venerdì 18 aprile 2008

verso Gerusalemme - i boschi del Keren Kaiemeth


No. 393 - 4.11.07

Immigrati seduti sulle valigie

Il nuovo immigrato del 21° secolo vuole realizzare il sogno sionista senza rinunciare al benessere economico. Vive in Israele – quanto meno nei fine settimana – ma continua a lavorare o a gestire i suoi affari all’estero. Si tratta del cosiddetto immigrato ricorrente

Il più famoso nuovo immigrato israeliano degli ultimi anni è, senza alcun dubbio, il governatore della Banca d’Israele, prof. Stanley Fischer. La disponibilità del noto economista americano ad assumere questo incarico era stata vista non solo come una conquista per l’economia locale, ma anche come un raro atto di sionismo. In apparenza, l’immigrazione di Fischer è priva delle difficoltà che caratterizzano l’esperienza degli altri nuovi immigrati. Sono molto pochi i nuovi immigrati che possono sperare di ottenere un lavoro prestigioso dove possano utilizzare tutte le capacità e conoscenze accumulate nel Paese d’origine. Tuttavia, da molti punti di vista Fischer rappresenta il prototipo del potenziale immigrato del 21o secolo: un libero professionista, che guadagna molto e che desidera realizzare il suo sogno sionista mantenendo i guadagni e lo stile di vita pregressi.
Questi immigrati sono disposti a legare il loro futuro a quello dello Stato d’Israele, a costruire le loro case e a crescere i loro figli in Israele. Tuttavia, se Israele non può offrire una soluzione economica adeguata ai loro bisogni, allora ci pensano da soli: per esempio, continuano a lavorare a Wall Street cinque giorni alla settimana e trascorrono i week end in Israele; oppure si trasferiscono in un appartamento a Tel Aviv, ma non prendono la cittadinanza per anni. O forse solo un genitore e i figli acquisiscono la cittadinanza, mentre l’altro genitore, ovvero il titolare del fascicolo finanziario della famiglia, rimane con il solo passaporto straniero.
Dopo la massiccia immigrazione etiope e le grosse ondate immigratorie provenienti dall’ex-Unione Sovietica, il 90% degli ebrei della Diaspora vive in Paesi ricchi e sviluppati. La maggior parte ha raggiunto uno stile di vita più alto di quello a cui potrebbe aspirare in Israele; e persino in Russia e in Ucraina la maggior parte degli ebrei che non sono immigrati in Israele appartiene all’elite cittadina. A mettere in moto le grandi ondate migratorie del passato sono state soprattutto la necessità fisica o quella economica—la fuga da una persecuzione, dalla fame o da una crisi economica—mentre la nostalgia della terra d’Israele e l’ideologia sionista hanno spesso giocato un ruolo di secondo piano, se anche tanto. Sebbene l’antisemitismo non sia scomparso, nel mondo non esistono oggi comunità ebraiche che si sentano costrette a fuggire—nemmeno in Iran, dove i 25.000 membri della comunità possono, se vogliono, lasciare la repubblica islamica e immigrare in Israele attraverso un Paese terzo e con un visto turistico. Pochi sfruttano questa opportunità, perché significherebbe rinunciare al loro patrimonio. Anche le previsioni di una fuga degli ebrei francesi di fronte all’ondata crescente di antisemitismo islamico in Francia sono state smentite.
Gli ebrei non hanno mai smesso di vagare da un Paese all’altro, ma a quanto pare hanno a loro disposizione varie opzioni e non necessariamente Israele risulta la preferibile. Paesi occidentali come il Canada e la Spagna sono alla ricerca di immigrati provenienti da Paesi occidentali e di professionisti qualificati, e il governo tedesco investe decine di milioni di euro nell’accoglienza e integrazione degli immigrati provenienti dall’Europa orientale. E infatti la metà degli ebrei che hanno lasciato la Russia dal crollo della cortina di ferro si è diretta in Germania, negli Stati Uniti e in Canada, e ha scelto di fondare comunità russofone in quei Paesi. Inoltre, solo una minoranza degli ebrei venezuelani, spaventati dai piani del presidente Hugo Chavez, sta immigrando in Israele: gli altri (e sono migliaia) si sono trasferiti a Miami, da dove è molto più facile controllare i propri affari e mantenere viva una vita culturale e sociale in spagnolo.

Il numero telefonico francese
“In passato la maggior parte degli ebrei migrava da Paesi meno sviluppati a Paesi più sviluppati”, racconta Israel Pupko, che sta scrivendo il suo dottorato sui processi migratori degli immigrati provenienti da Paesi sviluppati. “Inoltre la globalizzazione, lo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione e la politica migratoria multiculturale di molti Paesi hanno moltiplicato le opzioni migratorie per coloro che hanno professioni o abilità richieste dal mercato, e questo si traduce in iper-mobilità. Persino dopo essere immigrate, le persone rimangono economicamente, socialmente e politicamente legate ai Paesi d’origine”.
Pupko, un ricercatore associato all’Istituto per la Politica di Pianificazione del Popolo Ebraico (JPPPI) dell’Agenzia Ebraica per Israele, sta lavorando al suo dottorato presso l’Istituto dell’Ebraismo Contemporaneo dell’Università Ebraica, sotto la supervisione del demografo, prof. Sergio Della Pergola. Secondo Pupko, il mondo accademico sta studiando il fenomeno dell’immigrazione “multi-nazionale” da molti anni. Tuttavia, nonostante il numero sproporzionatamente alto di ebrei coinvolti in questo processo, non è stata condotta alcuna ricerca avente Israele come oggetto. Pupko sostiene che questo fenomeno riguarda soprattutto gli immigrati provenienti da Paesi occidentali negli ultimi anni. “Stando agli studi più recenti, circa il 20% - 25% dei capi-famiglia che negli ultimi anni è immigrato in Israele da Paesi di lingua inglese continua a lavorare nel Paese d’origine. Tra gli immigrati francesi che sono arrivati in Israele dal 2000 questo valore sale al 50%. Alcuni si recano in Francia ogni due o tre settimane; altri invece amministrano i propri affari a Parigi dalle loro case a Gerusalemme. Hanno un numero di telefono francese e i loro clienti non si rendono nemmeno conto che stanno chiamando Gerusalemme. Sebbene questo modello, in cui il capo-famiglia—di solito il padre—continua a lavorare nel Paese d’origine, fosse già abbastanza diffuso in passato, ultimamente è diventato la soluzione preferita dai più”.
Al momento Pupko si trova in Francia, dove sta intervistando potenziali nuovi immigrati. Il suo studio si basa soprattutto su interviste con immigrati provenienti da Paesi occidentali e dalla Russia, e con politici israeliani: "La maggior parte dei politici è ancora legata all’idea che si deve immigrare portandosi dietro tutto, senza lasciare alcuna proprietà nei Paesi d’origine. L’approccio è ancora quello del melting pot totale, del tutto o niente. I parametri di un’immigrazione riuscita sono quelli dell’adattamento strumentale, dell’acquisizione della lingua e del trovare un lavoro e una casa. Tuttavia ci sono anche coloro che semplicemente non sono interessati ad entrare nel locale mercato del lavoro, e questo non dovrebbe essere visto come qualcosa di negativo. Alcune persone che in passato non avrebbero nemmeno sognato di immigrare in Israele ora possono farlo grazie a questi nuovi modelli".

Haaretz Online 16.10.07 di Anshel Pfeffer

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