.LA QUESTIONE DEI RIFUGIATI
La versione araba della tragica storia dei rifugiati arabi che abbandonarono la Palestina Mandataria prima e durante la guerra del 1948 (e Israele immediatamente dopo la guerra), ha così ben dominato il pensiero di storici, commentatori e politici persino molto colti, che ormai è quasi un dato che la creazione dello stato di Israele causò la fuga di un milione di sfortunati, indifesi e disperati rifugiati arabi. Israele causò il problema e perciò Israele deve risolverlo. Questa affermazione – completamente di parte e canonizzata dalla propaganda anti-israeliana che ne ha fatto il nocciolo della sua narrativa sul conflitto mediorientale – è inequivocabilmente e totalmente falsa.
Origini del problema
Lo stato di Israele fu creato dalle Nazioni Unite in seguito ad un pacifico e legittimo provvedimento. Non fu creato su “terra palestinese”, bensì su territori appartenenti all’Impero Ottomano, dominato per quattrocento anni dai turchi, che li persero quando furono battuti nel corso della Prima guerra mondiale. A quei tempi non vi era alcuna terra “palestinese” perché non esisteva alcun popolo che affermasse di essere tale. Vi erano arabi che vivevano nella regione della Palestina che si consideravano siriani. Fu solo dopo la Prima guerra mondiale che gli attuali stati di Giordania, Siria, Libano ed Iraq furono creati – e per di più artificialmente – mediante lo smembramento dell’Impero turco ad opera dei vincitori britannici e francesi. La Giordania fu stabilita su circa l’ottanta per cento della Palestina Mandataria, la quale fu inizialmente designata dalla Lega delle Nazioni come parte della madrepatria ebraica. Da allora, essa negò agli ebrei i diritti di proprietà. Sebbene due terzi dei suoi cittadini siano arabi palestinesi, la Giordania è guidata da una monarchia Hashemita. Nel 1947 il piano di partizione delle Nazioni Unite stabiliva la creazione di due stati sul rimanente venti per cento della Palestina Mandataria: lo stato di Israele per gli ebrei, ed un altro stato per gli arabi. Gli arabi rifiutarono il loro stato e dichiararono guerra ad Israele. Questa è la causa prima del problema dei rifugiati arabi, all’incirca 725.000 persone, che partirono a causa della guerra cominciata dagli stati arabi, e non dagli arabi palestinesi. Gli stati arabi – interamente dominati da dittature – non volevano uno stato non arabo in Medio Oriente. I comandanti di otto paesi arabi le cui popolazioni superavano enormemente gli ebrei residenti nell’impero turco, iniziarono la guerra con l’invasione simultanea su tre fronti del nascente stato di Israele, il quale aveva invece chiesto la pace e offerto amicizia e cooperazione ai suoi vicini. I dittatori arabi rifiutarono la sua offerta e risposero con una guerra di annientamento contro gli ebrei. La guerra fallì. Ma lo stato di guerra è continuato ininterrottamente a causa dell’incapacità degli stati arabi – Arabia Saudita e Iraq in particolare – di firmare trattati di pace con Israele. A tutt’oggi gli stati arabi e i palestinesi si riferiscono al fallimento della loro aggressione e alla sopravvivenza di Israele come alla Nakba, la “catastrofe”. Se non vi fosse stata l’aggressione araba, né guerra né invasione da parte degli eserciti arabi il cui intento era apertamente genocida, non sono non vi sarebbero stati rifugiati arabi, ma ci sarebbe stato uno stato di Palestina nella West Bank e a Gaza sin dal 1948. Con la guerra, Israele acquisì ulteriori territori, In assenza di un trattato di pace tra i belligeranti, le leggi internazionali permettono l’annessione della terra di un aggressore dopo un conflitto – sebbene la terra in questione appartenesse ai turchi ai tempi della Prima guerra mondiale. Israele invece offrì la restituzione delle terre acquisite mentre difendeva la sua sopravvivenza dall’aggressione araba in cambio di una pace formale. Un’offerta ribadita in occasione dell’armistizio di Rodi e della Conferenza di Losanna del 1949. I leader arabi rifiutarono le terre pur di mantenere lo stato di guerra allo scopo di distruggere lo stato ebraico. Se le offerte di Israele fossero state accettate, ci sarebbe stata una rapida e giusta risoluzione a tutti i problemi che da allora hanno afflitto la regione. L’unico problema che non sarebbe stato risolto con la soddisfazione degli arabi era il loro desiderio di annientare lo stato di Israele. Dopo la sua vittoria, Israele approvò una legge che permetteva ai rifugiati arabi di ristabilirsi in Israele a condizione di firmare una dichiarazione di rinuncia alla violenza, giurare fedeltà allo stato di Israele e diventare pacifici e produttivi cittadini. Nel corso dei decenni grazie a questa legge oltre 150.000 rifugiati arabi ne hanno approfittato per costruirsi una vita proficua in Israele. Gli ebrei non hanno una possibilità simile di diventare cittadini degli stati arabi da cui sono stati cacciati. Dovrebbe apparire ovvio a qualsiasi osservatore ragionevole ed equanime che dal punto di vista storico non fu certo Israele l’origine del problema dei rifugiati arabi, così come non fu Israele ad ostacolare la soluzione a tale problema. Al contrario, la questione dei rifugiati arabi fu la conseguenza diretta dell’aggressione degli stati arabi e del loro rifiuto, dopo il fallimento nell’annientamento di Israele, di firmare una pace formale, o almeno di prendersi carico dei rifugiati arabi rimasti ai confini di Israele.
I rifugiati ebrei
Vi furono altri rifugiati causati dal conflitto arabo–israeliano che ciascuna parte araba sceglie convenientemente di dimenticare. Tra il 1949 e il 1954, circa 800.000 ebrei furono costretti a lasciare i paesi arabi e islamici in cui avevano vissuto per centinaia e persino migliaia di anni, tra cui Iraq, Marocco, Tunisia, Giordania, Iran, Siria, Egitto, Libano ed altri. Questi ebrei erano pacifici cittadini di quei paesi arabi e nessuno di essi era loro ostile. Ciò nonostante essi furono costretti con le armi a partire senza neppure i loro vestiti indosso. La sola ragione della loro espulsione fu la voglia di vendicarsi dei paesi arabi contro i propri cittadini ebrei a causa della vergognosa sconfitta araba subita in seguito alla loro guerra di aggressione. Molti di questi rifugiati ebrei giunsero in Israele, dove furono integrati nella normale quotidianità del giovane stato ebraico. Gli stati arabi (e più tardi l’OLP) rifiutarono di fare altrettanto per i rifugiati arabi, preferendo tenere queste persone in un limbo di dolore con cui alimentare la loro guerra contro Israele. Alcuni osservatore hanno suggerito che il duplice problema dei rifugiati andrebbe compreso come uno “scambio di popolazioni” – gli arabi trasferiti verso paesi arabi e gli ebrei verso lo stato ebraico, entrambi in conseguenza della guerra del 1948, una condizione che ambo le parti considerano un’evacuazione forzata. Sull’altro versante, nessuno stato arabo ha mai suggerito l’ovvio: se i rifugiati ebrei sono stati insediati sulle terre abbandonate dagli arabi, perché non insediare i rifugiati arabi sulle terre degli ebrei costretti a lasciare i paesi arabi? Il motivo per cui nessuno ha avanzato tale proposta è che nessuno stato arabo, con l’eccezione della Giordania, permetterà mai ai rifugiati arabi di diventare cittadini. Tenendo conto dei beni dei rifugiati ebrei confiscati alla loro fuga dai paesi arabi e islamici, si potrebbe dedurre che gli ebrei hanno già pagato considerevoli “riparazioni” sebbene senza alcuna garanzia. I beni e le proprietà dei rifugiati ebrei confiscati dai governi arabi e islamici furono stimati in circa 2 miliardi e mezzo di dollari nel 1948. Investendo tale cifra al ragionevole tasso di interesse del 6.5% per 57 anni si ottiene la somma odierna di 80 miliardi di dollari, che quei governi avrebbero potuto utilizzare per il bene dei rifugiati arabi. Tale somma è più che sufficiente a pagare le riparazioni ai rifugiati arabi. Non vi sono stime accurate del valore delle proprietà arabe lasciate sotto il controllo di Israele; ma nessuna di queste raggiunge la somma di 2 miliardi e mezzo di dollari al 1948. La parte araba ha già ottenuto il miglior risultato dalla ipotetica trattativa. Durante le molte guerre del XX° secolo, vi furono decine di milioni di rifugiati in Europa e in Asia. Nel 1922, 1.800.000 persone furono trasferite per risolvere la guerra tra Turchia e Grecia. Nella successiva Seconda guerra mondiale. 3 milioni di tedeschi furono costretti a lasciare i paesi dell’Europa dell’Est per la Germania. Quando il sub-continente indiana fu ripartito, più di 12 milioni di persone furono trasferite tra India e Pakistan. Tutti questi problemi di rifugiati sono stati risolti, ad eccezione di quello dei 725.000 arabi che lasciarono Israele durante la guerra del 1948 e che gli stati arabi e l’Autorità palestinese hanno preferito tenere nei campi profughi.
Il problema dei rifugiati arabi
Vi è dell’ironia anche in un ulteriore aspetto della questione dei rifugiati. Israele ha gestito il problema dei rifugiati ebraici destinando massicce risorse all’educazione e all’integrazione nella sua società della popolazione ebraica rifugiata. Questi rifugiati non divennero mai un problema a carico del mondo, non ebbero mai bisogno dell’assistenza delle Nazioni Unite e mai videro negati i loro diritti umani e civili dal paese che li ospitava. Anzi, a dispetto della grande fatica, delle prime discriminazioni, della difficile sistemazione e delle privazioni iniziali, essi e i loro discendenti sono divenuti produttivi cittadini dell’unica democrazia del Medio Oriente, dando il loro determinante contributo ad uno dei paesi tecnologicamente e socialmente più avanzati al mondo. Il destino dei rifugiati arabi è stato diametralmente opposto a questa ovvia e positiva soluzione del loro problema. I leader arabi li hanno tenuti di proposito in campi profughi che a volte rasentavano lo status di campi di concentramento, perpetuando il loro stato di miseria al machiavellico scopo di usarli come un’arma di propaganda contro Israele e contro l’Occidente. I rifugiati palestinesi in Gaza vi furono deportati nel 1948 non da Israele ma dall’Egitto, ed ivi trattenuti sotto controllo, uccisi se tentavano la fuga, senza mai ottenere né la cittadinanza né il passaporto egiziano (questi fatti sono ricordati dallo stesso Yasser Arafat nella sua biografia autorizzata di Alan Hart, Arafat: Terrorist or Peace Maker, del 1982). I rifugiati in Libano furono tenuti in un simile duro stato di repressione. Ad essi le leggi libanesi proibivano l’esercizio di una settantina di professioni, non concedevano la cittadinanza né permettevano loro di viaggiare. Solo la Giordania concesse la cittadinanza ai profughi arabi. Il membro anziano del comitato centrale di Fatah, Sakher Habash, illustrò succintamente il motivo del rifiuto calcolato dei governi arabi, inclusa l’Autorità palestinese, di aiutare i rifugiati palestinesi a tornare ad una vita normale. Nel 1998, durante una lettura all’Università Shechem’s An-Najah, Habash disse: «Per noi, la questione dei rifugiati è la carta vincente che significa la fine dello stato di Israele». In altre parole, guerra, terrorismo, isolamento diplomatico di Israele, campagna mediatica mondiale mirata a demonizzare Israele, possono fallire (e alcune tra queste opzioni lo hanno già fatto); ma finché questa ultima carta potrà essere giocata, la speranza di distruggere Israele pulserà nei cuori dei revanscisti arabi. I palestinesi che abbandonarono Israele nel 1948 e che sono tuttora viventi non hanno un diritto legale a tornare in Israele perchè la leadership araba che li rappresenta (le nazioni arabe fino al 1993 e l’Autorità palestinese dopo) sono tuttora, de iure e de facto, in guerra con Israele; a questi rifugiati perciò sono ancora potenzialmente da considerarsi ostili. Le leggi internazionali non richiedono ad un paese di suicidarsi permettendo l’ingresso sul suo territorio di migliaia di persone ostili. Nel contesto di un trattato di pace, nel 1949, i rifugiati arabi potevano avvantaggiarsi dell’offerta israeliana ma la loro leadership rifiutò. Naturalmente l’attuale richiesta palestinese di un “diritto al ritorno” vale non per i 725.000 rifugiati del 1948 (meno coloro che sono deceduti nel corso dei decenni) ma per 5 milioni. Tale numero è utile a molti scopi politici ma dal punto di vista delle leggi internazionali, le generazioni nate da una popolazione rifugiata altrove e vivente in esilio non hanno lo status legale di rifugiate. Ciò significa che tale status può applicarsi unicamente a quei pochi arabi rifugiati del 1948 tuttora viventi, tra cui molti di essi sono parecchio avanti in età.
Sommario dei fatti salienti
La crisi dei rifugiati arabi è stata artificialmente protratta e mantenuta per 57 anni dai governi arabi allo scopo di: sfruttare le sofferenze di quella gente; creare un’«immagine cartolina» della “vittima palestinese”; fornire un quadro di riferimento per la propaganda contro Israele nonché un centro di addestramento per il terrorismo arabo; e infine, per Sakher Habash, allo scopo di avere una carta vincente da giocare quando tutto il resto (guerra, terrorismo, diplomazia internazionale) avesse fallito. La «Haq el-Auda», la “legge del ritorno” degli arabi palestinesi a case, fattorie e frutteti che sono parte di Israele da 57 anni, è una mistificazione. Sessant’anni fa vi erano oltre un milione di ebrei negli stati arabi del Medio Oriente: cittadini onesti che lavoravano sodo contribuendo alla cultura e all’economia dei loro paesi. Oggi non vi sono più praticamente ebrei in quei paesi e leggi razziste di apartheid proibiscono persino ai turisti ebrei di entrare in alcuni paesi arabi. D’altra parte, in Israele gli arabi che non fuggirono erano circa 170.000 nel 1949. Oggi il loro numero supera 1.400.000 persone. Essi hanno 12 rappresentanti al Parlamento israeliano, giudici presso la corte ordinaria e la Corte Suprema, nonché professori che insegnano liberamente presso le scuole e le università israeliane. Si tratta di una popolazione che gode di maggiori libertà, educazione ed opportunità economiche di qualsiasi altra popolazione araba vivente ovunque nel mondo arabo. I governi arabi causarono il problema dei rifugiati arabi nel 1948 con la loro guerra di aggressione contro il nascente stato di Israele, legalmente stabilito dalle Nazioni Unite; i governi arabi hanno da allora mantenuto i rifugiati arabi in campi profughi, negando loro ogni possibilità di tornare ad una vita normale nei loro paesi, allo scopo di usare le sofferenze da essi stessi create come un’arma nella guerra infinita contro Israele. Durante tutti questi decenni i campi profughi e i loro sfruttatori arabi sono stati finanziati con miliardi di dollari dalle Nazioni Unite, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dall’Unione Europea e altri.
2. GLI OTTO EVENTI CHE HANNO CREATO IL PROBLEMA
La partenza degli Arabi da quello che stava per divenire lo stato di Israele ebbe luogo in otto momenti diversi.
1. Agli inizi dell’autunno del 1947, mesi prima del piano di partizione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, era chiaro che ci sarebbe stata una guerra, qualsiasi fosse stata la linea di partizione disegnata. In previsione del conflitto, molti degli arabi della classe dirigente (gli effendi) della Galilea occidentale, da Haifa ad Acco e vari villaggi tra queste città, sbarrarono le loro case e andarono a Beirut o a Damasco. Con le loro ricchezze e i loro legami, avrebbero aspettato la fine della guerra in tutta sicurezza. Nessuno immaginava che il neonato stato di Israele poteva vincere una guerra contro gli stati arabi. Gli arabi partiti pensavano di tirarsi fuori dal pericolo e, a guerra finita, di tornarsene alle loro case. Le stime correnti di osservatori obiettivi (Conor Cruise O’Brien con il suo libro L’Assedio è forse il più obiettivo) calcolano queste persone in circa 70.000.
2. La loro decisione provocò l’improvvisa assenza di una leadership politica e sociale tra gli arabi della Galilea, e così, non appena ebbero luogo i primi scontri nell’inverno del 1947, seguendo l’esempio dei loro leaders, molti tra i contadini arabi (i Felahin) fuggirono. Ma a questi mancavano i soldi e i legami per procurarsi un piacevole soggiorno fuori pericolo, come i loro effendi. Così molti di loro semplicemente partirono verso il Libano o la Siria portandosi dietro tutto ciò che potevano trasportare. La loro leadership era fuggita, fatto che li indusse a credere che le cose si mettevano male, e così pensarono di far bene ad imitarla e partire anch’essi. E anche loro erano sicuri, così come dimostra la stampa araba del tempo, che una volta finita la guerra e una volta uccisi o buttati fuori tutti gli ebrei da Israele, sarebbero tornati alle loro case. Non ci sono cifre consolidate riguardo a questo esodo, ma le stime parlano di circa 100.000 persone. Una cifra che gli stati arabi ritennero già così alta al punto che indissero una conferenza speciale a Beirut per decidere come gestire il problema degli arabi che attraversavano i loro confini. Gli arabi allestirono per gli arabi campi speciali che più tardi divennero famosi come “campi profughi”. Questi arabi erano partiti di loro libera volontà. Nessuno, né Israele né altri stati arabi, li aveva incoraggiati, minacciati o ordinato loro di fuggire. La guerra non era neppure cominciata.
3. Dopo il 29 novembre 1947 gli scontri tra l’Haganah israeliano e le organizzazioni para-militari arabe aumentarono e decine di migliaia di volontari arabi corsero ad arruolarsi. La stampa araba e i discorsi pubblici resero chiaro che quella doveva essere una guerra di annientamento, simile a quelle delle grandi orde mongole che sterminavano chiunque incontrassero sul loro cammino. Gli ebrei sarebbero stati uccisi o cacciati. Israele non stava combattendo una guerra di indipendenza, ma una guerra di sopravvivenza. Allo scopo di difendere alcune aree dove gli ebrei erano completamente circondati da arabi (come gli ebrei di Jaffa, dei villaggi ebraici e dei kibbutzim di alcune parti della Galilea e dell’area collinare centrale, nonché di Gerusalemme), l’Haganah adottò tecniche di intimidazione mirate a disseminare il panico tra la popolazione araba di quelle aree, allo scopo di indurli a ritirarsi in zone per loro più sicure. Ciò consentì all’Haganah di difendere quegli ebrei che altrimenti sarebbero stati irraggiungibili e perciò vulnerabili alle intenzioni genocide arabe. Molti arabi di parte della Galilea occidentale, di Jaffa e di Gerusalemme ovest, fuggirono a causa delle voci messe in giro secondo cui una enorme armata ebraica proveniente da occidente stava per sbarcare sulla costa, gettando bombe a mano nei patii delle case, a bordo di jeep da cui mitragliavano i muri e i recinti delle case: dicerie fatte circolare da ebrei che parlavano arabo. Si disse che l’Haganah era molto più grande e potente di quanto poi fosse in realtà, che stava per scatenare un attacco in massa insieme all’armata ebraica, ecc. È importante notare che in questo caso gli ebrei furono responsabili della partenza degli arabi. Ma non perché essi volessero effettuare una pulizia etnica del paese, o cacciare gli arabi. Ciò avvenne perché essi sapevano che le comunità ebraiche, indifese nelle enclavi arabe, sarebbero state sterminate (come infatti avvenne per gli ebrei del villaggio di Gush Etzion e nel quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme, e ad Hebron nel 1929). Fu l’esigenza di dover combattere una guerra di sopravvivenza contro un nemico molto superiore e meglio armato che li spinse ad adoperare le tattiche sopra descritte. È importante anche non dimenticare questi fatti: se la leadership araba avesse accettato il piano di ripartizione ONU, ci sarebbe per gli arabi uno stato della Palestina già dal 29 novembre 1947, accanto ad Israele. Se gli eserciti arabi non avessero invaso Israele, non ci sarebbe stato alcun problema di rifugiati. Questi due fatti rendono evidente che l’onere totale della colpevolezza per l’inizio del problema dei rifugiati ricade chiaramente e solamente sugli stati arabi che attaccarono Israele, in palese disprezzo della Risoluzione dell’ONU n. 181 e delle leggi internazionali.
4. Il comando arabo delle forze para-militari e i quadri militari della Siria fecero clamorosi annunci con cui ordinarono che gli arabi andassero via, così che i loro eserciti avessero campo libero per perpetrare il genocidio degli ebrei. A guerra finita e una volta uccisi o buttati fuori tutti gli ebrei, i residenti arabi avrebbero potuto far ritorno e riprendere possesso sia delle loro terre sia di quelle degli ebrei. Non possiamo sapere quanti arabi partirono a causa di questi ordini; ma siccome numerosi portavoce arabi dopo la guerra ammisero con ciò, manifestando pubblicamente un doloroso pentimento, di aver creato il problema dei rifugiati, è evidente che l’ordine impartito dal comando arabo ai molti arabi residenti nel teatro di guerra costituì un fattore notevole per il loro esodo (v. Appendice). È importante anche sottolineare che in molti casi i leader ebrei chiesero pubblicamente agli arabi di non andare via. Il sindaco di Haifa è il miglior esempio di ciò. A rischio della propria vita, guidò attraverso la parte araba di Haifa con un altoparlante montato sulla sua jeep, ed in arabo fece appello ai residenti della città di non ascoltare la propaganda araba. Nondimeno, decine di migliaia fuggirono. Gli increduli ufficiali britannici che furono testimoni di ciò, lo documentarono in numerose fonti. Quegli arabi che restarono rimasero incolumi e divennero cittadini dello stato di Israele (v. Appendice) I britannici inoltre documentarono un fenomeno simile in Tiberiade (una città in cui la popolazione araba superava largamente quella ebraica). Gli arabi chiesero letteralmente di partire sebbene non fossero sotto alcuna minaccia diretta da parte degli ebrei e chiesero ai britannici di assisterli. Decine di migliaia partirono sotto scorta britannica mentre gli ebrei, sia i civili sia i membri dell’Haganah, rimasero a guardare. In circostanze lievemente diverse, gli arabi di Safed (Tzefat) fuggirono davanti all’attacco dell’Haganah, anche se le forze arabe in Safed superavano quelle ebraiche con una proporzione di circa 10 a 1. Ovunque gli arabi scelsero di rimanere, rimasero incolumi e divennero più tardi cittadini israeliani. In numerosi saggi scritti dopo gli eventi, gli storici contestano la verità dell’asserzione che furono i leader arabi ad ordinare alla loro gente di fuggire. Ma nel libro di Conor Cruise O’Brien, L’Assedio e ne I Miti e i Fatti del Conflitto Mediorientale, di Mitchell Bard, vi sono le prove irrefutabili dell’esistenza di tali dichiarazioni.
5. Deir Yassin. Gli eventi che ebbero luogo a Deir Yassin sono ancora oggi oggetto di roventi dispute. Ma, da parte sua, la leadership araba oggi ammette che le bugie create dagli arabi circa il fittizio “massacro” furono preparate sia per svergognare gli eserciti arabi e spingerli a lottare contro gli ebrei, sia per spaventare i civili arabi, incoraggiandoli a fuggire [v. PBS, Cinquant’anni di guerra – Israele e gli arabi (DVD 1993)]. Il villaggio era situato vicino a Gerusalemme, a cavallo della strada che porta a Tel Aviv. La parte ebraica di Gerusalemme era sotto assedio, e la sua unica ancora di salvataggio era questa strada di collegamento con Tel Aviv. Un contingente di truppe dell’Iraq era entrato a Deir Yassin il 13 marzo 1948. Le fonti riferiscono che fu chiesto loro di andare via. Non lo fecero, poiché i loro corpi, con ancora le armi in pugno, erano numerosi fra i morti dopo la battaglia. Era ovvio che gli iracheni stavano tentando di tagliare quella strada e, così facendo, di porre fine alla Gerusalemme ebraica. Perciò il 9 aprile 1948, un contingente dell’Irgun (un gruppo para- militare) penetrò nel villaggio. Questa operazione era completamente legittima dal punto di vista delle regole di ingaggio, poiché la presenza degli iracheni rendeva il villaggio un obiettivo militare legittimo. Il loro scopo, quello di prendere il villaggio e cacciare gli iracheni, era chiaro fin dal principio, poiché essi entrarono a bordo di una jeep e dagli altoparlanti chiesero alla popolazione civile di lasciare il villaggio. Sfortunatamente questa jeep scivolò in una fossa, così alcuni abitanti del villaggio non poterono sentire la comunicazione; comunque, molti lo fecero e fuggirono di fronte all’arrivo dell’Irgun al villaggio. Piuttosto che circondare il villaggio e prevenirne la fuga degli abitanti, l’Irgun lasciò molte vie di fuga libere per consentire loro di fuggire, e centinaia di civili le utilizzarono. Ma gli iracheni si travestirono da donne – è facile nascondere armi sotto le vesti fluenti del burqa – e si nascosero fra le donne e i bambini del villaggio. Così, quando i combattenti dell’Irgun entrarono, incontrarono il fuoco delle “donne!” La reazione dei combattenti dell’Irgun causò anche la morte di donne innocenti, ma a causa del fatto che gli iracheni si vestirono come donne e se ne fecero scudo. Dopo aver subito la perdita di oltre il 40% delle sue forze, l’Irgun decise di catturare o uccidere gli iracheni. Dopo poco le forze arabe si arresero e si dichiararono prigionieri ma dal gruppo, ancora vestiti da donne, alcuni iracheni aprirono il fuoco con le armi che tenevano nascoste sotto le vesti. I combattenti dell’Irgun furono sorpresi, i più furono uccisi, ed altri aprirono il fuoco sul gruppo. Gli iracheni che si erano arresi davvero finirono uccisi insieme a quelli che avevano solamente finto di arrendersi ed avevano aperto poi il fuoco. All’arrivo dell’Haganah furono ritrovati i corpi delle donne e di altri civili e questo causò l’accusa imprecisa di assassinio e massacro nei confronti dell’Irgun. Ma la Croce Rossa, chiamata per assistere i feriti ed i civili, non trovò prove di un massacro indiscriminato. Infatti, anche una fra le più recenti collazioni di prove (del luglio 1999) redatta da studenti arabi dell’Università Beir-Zayyit di Ramallah, affermano che non vi fu massacro, ma piuttosto un conflitto militare in cui civili furono uccisi dal fuoco incrociato. Secondo i calcoli della Beir-Zayyit il totale dei morti arabi, incluso i soldati iracheni, fu di 107 caduti. Quindi, da dove è venuta l’idea del massacro? Le stesse fonti arabe che confessano di aver ordinato ai civili arabi di fuggire, riconoscono anche che i portavoce arabi esagerarono cinicamente le perdite della battaglia di Deir Yassin, inventando storie di violenze di gruppo, brutalità nei riguardi di donne incinte, uccisione di bambini non ancora nati strappati dal ventre delle loro madri da ebrei assetati di sangue, omicidi di massa e cadaveri gettati in una cava lì vicino. Le stesse fonti arabe ammettono che lo scopo di queste bugie fu ancora quello di svergognare le nazioni arabe e farle entrare nel conflitto con maggiore alacrità, così che gli ebrei fossero distrutti dalla superiorità numerica degli invasori arabi. Il piano fallì. Come risultato di questa propaganda, i civili arabi furono colti dal panico, e fuggirono a decine di migliaia. Ciò fu confermato dal documentario della PBS del 1993, intitolato Cinquanta anni di Guerra, in cui furono intervistati i superstiti di Deir Yassin. Questi testimoniarono che loro stessi avevano implorato il Dott. Hussein Khalidi, direttore di Voce della Palestina (la stazione radio palestinese a Gerusalemme Est) di eliminare quelle bugie e quei racconti di atrocità che mai erano accadute. Egli rispose loro: «Noi dobbiamo capitalizzare questa grande opportunità! » La fuga degli arabi del resto era cominciata molti mesi prima di Deir Yassin. Quindi Deir Yassin non rileva per quel centinaio di migliaia di arabi che fuggirono prima del 9 aprile 1948. Inoltre, mentre la propaganda araba corrente asserisce che quello di Deir Yassin era uno dei molti esempi di massacri e stragi ebraiche, non vi è alcun altro esempio documentato di alcuno di tali comportamenti da parte degli ebrei. In definitiva, non fu quello che accadde a Deir Yassin a provocare l’esodo di decine di migliaia di arabi; furono invece le bugie inventate dall’Alto Comando arabo e sostenute dal Dott. Hussein Khalidi della “Voce della Palestina”, canale radio di notizie, a provocare il panico. Non si può certo biasimare Israele per questo. Inoltre, abbiamo al riguardo informazioni da una fonte famosa, ovvero lo stesso Yasser Arafat (cito dalla sua biografia autorizzata, di Alan Hart, Arafat: Terrorista o Creatore di Pace) che sostiene che le bugie di Deir Yassin furono sparse «come un drappo rosso di fronte ad un toro» anche dagli egiziani. Poi, dopo averli terrorizzati con queste storie, gli egiziani presero a disarmare gli arabi dell’area e a raggrupparli in campi di detenzione in Gaza (gli attuali campi profughi di Gaza). Perché gli egiziani fecero questo? Secondo Arafat, per tenere gli arabi fuori dall’area perché gli egiziani volevano mano libera per gestire la loro guerra. L’Egitto aveva ogni intenzione di conquistare il Negev e parte meridionale del piano litoraneo. E non volevano interferenze dagli arabi locali. Deir Yassin non fu un massacro; non accadde mai nulla di neppure vagamente simile a ciò di cui furono accusati gli ebrei. Noi non sappiamo quanti arabi fuggirono come risultato della propaganda araba su Deir Yassin. Qualche centinaio di migliaia sono una buona stima. La maggior parte di loro finirono nei campi di detenzione egiziani in Gaza.
6. Oltre a Deir Yassin, vi sono due altri incidenti dei quali si dice che le azioni dell’esercito israeliano abbiano provocato dei rifugiati arabi: Lydda e Ramle. Ambo i villaggi erano situati a cavallo della strada che va da Tel Aviv a Gerusalemme. Non appena Gerusalemme fu stretta d’assedio dagli eserciti arabi, le forze israeliane capirono che, per salvare gli ebrei di Gerusalemme ovest dalla sconfitta e dal possibile annientamento, dovevano ancora tenere quella strada aperta. Così una notte entrarono nei villaggi e forzatamente spinsero fuori i residenti arabi. Li svegliarono dal letto e li guidarono, marciando con loro attraverso i campi, verso l’area che era sotto il controllo giordano, distante alcuni chilometri. Nessuno fu ucciso. Non vi fu alcun massacro, ma essi furono portati via. D’altra parte ciò avvenne perché i loro villaggi erano situati in posizione strategica a cavallo della strada verso Gerusalemme, e l’unico modo di garantire la sopravvivenza di 150.000 ebrei di Gerusalemme era controllare questa unica strada.
7. Dal 15 maggio 1948, gli inglesi evacuarono le loro forze da tutta la Palestina Mandataria britannica, e l’Haganah, nel frattempo diventato IDF (Forze di Difesa Israeliane), ebbe mano libera. Anche i paesi arabi ebbero mano libera nell’attaccare, e infatti attaccarono quel giorno stesso. Gli eserciti di otto dittature arabe si riversarono nell’area da Libano, Siria, Giordania, Iraq ed Egitto (a cui si unirono anche volontari e soldati da Arabia Saudita, Yemen e Marocco). Questi superavano in numero l’IDF approssimativamente di cinque ad uno. Per il mese seguente gli israeliani combatterono così una terribile guerra difensiva e furono appena in grado di tenere gli invasori fuori. C’erano approssimativamente 63.000 volontari dell’IDF ma le armi erano sufficienti soltanto per 22.000 di essi. Nel giugno del 1948 le Nazioni Unite imposero il cessate il fuoco. Ma a luglio, quando gli arabi ripresero le ostilità, gli israeliani erano stati capaci di utilizzare la tregua per importare armi ed aeroplani da Russia e Germania attraverso la Cecoslovacchia. Meglio armati, gli effettivi dell’IDF contavano 65.000 volontari e la proporzione si riduceva così a 2 effettivi arabi contro 1 israeliano. Era un buon rapporto per i determinati combattenti ebrei. A luglio, quando i combattimenti ripresero, l’IDF si mise sull’offensiva e riuscì a spingere gli eserciti arabi fuori delle aree ebraiche e da gran parte delle aree che l’ONU aveva stabilito essere lo stato palestinese, (Galilea occidentale, litoraneo nord e sud di Gaza). Quando questa offensiva cominciò, fuggirono altri arabi. Ma anche in questo caso, gli arabi che rimasero non furono danneggiati e divennero cittadini di Israele. Contrariamente alla propaganda araba e revisionista, non vi fu mai alcun intento di massacrare arabi, anche se gli arabi intendevano chiaramente massacrare gli ebrei. Molti civili morirono nel fuoco incrociato, e la maggioranza degli arabi che fuggirono lo fecero senza un reale motivo e di propria iniziativa, o a causa dell’ordine del Comando arabo che mentì e li terrorizzò. In almeno due specifici casi alcuni arabi furono portati via dall’IDF come misura difensiva. Non era parte di alcun piano fare “pulizia etnica” o massacrare gli arabi. Queste accuse sono tutte parte di un revisionismo nuovo e mendace mirato a discolpare gli arabi dal loro ruolo di aggressori e dalle loro responsabilità nella creazione del problema dei rifugiati arabi. Il loro obiettivo è far ricadere la colpa su Israele. La prova che Israele non ha mai cacciato gli arabi della Palestina a scopo di pulizia etnica è nei fatti seguenti: 1) l’assenza totale di notizie di fatti ed eventi concreti in tutta la stampa mondiale, inclusa la stampa araba e la stampa occidentale apertamente ostile all’operato di Israele; 2) l’assenza completa di queste accuse da parte di molti portavoce arabi durante quel tempo, anche molto tempo dopo la loro fuga (post-Deir Yassin), e per molti anni ancora da allora; e 3) il destino degli arabi che rimasero in Israele: essi divennero cittadini israeliani e da allora godono di più libertà, democrazia, rappresentanza politica, standard di vita elevati, migliore istruzione e opportunità economiche di qualsiasi arabo vivente in qualunque stato arabo. Infine, dopo il cessate il fuoco del febbraio 1949, che segnò la fine della guerra, continuò l’esodo di decine di migliaia di arabi senza che gli ebrei facessero assolutamente nulla per incoraggiare o forzare la loro partenza.
8. Durante i colloqui in occasione dell’armistizio di Rodi del febbraio 1949, Israele offrì agli arabi di tornare alle terre da esso occupate come conseguenza della guerra e che erano originariamente destinate a diventare parte dello stato palestinese se gli arabi avessero firmato il trattato di pace. Ciò avrebbe permesso il ritorno di migliaia di rifugiati alle loro case. Ma gli arabi rifiutarono l’offerta perché, come essi stessi ammettono, stavano pianificando una nuova offensiva. Avevano perduto il primo scontro ma speravano in ulteriori battaglie finché non avessero ottenuto la vittoria. La loro nuova offensiva ebbe luogo sotto forma di 9.000 attacchi terroristici, portati dai fedayeen provenienti per la maggior parte dall’Egitto, perpetrati ai danni di Israele dal 1949 al 1956. Alla conferenza di Losanna che si svolse da agosto a settembre del 1949, Israele offrì a 100.000 rifugiati arabi la possibilità di rimpatriare anche in assenza di un trattato di pace. Ma gli stati arabi rifiutarono l’offerta perché accettarla avrebbe comportato un tacito riconoscimento dello stato di Israele. In altre parole, nonostante le continue offerte di rimpatrio da parte di Israele, gli arabi insisterono nel tenere i rifugiati arabi nei campi profughi nello squallore e nella sofferenza. I portavoce arabi in Siria e in Egitto dichiararono ai giornali: «Noi terremo i rifugiati nei loro campi finché la bandiera della Palestina sventolerà sopra tutta la terra. Essi torneranno indietro solo da vincitori, sulle fosse e sui cadaveri degli ebrei». Inoltre, secondo le dichiarazioni di qualche arabo (candido abbastanza da affermarlo in pubblico) il problema dei rifugiati doveva servire come «una pustola purulenta sul didietro dell’Europa», ovvero come sistema di leva morale da usare contro Israele per guadagnarsi l’appoggio emotivo dell’Occidente a danno di Israele. Conclusioni Il problema dei rifugiati arabi fu creato dal conflitto scatenato dalle dittature arabe che umiliarono l’ONU, invasero Israele, incoraggiarono gli arabi a fuggire, e infine tennero di proposito i rifugiati arabi in uno stato di umiliante povertà a scopo di propaganda. Il ruolo di Israele nella creazione della questione dei rifugiati è relativamente minore e limitato al legittimo contesto militare. Israele ha tentato di risolvere la questione dopo la guerra, ma le sue offerte sono state rifiutate dagli stati arabi. Il problema dei rifugiati fu allora intenzionalmente perpetuato dagli stati arabi mediante il loro rifiuto di obbedire alle risoluzioni dell’ONU e alla Convenzione di Ginevra, al loro rifiuto di integrare i rifugiati nei loro sotto-popolati stati arabi (ad eccezione della Giordania), al loro rifiuto di intraprendere qualunque passo verso la soluzione del problema offerta da Israele o da chiunque altro. Perpetuando il problema dei rifugiati, i leader arabi miravano a guadagnare uno pseudo-vantaggio morale nei riguardi dell’Europa e di Israele, sfruttando una “umanità dolente” per la loro propaganda di guerra contro Israele, usando la questione come arma politica. Anche dopo il 1979, quando l’Egitto firmò il trattato di pace con Israele, gli egiziani rifiutarono di gestire la questione dei rifugiati della Striscia di Gaza e ne lasciarono tutto il controllo ad Israele. Analoghe modalità furono adottate nel trattato di pace del 1994 tra la Giordania e Israele. La Giordania aveva già integrato migliaia di palestinesi nella sua economia e non vide alcun bisogno né alcuna responsabilità per trattare riguardo all’allocazione di quelli residenti sulla West Bank. Gli abusi, le esagerazioni, le bugie e le distorsioni perpetrate dai governi arabi, dall’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite e dagli stessi portavoce dei rifugiati hanno reso impossibile, fin dal 1949, identificare una popolazione rifugiata in bona fide. Nel 1967 gli stati arabi lanciarono una nuova guerra di aggressione contro Israele e, come risultato, Israele divenne l’autorità di governo sulla Striscia di Gaza, sulla penisola del Sinai, sulle alture del Golan e sulla West Bank. Sotto la guida israeliana, dal 1967 al 1992, la popolazione palestinese della West Bank hanno sperimentato gli standard di vita più elevati rispetto a quelli di qualsiasi altra popolazione residente in qualsiasi paese arabo (ad eccezione dei paesi petroliferi). Ciò vale ancor di più per gli arabi israeliani. La popolazione araba della West Bank e della striscia di Gaza è triplicata dal giugno del 1967! Al contrario, dal trasferimento dell’autorità su tali territori nelle mani dell’OLP di Arafat nel 1993, le condizioni della popolazione palestinese si sono deteriorate precipitosamente. Gli standard vi vita nella West Bank palestinese si sono erosi, e il PIL è ora un decimo di quello registrato sotto l’amministrazione israeliana. Ciò si deve alla sottrazione di circa 5,2 miliardi di dollari da parte dell’Autorità Palestinese a favore dei conti personali di Arafat e dei suoi luogotenenti, alla negligenza sulle infrastrutture, e alla continua guerra terroristica contro cui Israele ha dovuto esercitare il controllo difensivo e deterrente. Dare giustizia ai rifugiati ebrei ed arabi avrebbe potuto essere parte di un accordo di pace se gli stati arabi l’avessero voluto. Oggi vi sono possibili soluzioni, ma solo se l’Autorità Palestinese fermerà la guerra del terrore.
APPENDICE Fonti a conferma del fatto che i leader arabi chiesero agli arabi di partire e i rapporti relativi alla fuga dei rifugiati arabi:
1. «Il primo gruppo della nostra quinta colonna è formato da quelli che abbandonano le loro case… Al primo segnale di guai essi mettono le gambe in spalla e scappano per dividere il fronte della lotta» – Ash-Sha’ab, Jaffa, 30 gennaio 1948
2. «…stanno abbattendo il disonore su tutti noi… abbandonando i loro villaggi» – As-Sarih,Jaffa,30 marzo 1948
3. «Ogni sforzo è fatto dagli ebrei per persuadere il popolo arabo a restare e continuare le loro vite normali, tenere i loro negozi e le loro attività aperte, nella certezza che le loro vite ed interessi resteranno sicuri.» – HQ della Polizia britannica del Distretto di Haifa, 26 aprile 1948, (citato in Campo di battaglia da Samuele Katz).
4. «L’evacuazione di massa, causata in parte da paura, in parte da ordini di leader arabi, rese il quartiere arabo di Haifa una città fantasma.... Portando via i lavoratori arabi i loro leader speravano di paralizzare Haifa.» – Time Magazine, 3 maggio 1948, p. 25
5. «Le strade arabe (della Palestina) sono curiosamente abbandonate (perché) … seguendo l’esempio meschino della classe danarosa, c’è stato un esodo da Gerusalemme, anche se non della stessa estensione come a Jaffa e Haifa». – London Times, 5 maggio 1948
6. «I civili arabi furono colti dal panico e fuggirono ignominiosamente. I villaggi furono spesso abbandonati prima ancora che fossero minacciati dal progredire della guerra.» – Generale John Glubb “Pasha,” The London Daily Mail, 12 agosto 1948
7. «Il fatto che ci siano questi rifugiati è la conseguenza diretta dell’azione degli stati arabi contro la partizione e contro lo stato ebraico. Gli stati arabi furono d’accordo unanimemente su questa politica e ora devono partecipare alla soluzione del problema.» – Emile Ghoury, segretario del Palestinian Arab Higher Committee in un’intervista col Beirut Telegraph del 6 settembre 1948. (La stessa intervista apparve sul London Telegraph, nell’agosto 1948)
8. «Il fattore più potente [nell’esodo dei palestinesi] fu costituito dai proclami fatti diffondere dall’Arab-Palestinian Higher Committee, che esortava tutti gli arabi di Haifa arabi a fuggire... Fu chiaramente intimato che gli arabi che fossero rimasti in Haifa ed avessero accettato la protezione degli ebrei sarebbero stati considerati rinnegati.» – Economist di Londra, 2 ottobre 1948
9. «Non deve essere dimenticato che l’Arab-Palestinian Higher Committee incoraggiò i rifugiati a lasciare le loro case in Jaffa, Haifa, e Gerusalemme”. – Near East Arabic Broadcasting Station, Cipro, 3 aprile 1949
10. «Gli arabi di Haifa fuggirono nonostante il fatto che le autorità ebraiche garantirono la loro sicurezza e diritti come cittadini di Israele.» – Monsignor Giorgio Hakim, Vescovo di Galilea, New York Herald Tribune, 30 giugno 1949
11. «Le autorità militari e civile (israeliane) espressero il loro profondo rammarico per questa grave decisione (presa dai delegati militari arabi di Haifa e dalla catena di comando dell’Arab- Palestinian Higher Committee di evacuare Haifa nonostante l’offerta israeliana di una tregua). Il sindaco ebreo di Haifa rivolse un accorato appello alla delegazione (di leader militari arabi) a riconsiderare la loro decisione.» – Memorandum del Comitato Nazionale arabo di Haifa ai governi della Lega araba, 1950, citato in J. B. Schechtman, I Rifugiati nel Mondo, NY 1963, pp. 192f.
12. Sir John Troutbeck, dell’Ufficio britannico per il Medio Oriente, in Cairo, riportò ai superiori (1948-49) che i rifugiati (in Gaza) non mostravano amarezza contro gli ebrei, ma piuttosto nutrivano un odio intenso verso egiziani: «Loro dicono: “noi sappiamo chi sono i nostri nemici (riferendosi agli egiziani)”, e dichiarano che i loro fratelli arabi li hanno persuasi a lasciare le loro case senza motivo… Ho anche sentito dire che molti dei rifugiati avrebbero dato il benvenuto agli israeliani qualora fossero entrati a prendere il distretto».
13. «Gli stati arabi che avevano incoraggiato gli arabi di Palestina a lasciare temporaneamente le loro case per essere fuori dai percorsi degli eserciti di invasione arabi, non sono riusciti a mantenere la loro promessa di aiutare questi rifugiati.» Dal quotidiano giordano Falastin, del 19 febbraio 1949.
14. «Il Segretario Generale della Lega araba, Azzam Pasha, assicurò al popolo arabo che l’occupazione della Palestina e di Tel Aviv sarebbe stata semplice come una parata militare... Il consiglio fraterno dato agli arabi della Palestina fu di lasciare le loro terre, case e proprietà per stare temporaneamente ai confini degli stati fratelli, lasciando il passo alla calata degli eserciti invasori arabi.» – Al Hoda, quotidiano libanese in New York, 8 giugno 1951.
15. «Chi portò i palestinesi nel Libano come rifugiati, ora patendo a causa dell’atteggiamento dannoso di giornali e leader locali privi di onore e di coscienza? Chi li portò diritto in una morsa atroce e senza un soldo, dopo avergli fatto perdere l’onore? Furono gli stati arabi, e il Libano fra questi.» – Kul-Shay, settimanale islamico in Beirut, 19 agosto 1951.
16. «Noi distruggeremo il paese con le nostre armi e cancelleremo ogni luogo in cui gli ebrei cercheranno ricovero. Gli arabi dovrebbero condurre le loro mogli e bambini ad aree sicure fino alla fine dei combattimenti». – Primo Ministro iracheno Nuri Said, citato in Sir An-Nakbah (I segreti dietro il disastro) di Nimr el-Hawari, Nazareth, 1952.
17. «L’esodo arabo… non fu causato dalla battaglia attuale, ma dal diffondersi di voci esagerate ad opera dei leader arabi per incitarli a lottare contro gli ebrei. …Per l’esodo e la caduta degli altri villaggi sono i nostri leader ad essere responsabili a causa della loro diffusione di voci esagerate sui crimini e sulle atrocità commesse dagli ebrei, mirate ad infiammare gli arabi... Diffondendo dicerie sulle atrocità degli ebrei, uccisioni di donne e bambini ecc., loro instillarono paura e terrore nei cuori degli arabi in Palestina, finché questi abbandonarono le loro case e proprietà al nemico.» Al Urdun, quotidiano giordano, 9 aprile 1953.
18. «I governi arabi ci dissero: Andate via, così che noi possiamo entrare. Quindi noi uscimmo, ma loro non entrarono.» Un rifugiato citato in Al Difaa (Giordania), 6 settembre 1954.
19. «L’esodo di massa fu in parte dovuto alla credenza degli arabi, incoraggiati dalla pompa di una stampa irrealistica e dalle espressioni irresponsabili di alcuni dei leader arabi, che potesse essere solamente una questione di alcune settimane prima che gli ebrei fossero sconfitti dagli eserciti degli stati arabi, e gli arabi palestinesi potessero rientrare e riprendere possesso del loro paese». – Edward Atiyah (Segretario della Lega araba, Gli arabi, Londra, 1955 p. 183)
20. «Nei primi mesi del 1948, la Lega araba pubblicò ordini che esortavano le persone a cercarsi un rifugio temporaneo in paesi vicini, per ritornare più tardi alle loro dimore... e prendere possesso della propria parte di proprietà ebraiche abbandonate.» – Bollettino del Gruppo di Ricerca Europeo Sui Problemi della Migrazione, 1957.
21. «Gli israeliani argomentano che gli stati arabi incoraggiarono i palestinesi a fuggire. E, infatti, gli arabi che ancora vivono in Israele ricordano di essere stati invitati ad evacuare Haifa dai comandanti militari arabi che vollero bombardare la città.» – Newsweek, 20 gennaio 1963.
22. «Il 15 maggio 1948 arrivò... In quel giorno i muftì di Gerusalemme fecero appello agli arabi della Palestina di lasciare il paese, perché gli eserciti arabi stavano quasi per entrare e lottare al loro posto.» Akhbar el Yom, quotidiano de Il Cairo, 12 ottobre 1963.
23. Nell’elencare le ragioni per il fallimento arabo nel 1948, Khaled al-Azm (Primo Ministro della Siria) nota che «… il quinto fattore fu l’appello dei governi arabi agli abitanti della Palestina affinché la evacuassero per situarsi ai confini dei paesi arabi. Fin dal 1948, siamo stati noi a chiedere il ritorno dei rifugiati, ma siamo stati noi chi li facemmo andare via. Noi portammo il disastro su un milione di rifugiati arabi invitandoli e facendo pressione su di loro per andare via. Noi li abbiamo abituati ad implorare... noi abbiamo partecipato ad abbassare il loro livello morale e sociale... E sempre noi li sfruttammo per eseguire crimini e omicidi, incendi e lanci di pietre su uomini, donne e bambini... tutto questo al servizio di scopi politici...» – Khaled el-Azm, primo ministro siriano dopo la Guerra del 1948, nella sua monografia del 1972 (pubblicata nel 1973). 24. “Gli stati arabi riuscirono a disperdere i palestinesi e a distruggere la loro unità. Loro non li riconobbero come un popolo unificato finché non lo fecero gli stati del mondo, e questo è deplorevole.» – Abu Mazen (Mahmoud Abbas), dal diario ufficiale dell’OLP, Falastin el-Thawra (“Quello che abbiamo imparato e quello che dovremmo fare”), Beirut, marzo 1976.
25. «Fin da 1948, i leader arabi si sono avvicinati al problema palestinese in una maniera irresponsabile. Loro hanno usato il popolo palestinese per scopi politici; questo è ridicolo, potrei dire anche criminale...» – Re Hussein, Regno Hashemita della Giordania, 1996.
26. «Le accuse di Abu Mazen: gli stati arabi sono la causa del problema dei rifugiati palestinesi» (Wall Street Journal, 5 giugno 2003). Mahmoud Abbas (Abu Mazen) scrisse un articolo nel marzo 1976 per Falastin al-Thawra, il diario ufficiale dell’OLP a Beirut: «Gli eserciti arabi entrarono in Palestina per proteggere i palestinesi dalla tirannia sionista, ma invece li abbandonarono, li costrinsero ad emigrare e a lasciare la loro terra natia, imposero su di loro un macigno politico ed ideologico e li gettarono in prigioni simili ai ghetti nei quali gli ebrei vivevano in Europa Orientale.» Come Abu Mazen sosteneva, fu in gran parte dovuto alle minacce e al panico diffuso dai leader arabi che circa 700.000 arabi abbandonarono Israele nel 1948, quando il nuovo stato fu invaso dagli eserciti arabi. Sin da allora, la popolazione dei rifugiati è cresciuta (giungendo oggi a circa 4 milioni di persone, secondo le stime dell’ONU) rinchiusa come il bestiame in un recinto, in campi squallidi sparsi attraverso il Medio Oriente – in Libano, Giordania, Siria, Gaza e West Bank. Nel 1950, l’ONU allestì l’UNRWA come un sforzo assistenziale provvisorio per i rifugiati palestinesi. Il primo direttore dell’UNRWA, Ralph Galloway, ha affermato otto anni più tardi che, «gli stati arabi non vogliono risolvere il problema dei rifugiati. Loro vogliono tenerlo aperto come una ferita dolente, come un’arma contro Israele. Ai leader arabi non importa un accidente se i rifugiati arabi vivono o muoiono. L’unica cosa che è cambiata da allora [1949] è il numero di palestinesi rinchiusi in questi campi di prigionia.»

verso Gerusalemme - i boschi del Keren Kaiemeth


No. 393 - 4.11.07

Immigrati seduti sulle valigie

Il nuovo immigrato del 21° secolo vuole realizzare il sogno sionista senza rinunciare al benessere economico. Vive in Israele – quanto meno nei fine settimana – ma continua a lavorare o a gestire i suoi affari all’estero. Si tratta del cosiddetto immigrato ricorrente

Il più famoso nuovo immigrato israeliano degli ultimi anni è, senza alcun dubbio, il governatore della Banca d’Israele, prof. Stanley Fischer. La disponibilità del noto economista americano ad assumere questo incarico era stata vista non solo come una conquista per l’economia locale, ma anche come un raro atto di sionismo. In apparenza, l’immigrazione di Fischer è priva delle difficoltà che caratterizzano l’esperienza degli altri nuovi immigrati. Sono molto pochi i nuovi immigrati che possono sperare di ottenere un lavoro prestigioso dove possano utilizzare tutte le capacità e conoscenze accumulate nel Paese d’origine. Tuttavia, da molti punti di vista Fischer rappresenta il prototipo del potenziale immigrato del 21o secolo: un libero professionista, che guadagna molto e che desidera realizzare il suo sogno sionista mantenendo i guadagni e lo stile di vita pregressi.
Questi immigrati sono disposti a legare il loro futuro a quello dello Stato d’Israele, a costruire le loro case e a crescere i loro figli in Israele. Tuttavia, se Israele non può offrire una soluzione economica adeguata ai loro bisogni, allora ci pensano da soli: per esempio, continuano a lavorare a Wall Street cinque giorni alla settimana e trascorrono i week end in Israele; oppure si trasferiscono in un appartamento a Tel Aviv, ma non prendono la cittadinanza per anni. O forse solo un genitore e i figli acquisiscono la cittadinanza, mentre l’altro genitore, ovvero il titolare del fascicolo finanziario della famiglia, rimane con il solo passaporto straniero.
Dopo la massiccia immigrazione etiope e le grosse ondate immigratorie provenienti dall’ex-Unione Sovietica, il 90% degli ebrei della Diaspora vive in Paesi ricchi e sviluppati. La maggior parte ha raggiunto uno stile di vita più alto di quello a cui potrebbe aspirare in Israele; e persino in Russia e in Ucraina la maggior parte degli ebrei che non sono immigrati in Israele appartiene all’elite cittadina. A mettere in moto le grandi ondate migratorie del passato sono state soprattutto la necessità fisica o quella economica—la fuga da una persecuzione, dalla fame o da una crisi economica—mentre la nostalgia della terra d’Israele e l’ideologia sionista hanno spesso giocato un ruolo di secondo piano, se anche tanto. Sebbene l’antisemitismo non sia scomparso, nel mondo non esistono oggi comunità ebraiche che si sentano costrette a fuggire—nemmeno in Iran, dove i 25.000 membri della comunità possono, se vogliono, lasciare la repubblica islamica e immigrare in Israele attraverso un Paese terzo e con un visto turistico. Pochi sfruttano questa opportunità, perché significherebbe rinunciare al loro patrimonio. Anche le previsioni di una fuga degli ebrei francesi di fronte all’ondata crescente di antisemitismo islamico in Francia sono state smentite.
Gli ebrei non hanno mai smesso di vagare da un Paese all’altro, ma a quanto pare hanno a loro disposizione varie opzioni e non necessariamente Israele risulta la preferibile. Paesi occidentali come il Canada e la Spagna sono alla ricerca di immigrati provenienti da Paesi occidentali e di professionisti qualificati, e il governo tedesco investe decine di milioni di euro nell’accoglienza e integrazione degli immigrati provenienti dall’Europa orientale. E infatti la metà degli ebrei che hanno lasciato la Russia dal crollo della cortina di ferro si è diretta in Germania, negli Stati Uniti e in Canada, e ha scelto di fondare comunità russofone in quei Paesi. Inoltre, solo una minoranza degli ebrei venezuelani, spaventati dai piani del presidente Hugo Chavez, sta immigrando in Israele: gli altri (e sono migliaia) si sono trasferiti a Miami, da dove è molto più facile controllare i propri affari e mantenere viva una vita culturale e sociale in spagnolo.

Il numero telefonico francese
“In passato la maggior parte degli ebrei migrava da Paesi meno sviluppati a Paesi più sviluppati”, racconta Israel Pupko, che sta scrivendo il suo dottorato sui processi migratori degli immigrati provenienti da Paesi sviluppati. “Inoltre la globalizzazione, lo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione e la politica migratoria multiculturale di molti Paesi hanno moltiplicato le opzioni migratorie per coloro che hanno professioni o abilità richieste dal mercato, e questo si traduce in iper-mobilità. Persino dopo essere immigrate, le persone rimangono economicamente, socialmente e politicamente legate ai Paesi d’origine”.
Pupko, un ricercatore associato all’Istituto per la Politica di Pianificazione del Popolo Ebraico (JPPPI) dell’Agenzia Ebraica per Israele, sta lavorando al suo dottorato presso l’Istituto dell’Ebraismo Contemporaneo dell’Università Ebraica, sotto la supervisione del demografo, prof. Sergio Della Pergola. Secondo Pupko, il mondo accademico sta studiando il fenomeno dell’immigrazione “multi-nazionale” da molti anni. Tuttavia, nonostante il numero sproporzionatamente alto di ebrei coinvolti in questo processo, non è stata condotta alcuna ricerca avente Israele come oggetto. Pupko sostiene che questo fenomeno riguarda soprattutto gli immigrati provenienti da Paesi occidentali negli ultimi anni. “Stando agli studi più recenti, circa il 20% - 25% dei capi-famiglia che negli ultimi anni è immigrato in Israele da Paesi di lingua inglese continua a lavorare nel Paese d’origine. Tra gli immigrati francesi che sono arrivati in Israele dal 2000 questo valore sale al 50%. Alcuni si recano in Francia ogni due o tre settimane; altri invece amministrano i propri affari a Parigi dalle loro case a Gerusalemme. Hanno un numero di telefono francese e i loro clienti non si rendono nemmeno conto che stanno chiamando Gerusalemme. Sebbene questo modello, in cui il capo-famiglia—di solito il padre—continua a lavorare nel Paese d’origine, fosse già abbastanza diffuso in passato, ultimamente è diventato la soluzione preferita dai più”.
Al momento Pupko si trova in Francia, dove sta intervistando potenziali nuovi immigrati. Il suo studio si basa soprattutto su interviste con immigrati provenienti da Paesi occidentali e dalla Russia, e con politici israeliani: "La maggior parte dei politici è ancora legata all’idea che si deve immigrare portandosi dietro tutto, senza lasciare alcuna proprietà nei Paesi d’origine. L’approccio è ancora quello del melting pot totale, del tutto o niente. I parametri di un’immigrazione riuscita sono quelli dell’adattamento strumentale, dell’acquisizione della lingua e del trovare un lavoro e una casa. Tuttavia ci sono anche coloro che semplicemente non sono interessati ad entrare nel locale mercato del lavoro, e questo non dovrebbe essere visto come qualcosa di negativo. Alcune persone che in passato non avrebbero nemmeno sognato di immigrare in Israele ora possono farlo grazie a questi nuovi modelli".

Haaretz Online 16.10.07 di Anshel Pfeffer




















No. 394 - 11.11.07
La prima missione in Etiopia dell’International Women's Division del Keren Hayesod

4-8 novembre 2007

Per la prima nella sua storia l’International Women's Division del Keren Hayesod ha organizzato una missione in Etiopia per incontrare i falashmura etiopi che continuano a immigrare in Israele al ritmo di 300 al mese.
Laurence Borot, presidente dell’International Women's Division: "Questo viaggio è stato un’esperienza molto emozionante. Ci siamo spesso commosse, in particolare quando abbiamo preso parte a un servizio religioso nella sinagoga di Gundar, dove gli uomini pregavano con immenso fervore.
Ci siamo sentite molto orgogliose sapendo che i nostri sforzi quotidiani sono essenziali alla salvezza dei nostri fratelli.
La nostra delegazione è tornata in Israele insieme a un gruppo di nuovi immigrati provenienti dall’Etiopia e il momento in cui le famiglie si sono riunite all’aeroporto è stato molto commovente.
Per esempio, una coppia di anziani che aveva viaggiato con noi è stata ricevuta dai figli e dai nipoti.
Israele è l’unico Paese che va in Africa non per schiavizzare le genti, ma per liberarle dalle catene della povertà e della miseria”.

giovedì 17 aprile 2008

Mar Morto

"La vita fa rima con la morte"

di Amos Oz

Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli €10,00

E’ una riflessione sulla letteratura e sul formarsi del processo creativo l’ultimo libro di Amos Oz con il quale l’autore, abbandonando il filone delle storie familiari, ci fa entrare nella sua fucina di scrittore.
Davanti agli occhi del lettore si costruisce la storia che in realtà è un romanzo nel romanzo.
Siamo a Tel Aviv in una calda serata d’estate: alla Casa della cultura dove “i condizionatori sono guasti e l’aria cattiva è solida, soffocante” si tiene un incontro letterario con uno scrittore piuttosto famoso che riesce a trasformare l’evento in un teatro da cui trae ispirazione per creare una storia.
Mentre ascolta con scarso interesse il responsabile della casa della cultura che lo presenta, richiamando anche un verso del poeta Zofonia Beit Halachmi tratto dal libro “La vita fa rima con la morte”, lo scrittore annoiato osserva con curiosità il pubblico venuto ad incontrarlo.
E’ una miriade di personaggi quella che si dipana agli occhi del lettore dove gli sguardi, la mimica e i gesti dei protagonisti si trasformano in immagini di un racconto ironico e molto sensuale.
Poco prima, in un bar, lo scrittore era rimasto colpito da una cameriera dalla quale promana “un odore di donna stanca” ma che lo eccita per il contorno seducente delle sue mutandine che si intravvede sotto la gonna. Ed ora scrutando la platea dinanzi a lui vede una donna “dal viso largo, è grossa, diete e sacrifici li ha lasciati perdere da un pezzo”, dietro a lei un sedicenne, “forse è un poeta principiante” con la pelle devastata dai brufoli ed ancora, contrapposta a questo ragazzo, lo scrittore nota “la figura di un uomo accigliato e corpacciuto”che immagina essere stato un insegnante. Al vecchio avvizzito, Arnold Bartok, che ipotizza abbia perso il lavoro e viva dando lezioni di matematica, attribuisce le risatine sarcastiche che di tanto in tanto gli pare di sentire.
Sono pagine di intensa sensualità e di una corporeità per nulla celata quelle che raccontano – ma forse è solo immaginazione – dell’incontro fra lo scrittore e Ruchale Reznik la giovane donna, non particolarmente attraente, timida e dal viso di “scoiattolino” che ha letto con notevole partecipazione alcuni brani tratti dal suo libro durante l’incontro alla Casa della cultura.
E’ un mosaico di figure tratteggiate con grande maestria le cui vicende, collegate l’una all’altra dalla fervida fantasia dell’autore si trasformano, partendo da un dettaglio, nella storia di una vita intera.
Attraverso la descrizione di questo gruppo di uomini e donne, giovani e anziani riuniti per un evento culturale, sui quali si posa lo sguardo attento e curioso dello scrittore, Amoz Oz esprime il significato più profondo della scrittura e l’essenza stessa dell’arte narrativa.

Giorgia Greco

mercoledì 16 aprile 2008

Care amiche e cari amici, oggi è un mese esatto dalla nascita di questo blog. E' nato, grazie all'aiuto prezioso di Michele, con la scopo di avere una "pagina" in comune con voi tutti per scrivere, commentare, chiedere ecc. sui viaggi in Israele e non solo.
Le vostre visite sono davvero tante, quasi 3.500 in questo mese, ma i vostri interventi scarsi. Vi sollecito ancora a scrivere lettere, commenti ecc. da pubblicare sul blog.
Ringrazio molto affettuosamente quanti fino ad ora hanno partecipato a questa "creatura" inviandomi dei loro scritti.
Chicca

Kibbutz Kallia - deserto del Neghev


Israele arruola la prima donna araba in unità supersegreta

Prima di lei un arabo-israeliano che era persino riuscito ad ottenere un diploma di pilota civile (altro titolo normalmente riservato per ragioni di sicurezza solo agli ebrei), aveva chiesto di essere arruolato nell’aeronautica militare israeliana, senza tuttavia riuscirci

TEL AVIV – Una ragazza araba è stata arruolata in una unità d’elite delle forze aeree israeliane incaricata di compiere anche missioni super-segrete: un corpo normalmente riservato solo ad ebrei, oltretutto selezionatissimi. Nabila infatti (il nome è di fantasia), ci è finita per errore. Araba ma con passaporto israeliano, la giovane donna è stata arruolata nella speciale unità aerea di salvataggio «669» passando accidentalmente attraverso una maglia dei rigidi sistemi di controllo che l’intelligence militare israeliana applica su tutti i candidati che aspirano a far parte di «unità militari sensibili». L'aspetto sorprendente della storia, riferita oggi dalla stampa israeliana, è che quando gli ufficiali hanno saputo che Nabila non doveva in realtà trovarsi in quella unità, hanno fatto quadrato intorno a lei per farcela rimanere: «E' troppo brava e merita di restare» ha dichiarato il suo comandante. E così Nabila è diventata la prima araba-israeliana a prestare servizio nelle forze aeree dello Stato ebraico, ottenendo un codice di riservatezza mai concesso finora ad una cittadina non ebrea. L'unità 669 è specializzata in spericolati interventi in zone di combattimento per soccorrere soldati feriti, ma anche nel recupero di agenti sotto-copertura infiltrati in zone nemiche. In ambito civile la stessa unità si occupa del soccorso alle popolazioni, da quelle colpite da calamità agli escursionisti dispersi nel deserto. Nabila, che è un ufficiale medico, attualmente presta servizio a terra, ma nelle prossime settimane inizierà il corso per salire a bordo degli elicotteri e partecipare direttamente alle missioni. Prima di lei un arabo-israeliano che era persino riuscito ad ottenere un diploma di pilota civile (altro titolo normalmente riservato per ragioni di sicurezza solo agli ebrei), aveva chiesto di essere arruolato nell’aeronautica militare israeliana, senza tuttavia riuscirci. I cittadini arabi con passaporto israeliano (sono circa 1 milione) hanno il diritto di svolgere servizio nelle forze armate israeliane come volontari, ma viene loro normalmente interdetto l’accesso a corpi d’elite.

4/4/2008 Notizie Ansa

Kibbutz Kallia - deserto del Neghev

ISRAELE/ GOVERNO STANZA 18 MLN EURO PER CELEBRAZIONE DEI 60 ANNI

Feste e non solo: anche un monumento a bambini morti in Olocausto

Gerusalemme, 6 apr. (Ap) - Diciotto milioni di euro per celebrare i 60 anni della fondazione dello Stato d'Israele. E' lo stanziamento annunciato dal Governo, che ha indicato anche la destinazione del budget: non solo feste e concerti, ma anche progetti destinati a durare nel tempo. Come un monumento ai bambini vittime dell'Olocausto, che sorgerà vicino a Tel Aviv con il contributo fattivo della popolazione più giovane.
I festeggiamenti saranno in grande stile. Con il clou nella settimana dell' 8 maggio (il giorno della dichiarazione d'indipendenza, nel 1948): concerti, esibizioni aeree, spettacoli con luci laser e fuochi d'artificio in tutto il Paese. Artisti a parte, è previsto l'arrivo anche di ospiti politici di rilievo dall'estero, incluso George W.Bush che sarà in Israele il 14.
I 18 milioni saranno investiti con un occhio al futuro. Serviranno tra l'altro a realizzare una pista ciclabile lunga 1.200 chilometri e una rete di sentieri che girerà attorno al Mare di Galilea. L'altro, guarda inevitabilmente al passato. L'anniversario sarà l'occasione per il restauro dei memoriali esistenti e per la costruzione di un monumento nuovo, dedicato al milione e mezzo di bambini ebrei morti nell'Olocausto nazista: alla base saranno incastonate altrettante biglie, da raccogliere tra gli scolari di Israele affinchè "realizzino che un milione e mezzo non è un numero astratto".

http://notizie.alice.it/

Neghev


Bando per la cooperazione Italia - Israele

LEGISLAZIONE COMUNITARIA

Nell’ambito dell’accordo di cooperazione scientifica-tecnologica fra Italia e Israele è aperto il bando che finanzia la realizzazione di progetti congiunti di ricerca per l'anno 2008.. Il partner italiano potrà essere invece sia un’impresa che un università od ente di ricerca, mentre il partner israeliano dovrà essere obbligatoriamente un’impresa. Le aree scientifiche ammesse sono le seguenti: medicina, salute pubblica e organizzazione ospedaliera; biotecnologie; agricoltura e scienze dell’alimentazione; nuove fonti di energia e sfruttamento delle risorse naturali; applicazioni dell’informatica nella formazione e nella ricerca scientifica; ambiente; comunicazioni; innovazioni dei processi produttivi; spazio; tecnologie dell’informazione, comunicazioni di dati, software; qualunque altro settore di reciproco interesse. E’ prevista la concessione di un contributo nella misura massima del 50% delle spese ammesse. Le domande devono essere inoltrate entro il 30 maggio 2008.



deserto del Neghev


"2012 La Shoah nel pianto di un bambino"

di Rinaldo Boggiani

Edizioni Associate € 11

E’ difficile trovare le parole adatte per descrivere il male assoluto, la Shoah, quell’immenso crimine del quale si è macchiato una parte del genere umano: uomini che lo hanno perpetrato materialmente ed altri che hanno taciuto e consentito che l’indifferenza prendesse il posto della ragione.
Ma tacere non è possibile: è solo attraverso il ricordo che quelle persone, spazzate via da una ferocia inaudita, continuano a vivere nella nostra memoria.
Rinaldo Baggiani sente prepotente il bisogno di scrivere, di rivivere e far rivivere. “Perché niente possa essere dimenticato. Perché nessuno possa essere perdonato se dimentica”

Da questo impegno, da questa profonda esigenza nasce “2012 La Shoah nel pianto di un bambino”. Un libro originale che è difficile catalogare in una struttura narrativa definita: non è un romanzo, non è un saggio, non è una composizione poetica ma di ciascuno di essi ha le caratteristiche più salienti.
Con garbo narrativo e uno stile aulico, con sfumature oniriche, l’autore ci conduce in quell’inferno che sono stati i campi di sterminio nei quali milioni di persone hanno perso la vita e fra essi tantissimi bambini.
Proprio su quelle piccole vittime innocenti strappate alle cure e all’affetto dei loro familiari, l’autore concentra il suo sguardo attento e partecipe, partecipe di un dolore che scava in profondità, che toglie il respiro.
Rinaldo Baggiani dà voce ai bambini, lascia che siano loro a descrivere la sofferenza dei loro cuori, l’orrore di cui sono testimoni: “Mamma e papà divorati da umani. Mamma e papà umiliati dai cani. Per noi il mondo si era capovolto”.
E ancora è l’indifferenza che colpisce lo scrittore e sulla quale si sofferma con parole accorate.
….” I pianti dei bimbi salivano al cielo ma il cielo era sordo al pianto dei giusti. Bussavano alla porta di amici vicini la porta si chiuse per paura e sospetto”.
I capitoli brevi, le frasi dure come sferzate incidono la mente, colpiscono il cuore. “Venni strappato all’ultimo abbraccio e buttato nel fuoco perché non servivo”
In questo bel libro non ci sono date, non sono riportati i nomi di luoghi o persone perché l’autore ricorda che quell’immenso crimine potrebbe ripetersi a causa dell’indifferenza e dell’intolleranza verso il diverso che pervadono il genere umano e si insinuano come un veleno anche nelle menti più illuminate.
Ecco perché è importante leggere questo libro: per non dimenticare mai cosa è successo, per “opporsi anche alle più semplici forme di critica verso chi è diverso” nella consapevolezza che se il ricordo cede il posto all’oblio “il fuoco ritorna”.

Giorgia Greco

kibbutz Revivim - Neghev


"I cani e i lupi"


di Irène Némirovsky

Traduzione di Marina di Leo
Adelphi €18,50

Storia drammatica e intensa dove la realtà storica e la finzione del racconto confluiscono in un romanzo di grande forza narrativa.
I cani e i lupi, il libro di Irène Némirovsky che Adelphi ripropone nell’ottima traduzione di Marina di Leo, prende avvio da un tragico evento della Storia: l’ennesimo sanguinoso pogrom che colpì la città di Kiev nel 1905 e durante il quale perirono in Ucraina ottomila ebrei.
Ada Sinner, la protagonista, è una bimbetta di dieci anni che insieme al padre Israel, “un tipo mingherlino dagli occhi tristi”, appartenente alla cosiddetta congrega dei meklers, gli intermediari, percorre la città bassa e osserva il genitore guadagnarsi da vivere comprando e vendendo seta, carbone e barbabietole.
L’arrivo nella loro modesta abitazione della zia Raisa “donna magra, vivace, ossuta, dalla lingua tagliente e gli occhi vigili” insieme ai due figli, Lilla, dolce e delicata e Ben, ragazzino ombroso e beffardo, consente ad Ada di affrancarsi dalla solitudine.

Ma la Storia con il suo corollario di lutti e sofferenze è in agguato.
Nella notte tragica in cui il pogrom si scatena, Ben e Ada trovano rifugio prima in un abbaino nascondendosi all’interno di un baule polveroso, poi al mattino la zia Raisa li spinge in strada indirizzandoli da alcuni amici.
I due bambini circondati da devastazione, abbandono e morte nella confusione che pervade le strade della città si perdono. La determinazione di Ben, non disgiunta da una buona dose di sfrontatezza, li induce a cercare protezione nella villa dei Sinner, il ramo ricco e snob della famiglia che abita nella città alta dove le strade sono “ricche e tranquille, costeggiate di ampi giardini”.
I facoltosi parenti li accolgono con reticenza e non celano il disgusto dinanzi alla miseria e all’indigenza dei cugini poveri, un disprezzo che colpisce profondamente Ada e dal quale si sente ferita.
In quella villa vive anche Harry, un ragazzino simile nel fisico al cugino Ben, che affascina Ada con i suoi modi delicati, il viso diafano pervaso da un alone di regalità: se Ben assomiglia a un lupo selvatico, Harry può essere accostato a un fine cane da salotto.
Ancora una volta la Storia interviene travolgendo il destino dei Sinner: scampati alla rivoluzione, Parigi li accoglierà con una certa diffidenza; ma se il ramo facoltoso dei Sinner trova un posto nell’alta società parigina (Harry sposerà Laurence Delarcher, figlia di un noto banchiere, andando a vivere nella magnifica casa di rue des Belles-Feuilles), Ada sposerà Ben per sopravvivere, pur continuando a vagheggiare, come un sogno proibito, l’Harry della sua infanzia.
Per Ada, che nel frattempo a Parigi si è dedicata con passione alla pittura, il corso della vita subirà una brusca deviazione e presto si renderà conto che tra i sogni coltivati nell’infanzia e la realtà della vita adulta il divario è abissale.
Divenuta l’amante di Harry – che aveva appreso della sua esistenza ammirando in una vetrina alcuni suoi quadri – è costretta a lasciarlo per consentirgli di affrontare e superare con dignità un difficile tracollo finanziario nel quale si è trovato coinvolto suo malgrado, e riprendere così il suo posto nell’alta borghesia francese.

Abbandonata la Francia e rifugiatasi in una città dell’Europa dell’Est, Ada riscoprirà la sua identità di donna adulta e responsabile stringendo fra le braccia il suo bambino nato in una camera d’albergo perché “a causa dei disordini della guerra civile non c’era posto negli ospedali, soprattutto per gli stranieri”.
E’ un’Ada ottimista che crede nella vita e nel futuro quella che lasciamo al termine di questo drammatico romanzo, con un’immagine intensa che si conficca nel cuore: “ La pittura, il bambino, il coraggio: con questo si può vivere. Si può vivere più che bene”
E’ un romanzo di forte impatto emotivo quello di Irène Némirovsky, ebrea ucraina morta nel 1942, nel quale emerge oltre al difficile rapporto con la madre, già presente nel precedente romanzo “Jezabel”, anche l’amara consapevolezza che la Francia, la patria che l’ha accolta dopo la sua fuga da Kiev, non esiterà a tradirla consegnandola ai nazisti per mano dei quali morirà nel campo di sterminio di Auschiwitz.
Lo stile narrativo e la tecnica di scrittura che abbiamo apprezzato nelle opere precedenti, a partire dalla magnifica saga “Suite francese” che l’ha rivelata in Italia dopo un oblio di oltre mezzo secolo, ritornano in questo romanzo con la consueta eleganza e nitidezza.
“I cani e i lupi” rivela in modo inequivocabile la raffinata sensibilità psicologica dell’autrice che possiede il tocco magico del ritratto e il talento di scavare nell’animo degli uomini fino a far emergere gli aspetti più nascosti e inquietanti.

Giorgia Greco