sabato 13 febbraio 2010


Rav Bernard Lander 1915-2010

“Se non pensiamo a noi stessi, chi lo farà per noi? Ma se pensiamo solo a noi stessi, cosa siamo?” Questo motto, che riecheggia quello del pensatore Hillel contenuto nel Pirkei Avot, ha rappresentato il faro conduttore della vita di Rabbi Bernard Lander, fondatore e presidente del Touro college, scomparso questa settimana all’età di 94 anni.Nato a Manhattan nel 1915 da genitori polacchi, ordinato rabbino dalla Yeshiva University nel 1937, e poi laureatosi dottore in sociologia alla Columbia, fu uno dei tre direttori associati nominati nel 1944 dal sindaco di New York Fiorello La Guardia alla Committe on Union, che sarebbe diventata la prima Commissione per i Diritti umani della città. Lander ha speso la sua vita nell’impegno per la società ebraica e americana. Il Touro College, a quarant’anni dalla sua nascita, rappresenta una scelta di punta per coloro che desiderano ricevere un’istruzione universitaria con un’impronta ebraica, e anche per coloro che scelgono di dedicarsi agli studi religiosi, ma non vogliono rinunciare a una preparazione secolare.Tutto ebbe inizio con le contestazioni studentesche degli anni Sessanta. Bernard Lander era professore di sociologia alla City University of New York. Si rese conto che molti dei giovani manifestanti erano ebrei, profondamente frustrati per la progressiva massificazione delle università “dove ormai gli studenti erano diventati numeri, e non facce”. A questa intuizione si accompagnava la consapevolezza della crisi di identità che attraversavano le comunità ebraiche americane in quegli anni, per effetto della quale gli ebrei laici si allontanavano sempre di più dalla formazione religiosa, e quelli osservanti diventavano sempre più chiusi verso il resto della società.Per dare il suo contributo a risolvere questi problemi, Lander decise di fondare il suo college, intitolandolo a Isaac e Judah Touro, patrioti ebrei che a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, si distinsero per il loro impegno sia nei confronti delle istituzioni ebraiche sia della società americana (finanziarono tra l’altro la prima biblioteca pubblica del continente). In perfetta sintonia con i suoi ideali, ispirati anche dalla frequentazione della Young People’s Socialist League, delineò la mission dell’università, impegnarsi per preservare e promuovere la tradizione ebraica e i suoi valori nel senso più ampio possibile, e metterli al servizio del paese e del mondo. A New York, nel settembre 1971, il Touro College ebbe le sue prime 35 matricole. Oggi conta circa 18 mila studenti, compresi molti non ebrei. Di anno in anno l’università fondata da Lander è cresciuta, moltiplicando la sua offerta formativa (economia, medicina, legge, psicologia, pedagogia) e le sue sedi, che sono diventate sempre più numerose non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi, con campus in Francia, Germania, Russia e Israele. Nel 2007 il Touro College ha aperto un corso di business administration a Roma, diventando la prima università ebraica in Italia. Rav Lander, in questi quarant’anni non si è mai tirato indietro quando si trattava di impegnarsi per far crescere la sua istituzione. “Sono un costruttore, perché sono sufficientemente pragmatico, per costruire quando si presenta l’occasione” aveva dichiarato al prestigioso quotidiano ebraico online The Forward nel 2006.Così lo ricorda Alan Kadish, il suo successore alla presidenza del Touro College “La preoccupazione e la sollecitudine di Bernard Lander per il popolo ebraico e l’intera umanità non conoscevano confini”.Rossella Tercatin http://www.moked.it/



Hannukà



Gattegna a Feltri: “Affermazioni inaccettabili”"

Si è trattato di un articolo inaccettabile, che costringe le organizzazioni ebraiche italiane a insorgere". Lo ha affermato il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna rivolgendosi al direttore de Il Giornale Vittorio Feltri a proposito di uno scritto di Alessandro Sallusti pubblicato lo scorso mercoledì.“Ho letto con sorpresa e dolore - afferma Gattegna - l'articolo a firma Alessandro Sallusti apparso su Il Giornale del 10 febbraio 2010". “Ciò che rende inaccettabile l'articolo, naturalmente, non è il dissenso rispetto alle opinioni espresse da Gad Lerner, ma il metodo del ragionamento e le motivazioni che sono poste alla base di tale dissenso. Viene spontaneo chiedersi se per caso per il signor Sallusti l'appartenenza religiosa possa diventare una limitazione alla libertà di espressione del pensiero di un giornalista e, prima ancora, di un cittadino".“Contro una simile divisione in categorie, che costituisce una minaccia non solo per gli ebrei, ma per la collettività nel suo insieme, esprimo sdegno e insorgo in maniera energica, per contrastare una vera e propria discriminazione e limitazione della libertà totalmente contraria ai principi fondamentali sui quali si fonda la Costituzione italiana".“Conoscendo la sua sensibilità su questi temi – conclude il Presidente Ucei - confido che lei stesso, nella qualità di Direttore, voglia intervenire pubblicamente per esprimere il suo dissenso e per rettificare quella inaccettabile impostazione”.Il duro intervento del Presidente Ucei ha dato luogo anche a un colloquio diretto fra Gattegna e lo stesso direttore del Giornale Vittorio Feltri. http://www.moked.it/


Gerusalemme


Il 95% degli islamici odia Israele e gli ebrei

Resta diffusissima, dal 95% in su, l'opinione sfavorevole del mondo arabo e musulmano nei confronti di Israele e del popolo ebraico. Lo conferma un mega-sondaggio, condotto dal Pew Research Centers Global Attitudes in diversi Paesi del Medio Oriente e di altre regioni sotto la supervisione di ricercatori americani di Stanford, ripreso dal Jerusalem Post. Sondaggio che tuttavia rivela invece un giudizio prevalentemente positivo degli ebrei fra il milione e mezzo di cittadini della minoranza araba d'Israele. Secondo la ricerca, l'ostilita' verso il popolo ebraico e la sua presenza in Medio Oriente tocca il 97% fra i giordani e i palestinesi dei Territori, il 95 fra gli egiziani e addirittura il 98 fra i libanesi musulmani (il 97 fra i maroniti). E questo mentre fra gli arabi israeliani l'antipatia verso il popolo ebraico scende al 35%, contro un 56% di opinioni favorevoli. Tra i musulmani non arabi, la percentuale non cambia di molto, con un 78% di risposte sfavorevoli in Pakistan e un 74% in Indonesia, mentre in Turchia (Paese storicamente alleato di Israele) le attitudini 'molto negative' si sono impennate dal 32 al 73% dopo l'offensiva militare israeliana Piombo Fuso condotta un anno fa nella Striscia di Gaza (con un bilancio finale di 1400 palestinesi uccisi). Fra i Paesi dell'Africa nera, da notare il caso Nigeria: dove l'opinione pubblica risulta spaccata a metà, ma con un 60% di opinioni antiebraiche fra i musulmani contro solo un 28 fra i cristiani. Il sondaggio prende in considerazione anche gli atteggiamenti del mondo musulmano rispetto alla cristianita', vista con occhi ostili dal 51% degli egiziani, da un 44% di giordani e da un 43% di palestinesi. Ma anche da un 49% di israeliani ebrei (contro un 20% scarso di simpatie aperte), il cui tasso di pregiudizio anticristiano si colloca agli stessi livelli di molti Paesi islamici: poco al di sotto di quello dei palestinesi della Striscia di Gaza (52% nella roccaforte degli integralisti di Hamas), ma ben al di sopra rispetto al 40% dei palestinesi di Cisgiordania.




Ebrahim Nabavi


L’INTERVISTA IL DISSIDENTE

«Il popolo non ha nulla a che vedere con i recenti attacchi all’ambasciata italiana a Teheran e la ferma posizione di Roma sulle sanzioni all’Iran per il suo programma nucleare «può servire». Ne è convinto Ebrahim Nabavi, scrittore e autore di satira iraniano, in esilio in Belgio a causa della sua penna (in Italia è uscito il suo Iran. Gnomi e giganti, paradossi e malintesi). Dietro all’assalto alle sedi diplomatiche, dice al Giornale, ci sono i basiji, milizia legata al regime, e l’obiettivo degli attacchi è interno: rinvigorire il fronte antioccidentale nel Paese.Che cosa pensa dell’assalto all’ambasciata italiana a Teheran e degli slogan contro il Paese dopo la visita di Silvio Berlusconi in Israele?«Attaccare le ambasciate dei Paesi stranieri, dopo l’assalto alla sede diplomatica americana nel 1979, è diventata una tradizione rivoluzionaria. I recenti attacchi non hanno niente a che fare con la popolazione: sono stati i basiji per fare pressioni sull’Europa e rendere più forte «l’onda antistranieri». Qual è il motivo dell’attacco?«Non il viaggio di Berlusconi in Israele. Lo stesso giorno, altre sedi diplomatiche sono state attaccate. L’obiettivo è la risoluzione dei problemi interni».Come reputa la posizione dell’Italia, che insiste sull’imposizione di sanzioni? «È una posizione che può servire. Da un lato, i pasdaran, per ordine del governo, attaccano ambasciate; dall’altro, il governo accetta le proteste occidentali e cerca di bloccare gli assalti. Il regime tenta di provare che dietro ai problemi interni ci sono gli stranieri»Che cosa pensa delle sanzioni?«Se le sanzioni hanno come obiettivo il governo sono efficaci. Non sono d’accordo con sanzioni che raddoppiano i problemi della popolazione. Purtroppo, voi europei non siete severi con l’Iran: da una parte pensate a sanzioni; dall’altra lo corteggiate».Il movimento verde è ancora attivo nonostante gli arresti e le sentenze di morte?«Domani (oggi, ndr) ci saranno più di due milioni di “verdi” in piazza. Il movimento, nonostante gli arresti e le sentenze di morte, è pronto a dimostrare la sua grande vitalità».Manca un leader carismatico? «Il movimento verde ha migliaia di leader intelligenti e saggi. Il motivo per cui è sempre vivo è proprio perché tutti sono leader e se uno viene arrestato si può andare avanti».Chi sono le «vittime» della sua satira?«Le mie ultime “vittime” sono state Ahmadinejad e l’ayatollah Khamenei. Ho scritto sugli assalti all’ambasciata: “I basiji hanno attaccato l’ambasciata italiana e dopo quattro ore di sforzo e fatica sono riusciti a staccare tre chiodi della placca via Roma”». http://www.ilgiornale.it/, 11.02.10



L'Università Ebraica al Monte Scopus fondata nel 1918 sul Monte Scopus, fu inaugurata ufficialmente nell'aprile del 1925.Nel 1880 Leon Mendelstamm pubblicò un libro in versi con questa avvertenza: Nel 1902 tre grandi intellettuali sionisti, Martin Buber, Berthold Feiwel e Chaim Weizmann, pubblicarono il libro Una Università Ebraica, che evidenziava il bisogno e il desiderio di creare una grande università che tramandasse l'arte di studiare esercitata anticamente dagli Ebrei nel deserto e non trascurata perfino ad Auschwitz. Per permettere a nuove generazioni di crescere nei valori di convivenza civile, le organizzazioni sioniste acquistarono un'ampia area su una collina, il Monte Scopus, a Oriente della Città Vecchia di Gerusalemme e, quando il governo britannico riconobbe agli Ebrei il diritto a un insediamento in Palestina, in quel luogo venne posta la prima pietra dell'Università Ebraica. Nel febbraio del 1923 Albert Einstein giunse in visita ufficiale a Gerusalemme e si recò al cantiere del campus, accompagnato dalle autorità britanniche e da quelle religiose ebree e cristiane. Einstein tenne un discorso in cui sottolineò l'importanza della nascita di una università che divenisse un grande centro spirituale, capace di collegarsi profondamente, attraverso l'identità ebraica, all'umanità intera e ai suoi più elevati valori. Einstein prospettava la creazione di un tempio del sapere, in cui avrebbe regnato la tolleranza e si sarebbero riunite le comunità sparse per il mondo. La sua proiezione non si è distaccata dalla realtà. Nei circa settant'anni di vita dell'università si sono laureati oltre 70.000 studenti provenienti da più di cento paesi e che abbracciano le tre grandi religioni monoteiste. Attualmente l'università è suddivisa in quattro campus e conta numerose facoltà: Lettere, Scienze Politiche, Giurisprudenza, Scienze Fisiche, matematiche e naturali, Medicina, Odontoiatria e Agraria. Il Monte Scopus, dopo la guerra del 1948, era rimasto isolato dal resto del territorio di Israele. Nel corso degli anni Cinquanta l'Università e l'Ospedale Hadassa (inaugurato sul Monte Scopus nel 1939) furono ricostruiti su nuove sedi (rispettivamente Giv'at Ram ed Ein Karem), nella parte occidentale di Gerusalemme. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, il complesso originario dell'Università al Monte Scopus fu rimodernato e attualmente insieme a quello di Giv'at Ram costituisce un solido corpus di studi.Nel corso della storia di Gerusalemme, il Monte Scopus fu un eccellente punto di osservazione per gli eserciti che si apprestavano a conquistarla. In questo sito, da cui si gode un meraviglioso panorama che spazia verso la città e verso il deserto di Giuda, si accamparono i guerrieri di Sennacherib, di Alessandro Magno, di Tito e i cavalieri della I Crociata. http://www.sapere.it/

La settimana scorsa è finito il primo semestre. Forse ultimamente non vi ho parlato della mia folgorante carriera di studente uditore alla Università ebraica di Gerusalemme. Ormai sono arrivato al quarto anno. Finiti i corsi di grammatica araba di base, ad ottobre ho scelto due corsi più avanzati: 1) prosa araba moderna – lettura e commento di testi di autori arabi contemporanei; 2) Corano con il commento Jalalein – introduzione al corano, lettura e traduzione di alcune sure e del relativo commento. Le classi sono state di 20-25 studenti. Una buona percentuale, soprattutto nel corso di Corano, di origine araba. Sono riuscito a partecipare a qualche lezione di arabo parlato del prof. Othman.Il professore di Corano è molto bravo, appassionato, severo al punto giusto, capace di trasmettere. Ha scelto, intenzionalmente, due sure che parlano di cristianesimo: la sura 70 (della resurrezione) e la sura 19 (di Maria). Ci pensate? Un prof. ebreo, che ti spiega il Corano, parlando di Gesù! Al contrario degli altri anni, non mi presenterò all’esame. Troppo difficile. Quest’anno ho fatto più fatica a stare al passo degli altri: non riesco più a dedicare tutto il tempo necessario allo studio per gli altri impegni che ci sono, ho perso quasi un mese di lezione a Natale, non ho più la sveltezza e l’agilità mentale di una volta, i compagni erano veramente bravi.Il bilancio è comunque molto molto positivo. Lo studio delle due lingue, ebraico e arabo, resta fondamentale e prioritario per comunicare, partecipare, integrarsi, capire, aiutare… Andare al Monte Scopus è un ottima occasione di incontro e confronto molto interessante e stimolante. Si incontrano tante persone con le quali è possibile andare al di là di un semplice scambio di battute, e che in certi casi diventano ottimi amici.Per il secondo semestre rivedrò la tabella degli orari: prosa moderna continua perché è annuale e forse posso aggiungere un altro corso o due. http://www.andresbergamini.it/



Università ebraica Gerusalemme



Il governo di Israele ha presentato all'ONU le sua versione dei fatti sulla campagna di Gaza, versione che sarebbe stato opportuno pubblicare prima e non dopo il molto unilaterale rapporto Goldstone. Una prima inchiesta interna israeliana ha infatti autonomamente accertato responsabilità e corretto errori. Israele ha offerto all'ONU un indennizzo di 10 milioni di dollari per danni causati ai suoi impianti, e Zahal ha punito due ufficiali - un generale di brigata e un colonnello - per l'uso di proiettili al fosforo in zone troppo vicine a località abitate. Durante la sua visita a Ramallah, il Premier italiano Berlusconi ha definito quella israeliana una «giusta reazione» al lancio dei missili da parte di Hamas. Nel riportare la notizia il 4 febbraio l'inviato di Repubblica in Israele, Alberto Stabile, criticava «i bombardamenti inflitti per tre settimane incessanti anche e soprattutto alla popolazione civile di Gaza, con un bilancio finale di circa 1400 morti in gran parte donne e bambini». Un anno fa, subito dopo gli scontri, l'Organizzazione Palestinese per i Diritti Umani aveva denunciato 1285 vittime, fra cui 893 uomini adulti, 111 donne, e 281 bambini al di sotto dei 18 anni (inclusi gli adolescenti in grado di portare armi). La morte dei civili è e sarà sempre tragica e deplorevole. Ma dire che i morti erano in gran parte donne e bambini è falso, e Alberto Stabile dovrebbe riconoscerlo. Altrimenti si innesca un ciclo perverso in cui la notizia, recepita in modo distorto, crea l'opinione del giornalista e poi, senza soluzione di continuità, è l'opinione del giornalista a creare la notizia. E la notizia crea sempre opinione.SergioDella Pergola,Università di Gerusalemme, http://www.moked.it/

giovedì 11 febbraio 2010



Elie Wiesel


«Non piangerei se Ahmadinejad fosse ucciso»

L' appello Elie Wiesel denuncia il «crudele regime» con un appello sull' Herald Tribune firmato da 45 premi Nobel
«Cari presidenti Obama, Sarkozy e Medvedev, caro primo ministro Brown e cancelliera Merkel, per quanto tempo ancora possiamo restare a guardare con le mani in mano il compimento dello scandalo in Iran?». Comincia così l' accorato appello pubblicato ieri sull' International Herald Tribune dalla Elie Wiesel Foundation for Humanity, nello stesso giorno in cui, intervistato dalla Radio militare israeliana, l' 82enne premio Nobel dichiara che «se il presidente iraniano Ahmadinejad fosse assassinato, non verserei una sola lacrima». Mentre Teheran alza i toni dello scontro, minacciando direttamente i leader occidentali, lo scrittore e attivista sopravvissuto alla Shoah non esita a proporsi come guida morale nella crociata per fermare «il crudele e oppressivo regime iraniano». «Le minacce a Berlusconi confermano l' urgenza del mio messaggio», spiega Wiesel, che promette di «rivolgersi presto anche alla Cina, grande ostacolo alle sanzioni Onu e per noi un caso a parte». La lezione dell' Olocausto, quando il mondo stette inerte a guardare, percorre l' inserzione a tutta pagina sottoscritta da ben 45 premi Nobel. «In nome della coscienza e dell' onore - recita la lettera - da Washington, Parigi, Mosca, Londra, Berlino e dal Consiglio di sicurezza Onu deve levarsi una condanna più forte e inequivocabile contro le ripugnanti pratiche di Teheran». Una dittatura, precisa l' appello, «che ha imprigionato, torturato, stuprato e impiccato migliaia di innocenti». Nell' intervista alla Radio militare israeliana Wiesel definisce Ahmadinejad «un pericolo per il mondo e un pazzo patologico», accusandolo di essere «un antisemita», «negatore dell' Olocausto», che vuole «apertamente la distruzione di Israele, cioè la distruzione di altri sei milioni di ebrei». Non è la prima vota che Wiesel cerca di usare la sua influenza per sensibilizzare il mondo sul pericolo iraniano. Nel settembre 2006, in occasione dell' apertura dell' Assemblea generale Onu, si era unito alla protesta di un gruppo di studiosi di diritto israeliani e americani - tra cui il docente di Harvard Alan Dershowitz - chiedendo che Ahmadinejad fosse espulso dall' Onu per le sue affermazioni negazioniste sulla Shoah. Nel maggio 2008, durante la conferenza indetta dal presidente Peres per il 60esimo anniversario dello Stato d' Israele, affermò di fronte alla platea di capi di stato e vip quali Blair, Gorbaciov e Kissinger che è «una vergogna» che Ahmadinejad sia ricevuto nelle capitali mondiali, dal momento che minaccia Israele di attacco nucleare. Nell' agosto 2009, durante la conferenza di Durban II a Ginevra, un membro dell' entourage di Ahmadinejad si avvicinò a Wiesel urlandogli «Sio-Nazi». L' incidente fu videoregistrato da un rappresentante latinoamericano del centro Simon Wiesenthal. Negli stessi giorni, la Elie Wiesel Foundation for Humanity pubblicò una lettera aperta «a Shirin Ebadi, agli altri dissidenti iraniani e al coraggioso popolo iraniano», invitandoli «a non sentirsi soli e a non perdere la speranza» e condannando in pieno «le evidenti violazioni dei diritti umani seguite alle elezioni presidenziali in Iran». Alessandra Farkas 10 febbraio 2010 - Corriere della Sera


Studioso druso


«Meglio morto che allenare Israele»

«Se fosse l' ultima squadra al mondo, abbandonerei la mia professione»
L' ultima crociata di Hassan Shehata, il ct dell' Egitto fresco vincitore della terza Coppa d' Africa consecutiva, è contro Israele: «Meglio morire di fame piuttosto che allenare la nazionale israeliana». Così parlò «baffone» Shehata al quotidiano arabo al Masri al Youm due giorni fa a Dubai, per commentare la notizia che a Tel Aviv hanno pensato di affidare a lui la Nazionale. E' stato un famoso giornalista israeliano, Daniel Shahah, a spiegare come si è arrivati alla soluzione-Shehata: «Il presidente della Lega ha formato una commissione per scegliere il futuro ct della Nazionale e Shehata è sembrato il candidato più adatto. Ha grande personalità e sa gestire i campioni». A Tel Aviv hanno un sogno: la qualificazione al Mondiale brasiliano del 2014. Il retroscena Ma Shehata, che ha detto no anche alla Nigeria, ha respinto l' offerta con una dichiarazione durissima nei confronti dello stato ebraico: «Per tutta la mia vita ho sentito dire che Israele uccide i nostri figli e le nostre donne, che bombarda città e villaggi. Questa è la prima volta che sento dire che Israele gioca a calcio. È assurdo solo pensare che io possa allenare la squadra di questo Paese. Se Israele fosse l' ultima squadra al mondo, piuttosto abbandonerei la mia professione». Shehata viaggia verso i 61 anni e ne aveva 30 quando, nel 1979, Israele ed Egitto firmarono il primo accordo di pace tra lo stato ebraico e un paese arabo. Negli ultimi tempi, Shehata, sempre pronto a pregare nei momenti più difficili delle partite, ha preso una deriva integralista. Un mese fa disse: «In Nazionale chiamerò solo musulmani osservanti». Shehata ha convinto anche Zidan, attaccante del Borussia Dortmund, ad essere un bravo musulmano. D' estate, alla vigilia della partita con gli azzurri in Confederations Cup, disse: «Italia-Egitto? E' nelle mani di Allah». L' Egitto vinse 1-0. Shehata e i giocatori a fine partita s' inginocchiarono per ringraziare Allah, ma poi nelle notte, nell' albergo di Johannesburg, fecero festa anche le prostitute sudafricane.10 febbraio 2010, http://archiviostorico.gazzetta.it/


Parco del ghiaccio ad Eilat

Italia-Israele, rapporto sempre più solido

Il primo ministro italiano, Silvio Berlusconi, s'è reso responsabile di atti servili verso i padroni israeliani ed è giunto ad affermazioni faziose contro l'Iran e ad aperta giustificazione dei motivi che hanno indotto l'esercito israeliano alla ingiustificabile guerra contro Gaza . L'Agenzia televisiva iraniana di Stato Irna, con tali irritate note, ha teso sottolineare la piena discutibilità dei giudizi e degli appoggi a favore del tanto minacciato Israele, espressi dal capo del governo italiano nel suo discorso alla Knesset. Tali attacchi contro la politica di amicizia dell'Italia verso lo Stato ebraico, dimostrata negli atti e nelle ferme affermazioni del premier, non hanno avuto alcun potere di intimorire nessuno. Queste indebite ingerenze nella politica estera italiana, invece, hanno provocato la giusta risposta da parte del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Il ministro, nella nota, specificava il fatto che le affermazioni espresse a Gerusalemme dal capo del governo rientravano nel bagaglio di tutti gli italiani, nei loro valori di verità, libertà e democrazia che vedono nella Shoah una grande tragedia epocale, frutto del folle odio umano . Risuona altamente evidente come sia riuscito a suscitare le ire dei mullah il pieno rigetto, da parte degli italiani, del negazionismo da Teheran così ampiamente alimentato. Questa affermazione storica e civile, sgorgante dagli atti del governo italiano, in aperto contrasto con i silenzi e le compiacenze dei governi italiani precedenti, è stata come un vero e proprio fulmine a ciel sereno per le sanguinarie teocrazie iraniane abituate a tutt'altro atteggiamento. […][…] La visita in Israele, da parte del capo del governo italiano, è stata una vera e propria pietra miliare, che ha posto chiara e forte la verità ineludibile di un Iran in fase ultimativa dell'apprestamento dell'armamento nucleare, di un Paese aggressivo e dittatoriale che pone in pericolo il mondo. Non è più possibile, per nessuno, secondo le affermazioni del premier italiano, continuare a tollerare questa corsa forsennata all'arma atomica, queste continue minacce all'esistenza dello Stato d'Israele e questo insieme di ricatti e minacce infami che la cricca iraniana lancia al mondo. Le decise affermazioni del presidente Berlusconi debbono fare da sprone a tutto il mondo libero, affinché le forze della prepotenza, i finanziatori del terrorismo internazionale e i revanscisti nazisti islamici siano fermate: non ci si può più permettere di ripetere gli errori e le viltà di Monaco 38. […]Franco Marta, Avanti, 10 febbraio 2010


Strade nel deserto di Giuda

L’Iran ci attacca? È un buon segno

Il Giornale, 10 febbraio 2010 di Fiamma Nirenstein
Non è una novità vedere l'Italia al centro dell'attenzione dell'integralismo islamico. Ci sono parecchi imam e mufti che a svariate latitudini inveiscono appena possono contro Roma, i crociati, il cristianesimo, la civiltà occidentale, e promettono la vittoria. L'attacco di ieri all'ambasciata italiana è parte dell'anima della rivoluzione iraniana e della guerra islamista contro l'Occidente: quel qualche centinaio di basiji che lanciavano pietre e gridavano morte all'Italia devono avere sentito echeggiare nei loro imi precordi sentimenti profondi, così come chi ha preparato la protesta contro il discorso di Berlusconi a Gerusalemme e ha chiamato a severo colloquio il nostro ambasciatore, è senz'altro convinto che si tratti di una tappa come tante altre di un conflitto alla lunga inevitabile, proprio per l'essenza laica e democratica del nostro Paese.
Perché l'Iran, che festeggia domani, il 22 di Bahman, 11 di febbraio, la rivoluzione del 1979, è aggressiva ontologicamente. Lo sciismo di Ahmadinejad e di Khamenei crede che, per facilitare l'arrivo del suo Messia, non il migliorare l'accordo e l'accomodamento siano necessari, ma che lo siano invece il conflitto, il confronto e anche la conflagrazione finale. Allora sarà garantita la redenzione e la supremazia islamica sulla storia. È per un motivo che sembra astratto, ma che invece nelle menti della leadership iraniana è molto concreto, che si corre verso il disastro: solo questa può essere la spiegazione del perché Teheran ha rifiutato la proposta dell'ottobre scorso, la migliore possibile per l'Iran, di consegnare il suo uranio a stati amici perché lo arricchissero e glielo restituissero. Adesso invece, dopo mesi in cui ha seguitato nel suo progetto terrorista e nella repressione del suo popolo, Ahmadinejad ci annuncia come niente fosse che l'uranio se lo arricchisce da solo e al venti per cento: questo significa semplicemente che quella tonnellata virgola otto di uranio arricchito al 3 per cento, già più che sufficiente come quantità per la bomba atomica, adesso riceverà anche l'arricchimento in più.Non affrontando la realtà che l'Iran corre volontariamente verso la sfida totale, ci sembra un fatto minore che, insieme all'arricchimento, sia stata annunciata anche la produzione autonoma di sistemi «controllo attacco» S300, quelli che possono raggiungere le capitali europee, e di micidiali nuovi droni capaci di osservazione e di attacchi. Intanto, si sa che sia gli Hezbollah che Hamas, insieme ai manipoli di terroristi fatti passare attraverso la Siria, sono un'arma di continua dimostrazione della determinazione dell'Iran a tenere aperto il fronte del terrore internazionale con una pistola alla tempia della democrazia israeliana, irachena, libanese. Il fatto che Khamenei parli di cazzotti da sferrare a destra e a manca, rimanda volutamente al tema della repressione interna, anch'essa sempre più feroce, sempre più sporca di un sangue. Ma questo sangue finalmente grida vendetta, si è visto, nonostante le cortine fumogene che oscurano i mezzi di comunicazione di ogni tipo: il tema della violazione dei diritti umani è solo apparentemente meno cruciale di quello degli armamenti. L'Europa è finalmente riuscita a sollevarsi dall'incertezza e dall'ignavia intervenendo proprio sui diritti umani. E America e Russia sono d'accordo, mentre solo la Cina, con la sua consueta insensibilità sul tema, si tiene da parte. Il nostro Paese è stato attaccato diplomaticamente sulla frase di Berlusconi che affermava di fronte al Parlamento di Israele, l'unico Paese dell'Onu minacciato di morte da un altro Stato membro dell'Onu, che è nostro dovere sostenere l'opposizione iraniana e insieme, difendere la vita di Israele. Sinceramente, dà una bella soddisfazione che ciò sia avvenuto: è una conferma che l'Italia si è mossa con determinazione e pungendo nel vivo un Paese che impicca i dissidenti e gli omosessuali, che prepara la bomba atomica, che minaccia di distruzione il popolo ebraico. È una medaglia al valore. Dobbiamo aggiungere che, mentre si discutono le sanzioni, sia il ministro degli esteri Frattini che il presidente Berlusconi hanno dichiarato che il volume di affari con l'Iran è diminuito di un terzo nel giro di un anno: un'intrinseca adesione alla necessità - ormai finalmente presente anche nel resto dell'Europa, secondo le dichiarazioni di Westerwelle e di Kouchner - di procedere a sanzioni decise, che forse non piegheranno l'estremismo degli ayatollah, ma daranno il chiaro segnale all'opposizione che il mondo desidera un cambio di regime e che esige la fine della sfida atomica iraniana. Adesso che gli anni, per la precisione dal 2003, ovvero dalle prime trattative con un cauto Solana, ci hanno detto che la politica della mano tesa non funziona, ci sono molte cose che possono dimostrare la nostra determinazione, prima che le cose prendano una strada definitiva. Ci indica una delle vie l'iniziativa del premio Nobel Elie Wiesel, che ha raccolto 40 firme di premi Nobel per chiedere che Ahmadinejad venga sottoposto al giudizio della corte penale internazionale dell'Aia con l'accusa di aperto incitamento al genocidio. È un segno di mobilitazione internazionale che, mentre l'Iran attacca l'Italia, la Germania, la Francia, l'Olanda, per ora solo con dimostrazioni davanti alle loro ambasciate, chiama in causa tutta la comunità internazionale ad una mobilitazione efficace contro quello che unanimemente viene ormai ritenuto il maggior pericolo dei nostri tempi. Non solo parole dunque e condanne rituali, ma atti politici, economici e, se sarà il caso, militari contro il tiranno di Teheran che ha dichiarato guerra anche all'Italia.


IRENE NEMIROVSKY, NOTTE IN TRENO

Trad. Antonio Castronuovo, Ed. Via del Vento, Collana Ocra gialla, Pistoia, Settembre 2008, pp. 35
“…in ogni piccola stazione, nella pallida luce azzurra, si scorgeva un soldato che abbracciava una donna, prima di montare in carrozza”. “Ventiquattro ore, bisbigliò Marta”.All’inizio di gennaio ho ricevuto un graditissimo dono: Antonio Castronuovo -saggista, critico letterario e curatore delle opere edite dalla piccola, ma prestigiosa, casa Via del Vento, il quale aveva apprezzato il commento da me scritto a Jour d’été di Irène Némirovsky, uscito in luglio con la stessa-, mi ha inviato due preziose “gemme”: la prima è la storia, scritta dallo stesso Castronuovo, di Angelo Fortunato Formiggini; la seconda un altro breve racconto di Irène Némirovsky, pubblicato, sempre da Via del Vento, nel settembre 2008: Notte in treno. Mi soffermo su quest’ultima, mentre prometto di riservare l’attenzione per la tragica vicenda dell’editore modenese ad un futuro prossimo.Come spiega lo stesso Castronuovo nella postfazione, sempre chiara e puntuale, Nuit en wagon, da lui tradotta, apparve il 5 ottobre 1939 sul settimanale parigino Gringoire, prima opera scritta da Irène allo scoppio delle ostilità: i drammatici fatti accaduti nel settembre di quell’anno le avevano infatti fornito l’ispirazione per questo racconto, nel quale ella stessa è uno dei personaggi.La collaborazione con Gringoire, periodico politico-letterario di destra che non nascondeva le proprie antipatie per “ebrei e comunisti” (ma contributi della nostra scrittrice sono apparsi pure sul socialista Le Matin e sul comunista Le Peuple) è stata all’origine di violenti attacchi nei suoi confronti, anche in epoca recente, parzialmente sventati dalla figlia, Dénise Epstein (ritratta alla fine del libretto, sorridente a due anni, tra le braccia della mamma ). Non mi soffermo su tale aspetto dell’esperienza della Némirovsky, la cui vita peraltro si è snodata in un contesto tanto difficile da far apparire ogni giudizio a priori superficiale ed inadeguato, ma mi limito ad alcuni pensieri sulle tante sensazioni e i tanti temi ispirati da una narrazione anche solo di poche pagine.Nel presente testo ci troviamo su un treno, partito dalle località balneari del Golfo di Biscaglia e diretto a Parigi. E’ una notte di settembre del 1939, la “prima notte di guerra”.L’universo è un mondo piccolo ed infinito, con il suo carico di sentimenti, gioie, speranze e dolori…Gli animi di tutti sono divisi tra la calma apparente e una profonda, comprensibile, preoccupazione.Si cerca la compagnia e la confidenza del vicino, come non si sarebbe fatto mai in una situazione ordinaria; la solidarietà, la condivisione di pensieri e cibarie nasce spontanea. C’è chi parla delle proprie occupazioni quotidiane e racconta di questo e quel progetto, salvo interrompersi di colpo, memore che nulla sarà più come prima. Nessuno pensa di mettere in guardia -tra sé e sé- l’altro con il messaggio, implicito nei toni, ma chiaro negli sguardi: “Inutile tentare di fare la mia conoscenza”.Ognuno pare essere colto dall’obiettivo del destino e bloccato in quel preciso istante. Che cosa stavi facendo nel momento in cui…..?
La descrizione d’ambiente è data da pennellate brevi, sicure, efficaci; anche i viaggiatori, dopo qualche ora, sembrano essere divenuti, per così dire, essenziali “…nessuno aveva più voglia di giudicare il vicino…Sembravano davvero comprensivi di tutto”. Ad ogni stazione salgono nuove persone: un’umanità che si arricchisce e si rinnova. “Avevano perso il gusto di tormentarsi, di schernirsi…Le loro stesse figure parevano cambiate…”La narrazione sembra, all’inizio, in terza persona; ma ecco che, di colpo, la scrittrice entra in scena: “Uscii nel corridoio….” La presenza di Irène ci avvicina ancor di più ai nostri compagni di viaggio.I piccoli squarci di luce lasciano intravvedere tenere scenette. “Che dignità in quegli addii..!”Il centro della storia è una ragazza, Marta; dalla bellezza non ricercata, conosciuta, in una località marina, dall’Autrice, alla quale è altresì nota la famiglia di provenienza: genitori ben in carne e ingombranti, non solo fisicamente, specie la madre (c’è un evidente riferimento autobiografico). La giovane non porta bagaglio con sé, solo una piccola sacca da spiaggia, bianca con figure rosse. Confida a Irène le proprie vicende d’amore e il difficile rapporto con il padre e la madre; la loro perenne ansietà nei suoi confronti, anzitutto. Essi, se, da una parte, dichiarano di amarla, dall’altra, frenano qualsiasi iniziativa di lei; a cominciare dalla possibilità di un eventuale matrimonio; un giovanotto della quale ella si era innamorata qualche tempo addietro, lo avevano letteralmente fatto fuggire.Ma, trascorsi diversi mesi, le perviene da lui una lettera. Marta d’impeto scappa di casa, verso il suo amore, per accaparrarsi la tanto bramata “piccola parte di” gioia, proprio in un frangente storico caratterizzato dall’incertezza, dall’imprevedibilità, dalla paura di una guerra incombente. Solo ventiquattro ore, tutte per loro, senza pensare alle conseguenze, al domani; ventiquattro ore che potrebbero essere quelle decisive in tutta la vita che ci resta. Bellissimo e struggente. Mara Marantonio


GIOVANNI BATTISTA INTRA, LIA O LA FANCIULLA EBREA

Ed. Millennium, collana Modernità, 2009, pp. 328
“….e l’occhio dell’osservatore non sapeva fermarsi sopra un oggetto distinto; ma vagava qua e là per trovare pure qualche cosa che stuzzicasse particolarmente la sua attenzione fra tanta turba di gaudenti”.Siamo in una fredda mattinata di sole, il primo di gennaio 185…..La Casa Editrice Millennium di Bologna, nata nella sua forma attuale nel 2003, promuove numerose iniziative per un pubblico colto ed appassionato (a cominciare dagli studenti universitari), avvalendosi della collaborazione di docenti nei nostri Atenei; sono nate così alcune collane, come, ad esempio: Modernità; Forme; Storicità; Integrazione dei saperi nelle scienze della salute; Piccola biblioteca di geografia; NovaScrittura; Visioni. La grafica è elegante e i prezzi contenuti; l’interesse dell’editore è volto in primo luogo alla (ri)scoperta e rivalutazione di autori meno conosciuti.
In Modernità (testi e studi di cultura italiana diretta da Nicola D’Antuono) è uscito, lo scorso mese di dicembre, un romanzo storico, finora inedito, scritto nel 1859 da Giovanni Battista Intra, Lia o la fanciulla ebrea.L’Autore -nato nel 1832 a Calvenzano (Bergamo), morto a Mantova nel 1907-, laureato in lettere a Pavia a nemmeno vent’anni, diplomato in Archivistica, successivamente perfezionatosi in Storia presso l’Università di Vienna, si stabilì ben presto a Mantova, dove risedette per la maggior parte della sua vita. Fu studioso di profonda cultura, in corrispondenza con i maggiori intellettuali contemporanei (a cominciare dal filosofo Roberto Ardigò), autore di numerosi saggi storici, con particolare riguardo ai Gonzaga, nonché “novelliere” dal tratto ricco di immaginazione, con pennellate piuttosto efficaci di là dello stile espressivo generale talora ridondante.Il presente volume è anticipato dall’ottimo saggio introduttivo Riscoperta di un romanzo storico di periferia (e documentato con la successiva nota bio/bibliografica) di Stefania Segatori, giovane studiosa di letteratura italiana dell’Ottocento, la quale, dopo aver atteso all’ardua opera di trascrizione del manoscritto, ci accompagna lungo il percorso di interpretazione del testo e di inquadramento dello stesso confrontandolo con altre esperienze culturali in ordine ai temi trattati, a cominciare da quella di Ippolito Nievo.Lia o la fanciulla ebrea, scritto a Mantova, come precisato sopra, nel 1859, dunque sotto il dominio austriaco e alla vigilia della Seconda Guerra d’Indipendenza, successivamente postillato, è anzitutto una preziosa opera di memoria storica poiché offre un rilevante contributo alla conoscenza del mondo ebraico mantovano, riportandoci notizie ed elementi non rintracciabili negli archivi ufficiali.Mondo ebraico che, presente in città fin dal secolo XII, sviluppatosi lungo l’arco dei secoli successivi nelle diverse branche del sapere -dalla medicina, ai commerci, alla tipografia, fino al teatro e alla musica, attività, in passato, per esso insolite -, grazie alla tolleranza dei Gonzaga, confinato dagli stessi nel ghetto agli inizi del 1600 (su pressioni della Curia romana), può finalmente godere di una, sia pure assai relativa, libertà in forza della cosiddetta Patente di tolleranza, emanata nel 1782 dall’Imperatore Giuseppe II d’Austria, cui Mantova era passata fin dal 1707. Dopo tale provvedimento molti Ebrei iniziano ad uscire dal ghetto, specie i più facoltosi ed intraprendenti; e questo processo di liberalizzazione si intensifica dopo l’Emancipazione, avvenuta con i Francesi nel 1798.Ai tempi di Giovanni Battista Intra la borghesia ebraica mantovana si segnala con importanti attività, ville, palazzi prestigiosi, oltre che per la rilevante partecipazione al Risorgimento (un dato interessante: quando Mantova è annessa al Regno d’Italia gli Ebrei sono circa 2000).La trama del romanzo (o “Novella”, questa è la definizione dell’Autore) segue il canone romantico: l’amour passion, reso ancor più forte dagli ostacoli che incontra; la tragedia; il sacrificio redentore finale, attraverso il dolore, la malattia, il pentimento.
La bella Lia, figlia del ricco ebreo Jacopo, abita con il padre in un lussuoso palazzo nel centro città. Ella, per compiacere il genitore, accetta di impegnarsi nel matrimonio combinato col facoltoso cugino Aronne, giovane e intraprendente commerciante, innamorato al punto di compiere ogni sforzo per acculturarsi, onde non sfigurare di fronte a colei -amante della musica e delle buone letture- che ha scelto come donna della sua vita. La ragazza sembra tuttavia non aver fretta di sposarsi, ma Aronne non dispera, poiché, si sa, come scrive l’A., “…in generale le donne sanno nascondere a meraviglia le loro sensazioni…e hanno l’arte di parere indifferentissime per cose che stanno loro assai a cuore” (!).La storia entra nel vivo con l’apparizione di Adolfo, archivista, giovane imbevuto di cultura classica e di valori cattolici, plurilaureato, il quale, dopo un lungo soggiorno presso gli archivi della corte imperiale di Vienna, giunge a Mantova per completare una ricerca sul Principe Eugenio di Savoia, commissionatagli dall’ambasciatore sardo. Intra non nasconde la propria simpatia per il protagonista maschile, cui presta alcuni tratti autobiografici: un ragazzo povero, che ha potuto studiare grazie ai sacrifici della famiglia d’origine (e qui è evidenziato il contrasto tra il generoso padre di lui e l’arido Jacopo). L’incontro casuale tra Lia e Adolfo è un autentico coup de foudre: agli occhi e al cuore della fanciulla egli sembra dar corpo all’ideale di uomo ricercato nelle sue solitarie letture.
Il giovane cerca in tutti i modi di convincere l’amata della superiorità del Cattolicesimo sulle altre fedi e di come tutto l’universo culturale a lei tanto caro, anche negli aspetti apparentemente lontani, sia in realtà imbevuto di valori cattolici. Ella afferma di conoscere solo “la religione del cuore”, ma, per amore di Adolfo, accetta di convertirsi alla religione di lui. Quando, sia pure con dolore, confessa al padre le proprie intenzioni, ciò comporterà funeste conseguenze.I due innamorati abbandonano Mantova, ma un tragico destino li attende.Tragedia che, nelle pagine conclusive della storia, viene purificata dalla presenza trasformata -e sorprendente per la nuova veste assunta- di una figura femminile, una sorta di dark lady, incontrata nella prima parte del romanzo, che esprime e riassume in sé il significato di tutta la vicenda.L’opera ha una struttura ben definita, suddivisa in due parti: nella prima il lettore è accompagnato alla scoperta dei personaggi con ampi flashback per farceli conoscere nella loro storia; lo stile narrativo è un po’ ridondante con abbondanza di aggettivi in forma superlativa. Siamo di fronte al modello tradizionale di romanzo-storico d’ispirazione manzoniana.Dal XV capitolo in poi, dopo l’incontro tra i due giovani, il tono della narrazione diviene più serio e misurato, meno enfatico, talora incalzante, con l’uso di una terminologia che fa presagire con efficacia eventi tragici.
Numerose sono le tematiche trattate dalla vicenda, più che mai attuali ancora oggi; è interessante esaminare come esse fossero vissute ed analizzate circa 150 anni or sono e, nella fattispecie, da un Autore il quale, dopo l’Unità, fu al centro di aspre polemiche, poiché venne definito, a più riprese, come “austriacante”. Tuttavia, ci spiega Stefania Segatori nel saggio introduttivo, non fu affatto antinazionale, bensì solo un convinto apologeta della stretta ortodossia cattolica (tra l’altro, vi era stato, negli anni precedenti, un nutrito filone letterario antirisorgimentale e clericale, abituato a toni assai più aspri di quelli usati dal nostro Autore!).
Un argomento che entra in gioco è la questione dei matrimoni misti (tra Cristiani ed Ebrei) e la contrarietà ad essi, in primo luogo, dei Cristiani; ma, in definitiva, pure degli Ebrei, al fine di difendere la propria minacciata identità. Tali unioni sono garanzia certa di infelicità, ci avverte il nostro scrittore; e ciò è attestato non solo dal destino dei protagonisti, ma anche da quello di personaggi di contorno, come la giovanissima cristiana Silene, figlia dello speziale di Quistello, cittadina in provincia di Mantova, innamorata senza speranza di Aronne.Il dibattito sullo status degli Ebrei mostra -e ciò emerge dalle pagine del romanzo- l’atteggiamento in generale ostile, o almeno diffidente, da parte della maggioranza, che vede la discreta integrazione degli stessi nella società dovuta alla cordialità spontanea e alla tolleranza dei cittadini (sic!) e non certo a meriti degli Ebrei stessi! Essi vengono comunque definiti preparati ed aggiornati, specie in politica ed economia (!).Giovanni Battista Intra tratteggia con particolare efficacia nelle annotazioni psicologiche le figure femminili, a cominciare dalla bella Lia, fin dal suo primo apparire: “Poteva essa avere circa 24 anni; dunque di una bellezza affatto perfezionata, e senza quell’acerbo che piace e dispiace nello stesso tempo (che contrasto psicologico non presenta mai l’uomo nelle sue azioni!) nelle fanciulle al di sotto dei 18 anni”.Viene rimarcata l’importanza, nella tradizionale cultura ebraica, della Casa, del Focolare, e dunque della Donna come personaggio che custodisce e trasmette i valori comunitari e dunque l’identità. Ma, nello stesso tempo -ecco un altro tema da esplorare: l’autonomia e l’intraprendenza della donna in un contesto familiare tradizionale: “….non desidero essere invidiata, ma…felice” afferma Lia- la ragazza rappresenta quelle nuove generazioni di Ebrei che, insofferenti per le restrizioni loro imposte, ritengono di acquistare l’agognata libertà uscendo dal -e dunque rinnegando il- mondo -e i valori- in cui erano cresciuti.
Suggestiva “geografia degli spazi”: i giovani ebrei desideravano uscire dal circoscritto ambiente comunitario per mescolarsi alla più vasta società e inserirsi ai vari livelli, per “confondersi con gli altri”; così scrive Ippolito Nievo, riportato da Stefania Segatori, nel suo “primo saggio drammatico”, L’Emanuele, ispiratogli dalla vicende di un compagno di scuola -e amico- ebreo di Sabbioneta, Emanuele Ottolenghi, cui l’accumunavano sentimenti patriottici e liberali. Nievo denuncia pure i pregiudizi dei quali gli Ebrei sono ancora vittime; quegli stessi pregiudizi che Intra mette in bocca alla domestica cristiana Anna (contrapposta all’ebrea Sara).
Mentre il Nievo non si pone il problema della superiorità di una religione sull’altra e non prende posizione, bastandogli una sorta di religione naturale di “fratelli nell’umanità” -Cristiani ed Ebrei possono entrambi far progredire l’umanità, ciascuno nel proprio ambito, alla luce dei principi affermatisi con le idee riformistiche settecentesche- il nostro Autore ribadisce a più riprese, tramite Adolfo, la superiorità del Cattolicesimo, riprendendo stereotipi, che al pubblico più sensibile di oggi potrebbero apparire superati, ma che, in realtà, resistono tuttora in modo pervicace; pensiamo, se non altro, all’accento posto su ipotetiche caratteristiche fisiche degli Ebrei (anche se il linguaggio qui usato non è particolarmente astioso).La dialettica del rapporto tra religioni non è affatto sparita ai giorni nostri; anzi è più che mai attuale. Si può parlare di dialogo vero (anche su un piano che prescinda da temi strettamente teologici) tra fedi diverse, quando una di esse rivendica la propria maggior rilevanza sull’altra (o sulle altre), in una visione, per così dire, conversionistica?Il linguaggio e lo stile usati dall’Autore rientrano nel filone classicheggiante degli anni ’60 dell’800, con una certa rigidità e conformismo narrativi; ma non mancano vivaci descrizioni d’ambiente. Pensiamo alla casa / castello del facoltoso Jacopo (sorta di fortilizio che egli si è costruito per tenere ben al sicuro i propri averi….), con i suoi anfratti; o alle scene d’ambiente, come quella del passeggio al Corso di Pradella, tradizionale luogo di incontro: voci, colori, luci, che fanno da sfondo all’apparire dell’affascinante protagonista. Bozzetto umano ben tratteggiato, con i suoi chiaro/scuri, è il contrasto tra la ragazza sorridente ed ammirata dagli astanti ed il corrucciato, pur orgoglioso, padre, al braccio del quale ella si appoggia.Lia, amata dall’Autore, potrebbe essere, nei suoi sentimenti e pudori, una Lucia Mondella in versione ebraica, acculturata e ricca (pensiamo alle pagine dell’addio alla città natale), pur non avendo certo l’intensità e la drammaticità del personaggio manzoniano.
Mantova è descritta con attento affetto (anche a Vienna è riservata un’attenzione che richiama la forza dell’Impero e i valzer degli Strauss), come un luogo aperto, seducente, non la plaga insalubre, popolata “solo da fantasmi spaventosi e dalla pallida febbre”, così scrive ironico Intra, sfatando radicati preconcetti.“…. il miracolo di pietra sorto dalla palude si fa vita, contemplandosi nel lungo tempo del suo esistere, confondendosi con i campi assorti nella pace feconda. E’ un dialogo di vita, di continuità, d’amore. Caldo amore mantovano”, così un illustre concittadino, nostro contemporaneo, il Conte Giovanni Nuvoletti Perdomini, nella sua prefazione all’evocativo volume di Franco Marenghi La cucina mantovana ieri e oggi, Edizioni Edimarenghi, 1996.
La conclusione della vicenda, infine, pur edificante, ma non è affatto scontata, contiene un piccolo coup de théâtre.Arrivati all’ultima pagina sarebbe un’avvincente sfida “smontare” tutta la storia per ricomporla secondo la sensibilità dei nostri tempi. Mara Marantonio

mercoledì 10 febbraio 2010


“Elton John non andare in Israele", pressioni sul cantante

Caro Elton John non suonare in Israele, è uno stato razzista. Questo il sunto della lettera inviata alla celebre pop star inglese da un gruppo di accademici britannici. “Politico o no, quando salirai su quel palco a Tel Aviv, ti sarai schierato dalla parte di uno stato razzista”, scrive il Comitato britannico per le università in Palestina, che chiede al cantante di cancellare la data israeliana del 17 giugno. “Ti comporti come se suonare in Israele sia moralmente neutrale - si legge nella lettera aperta - ma come può esserlo? Come può la crudeltà delle azioni di Israele contro i palestinesi (fondamentalmente perché i palestinesi sono lì, sul suolo palestinese, e Israele li vuole cacciare) essere moralmente neutrale?”. Poi il richiamo al controverso rapporto Goldstone sull’operazione Piombo fuso, condotta dall’IDF fra il dicembre 2008 e gennaio 2009 “per favore leggi ciò che il giudice Goldstone ha detto a proposito del massacro a Gaza, cosa Amnesty International e Human Rights Watch hanno detto per decenni sui crimini commessi contro i palestinesi”. Questo non è il primo caso di boicottaggio. Prima di Elton John, un’altra celebre star internazionale è stata oggetto di pressioni da parte di gruppi anti-israeliani. Carlos Santana, infatti, due settimane fa ha cancellato il suo concerto al Bloomfield Stadium di Jaffa. La motivazione ufficiale non è nota. Secondo alcuni organizzatori, Santana avrebbe ricevuto il chiaro messaggio di “evitare la data israeliana”. Dello stesso parere il produttore Shuki Weiss, promotore dell’evento: “Dalle nostre indagini risulta che Santana abbia ricevuto messaggi da figure contro Israele che facevano pressione perché annullasse lo show. Naturalmente, dall’altra parte nessuno ha fatto riferimento a qualsiasi connessione tra queste pressioni e la cancellazione dello show, ma noi siamo sicuri questa connessione esista e sia molto stretta ".Intanto l’organizzazione filo palestinese, nelle cui fila, stando a Ynetnews, vi sono membri israeliani ed ebrei, auspica che Elton John segua le orme di Santana. “Purtroppo - sostiene il presidente del Comitato, Haim Bresheeth - non siamo riusciti a convincere Paul McCartney - né Leonard Cohen - ad annullare il suo concerto, ma noi continueremo a prendere provvedimenti simili, al fine di evitare che questi artisti rispettabili vengano in un paese occupante che viola il diritto internazionale. La decisione finale è nelle mani degli artisti stessi”. La parola ad Elton John, dunque.Daniel Reichel,
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soldatessa israeliana


Israele e la legittima difesa

La recente visita di Berlusconi in Israele e Palestina (con la pubblica giustificazione del premier, nel discorso alla Knesset, dell’operazione militare a Gaza e le sollecitazioni, da parte palestinese, per una condanna della barriera difensiva) hanno, per l’ennesima volta, riacceso l’attenzione sulla liceità delle misura di difesa prese dal governo israeliano. Che ciascuna di queste opzioni (barriera, arresti, incursioni, guerre, esecuzioni mirate ecc.), sia, di volta in volta, opinabile e criticabile, è ovvio, e in nessun Paese come Israele qualsiasi atto di forza o di prevenzione è sottoposto a un severissimo giudizio di legittimità e opportunità, in sedi disparate, ciascuna del tutto indipendente dalle altre (comandi militari, magistratura, Corte Suprema, Parlamento, stampa ecc.). Fra le varie scelte, l’unica che non venga mai menzionata, e tanto meno criticata, è quella dell’inerzia: nessuno, infatti, si chiede se sia accettabile, politicamente e moralmente, che un Paese democratico non muova un dito a difesa della vita dei suoi cittadini. Come disse il Presidente della Corte Suprema, Aharon Barak, la democrazia è l’arte di difendersi con una mano legata dietro la schiena. Certo, per nemici e ‘antipatizzanti’, se fossero legate tutte e due sarebbe meglio, e, ai bersagli di razzi e kamikaze, il governo israeliano potrebbe rispondere col titolo del fortunato romanzo della Mazzantini: “non ti muovere”.Francesco Lucrezi, storico http://www.moked.it/



Rav Arbib: "I silenzi di Pio XII fanno ancora male"

L'esito dell’evento non era affatto scontato, anzi, presentava un certo margine di rischio. Ma a conti fatti devo dire che considero il bilancio finale positivo. Ho apprezzato il grado di autenticità, il tono a tratti vibrante dell’incontro e l’impronta di ferma autorevolezza che i discorsi del presidente Riccardo Pacifici e di Rav Riccardo Di Segni hanno saputo imprimere all’evento. La misura e il coraggio delle loro parole erano notevoli, sono stati capaci di dire tutto e di dirlo bene, senza risparmiare nessun aspetto sul tappeto, né eludere nessuna questione aperta”. A parlare così è il Rabbino Capo di Milano, Rav Alfonso Arbib, reduce dallo storico evento avvenuto nella Sinagoga di Roma il 17 gennaio scorso, l’incontro di Papa Ratzinger con gli ebrei d’Italia, la seconda visita di un pontefice dopo quella memorabile di Papa Wojtila il 13 aprile 1986. Qual è secondo lei il cuore del discorso di Benedetto XVI? È stato molto importante quanto detto dal Papa sull’alleanza irreversibile tra ebrei e Dio. Da un punto di vista della teologia cattolica è stato toccato un punto fondamentale, figlio del Concilio Vaticano II, ma un figlio non così scontato: ovvero quello che liquidava una volta per tutte la teologia della sostituzione che per secoli aveva propugnato la sostituzione dell’ebraismo con il cattolicesimo in quanto Verus Israel. Aver archiviato la teologia della sostituzione, averne ribadito l’obsolescenza e aver sottolineato di contro l’alleanza irreversibile tra Dio e il popolo ebraico è un fatto non da poco, specie perché avviene dopo il controverso reintegro della preghiera del Venerdì Santo, voluta dallo stesso Benedetto XVI. Dopo la visita del 17 gennaio si potrà dire che sia davvero cambiato qualcosa in fatto di dialogo inter-religioso? No, non sostanzialmente. Cominciamo a dire che il dialogo ebraicocristiano dura da pochi decenni e viene dopo secoli di incomprensioni, tragedie, disprezzo. Tutto ciò non si cancella con un colpo di spugna. Quello che invece credo è che la visita del 17 gennaio possa produrre qualche semplice ma importante risultato. Il primo è un argine chiaro e netto alle spinte anti-giudaiche, una forte limitazione dell’antigiudaismo cattolico che era un tempo diffusissimo e che i decenni di dialogo hanno contribuito a limitare fortemente ma non è sempre del tutto dimenticato oggi. Un risultato questo da non sottovalutare, una presa di posizione estremamente importante. Secondariamente, c’è da dire che non è stata chiesta solo l’apertura degli Archivi storici vaticani circa la vicenda della beatificazione di Pio XII. Un’altra cosa significativa, avvenuta nel colloquio privato con rav Riccardo Di Segni, è stata la richiesta di accedere agli Archivi delle istituzioni cattoliche in merito ai bambini salvati dalla Shoà e convertiti al Cristianesimo e poi “dispersi”, finiti chissà dove, molti mai restituiti alla fede ebraica. Che fine fecero questi bambini? Il Papa, in sede privata, ha mostrato grande comprensione per la vicenda. Terzo punto importante: il gesto di fermarsi davanti alla lapide che ricorda la razzia del 16 ottobre 1943 e il fatto che il Papa abbia espressamente richiesto di incontrare i feriti dell’attentato avvenuto a Roma nel 1982, quello che uccise il piccolo Stefano Tachè. Così facendo Ratzinger ha espresso una decisa condanna non solo dell’antisemitismo di ieri ma anche di quello di oggi, pericolosamente contemporaneo. Infine, mi sembra di grande valore il fatto che Benedetto XVI abbia ribadito lo spirito del Concilio Vaticano II dicendo che quella fu una pietra miliare da cui non si torna più indietro. Eppure il Pontefice, nel suo discorso, non ha fatto cenno alla questione della beatificazione di Pio XII e non ha mai nominato lo stato d’Israele parlando sempre e solo di Terra santa... La Chiesa ha molte contraddizioni al suo interno e non sarà certo una visita in Sinagoga a porvi rimedio. Certo quello di Pio XII rimane un problema, il suo silenzio, la sua scarsa sensibilità verso gli ebrei restano ancor oggi un tasto molto doloroso. Ma attenzione: non è certo questa una faccenda nuova, sono decenni che si parla della beatificazione di Pio XII, la vicenda inizia addirittura con Papa Paolo VI ed è proseguita finora attraverso altri tre pontificati anche se indubbiamente il riconoscimento delle “virtù eroiche” di Papa Pacelli a pochi giorni dalla visita ha rappresentato un’aggravante della questione. Ad oggi, la scelta dell’ebraismo italiano è stata quella di protestare, di esprimere fermamente la propria contrarietà ma senza considerare che questo specifico motivo fosse una ragione sufficiente per interrompere il dialogo. Anche il mancato riferimento a Israele rappresenta indubbiamente un problema. C’era in ballo anche un’altra importante questione, quella della preghiera del Venerdì Santo... C’è da dire che la faccenda si era chiusa già qualche tempo fa con una specie di compromesso: la Cei aveva sostenuto che il riferimento alla “conversione dei giudei” fosse qualcosa che rimandava a tempi escatologici, alla fine dei giorni e al giorno del Giudizio, non all’oggi, non al qui e ora, non all’attualità. Alla vigilia, molte erano le perplessità circa questo incontro. Guardi, l’analisi e i dubbi circa questa visita erano in verità condivise da tutti, con una unità di vedute come di rado è accaduto nel nostro mondo ebraico. Era sulla prassi, sul da farsi che le posizioni divergevano. C’è chi pensava che la visita andasse sospesa, chi ha scelto di non venire... Pur con tutti i dubbi credo che la visita non andasse annullata. La decisione avrebbe prodotto risultati gravi. A posteriori ritengo che l’esito dell’incontro sia oggi da considerarsi senza dubbio positivo. Inoltre ribadire le nostre posizioni è stato importante, anche se, inutile negarlo, molte risposte da parte cattolica devono ancora arrivare. Fiona Diwan(Bollettino della Comunità ebraica di Milano, Febbraio 2010)


Dorit Beinish


Notizieflash

Voto israeliani all'estero, scontro Netanyahu-Livni Tel Aviv, 9 feb -Netanyahu propone di estendere il diritto di voto alla Knesset agli israeliani che risiedono all'estero. Non si sono fatte attendere le critiche della leader dell'opposizione Tizipi Livni (Kadima), del leader laburista Ehud Barak e degli ortossi di Shas. "La Knesset - ha notato la Livni - è talvolta chiamata ad esprimersi su questioni 'di vita o di morte' per gli israeliani. Non è giusto che tali decisioni siano influenzate da chi vive all'estero e che dunque in ogni caso non pagherebbe il prezzo delle loro conseguenze". Ma secondo i politologi il voto degli israeliani all'estero non rivoluzionerebbe la composizione della Knesset, ne cambiarebbe solo la fisionomia. Israel Beitenu spera di ottenere voti aggiuntivi da ebrei immigrati in Israele dalla Russia negli anni Novanta, e poi rientrati nel Paese natio. Presumibilmente calerebbe invece il peso dei partiti arabi e quello del partito ortodosso sefardita Shas, che come Kadima si oppone a qualsiasi cambiamento della legge.Israele invoca sanzioni severe contro l’Iran Tel Aviv, 9 feb -"Non c'é più tempo, la comunità internazionale deve prendere una decisione vera su sanzioni concrete che siano dolorose per l’Iran”, questo il messaggio lanciato stamane dal vicepremier israeliano Silvan Shalom (likud) alla radio militare. "Ogni ulteriore tentennamento - ha avvertito - consentirà agli iraniani di dotarsi della capacità di sviluppare armi nucleari". Da parte sua il ministro dell'energia, Benyamin Ben Eliezer (laburista), ha accusato gli Stati Uniti e diversi Paesi occidentali che “non sembrano ancora cogliere appieno i rischi insiti per il Medio Oriente da un Iran che presto sarà dotato di armi nucleari”. “Diversi Paesi occidentali - ha aggiunto Eliezer - di giorno denunciano la politica dell'Iran, mentre di notte fanno affari e il presidente dell'Iran, Mahmud Ahmadinejad, è molto abile a sfruttare questo dualismo". Piombo fuso, sì della Corte suprema a inchiesta su Israele Gerusalemme, 8 feb -Parere favorevole è stato espresso dalla presidentessa della Corte suprema israeliana, Dorit Beinish, in merito all'istituzione in Israele di una commissione di inchiesta sull'operazione Piombo fuso. "Credo che Israele non abbia nulla da temere da una commissione di verifica. Israele è abbastanza forte per non aver paura di una tale verifica", ha affermato Beinish. "Credo che così si vedrà che molte cose sono state esagerate, ma, per esserne certi, occorre verificare", ha aggiunto la giudice. http://www.moked.it/


Gerusalemme - King David hotel

Rassegna stampa

Due bellicose dichiarazioni dal campo islamico dominano oggi la nostra rassegna. La prima è quella della "Guida suprema" dell'Iran Khamenei, che annuncia il proseguimento dell'attività nucleare e la sua estensione come un "cazzotto" all'Occidente (Galllo sulla Stampa, Offreddu sul Corriere). Certamente la decisione iraniana di continuare l'arricchimento dell'uranio altre i limiti dell'uso civile mette in mora ogni tentativo di compromesso e impone le sanzioni, come mostra anche l'analisi di Gerlad Seib del Wall Street Journal e riconferma un editoriale di Le Monde. Ma si tratta anche di una minaccia di uso interno, mirata al prossimo anniversario della "rivoluzione islamica". Scrive Offreddu: "E forse, il «pugno» preannunciato all'Occidente è un tentativo di scaricare all'esterno queste tensioni interne (lo stesso Khamenei accusa «mandanti stranieri» di fomentare le manifestazioni)" Fatto sta che «Il 22 Bahman [11 febbraio], proclama da Teheran l'ayatollah e Guida suprema Ali Khamenei la nazione iraniana unita e con la grazia di Dio sferrerà un pugno tale all'Occidente, che lo lascerà stordito».In un tema così serio, che rischia di mettere in crisi per davvero la pace nel mondo, val la pena di citare come alleggerimento la presa di posizione dell'inossidabile Gianni Vattimo (che ricordiamolo a chi si accinge a votare, è stato eletto deputato dall'Idv di Di Pietro) e dell'altrettanto irremovibile Domenico Losurdo preside della facoltà di scienza della formazione di Urbino e autore di un libro recente in cui rivaluta Stalin (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" , Carrocci) sul Manifesto. Vi si sostiene che la rielezione di Khomeini dell'anno scorso fu regolare, come dice il presidente brasiliano Lula; che è vero che ci sono tanti morti fra gli oppositori, ma anche qualche poliziotti si è fatto male durante le manifestazioni; insomma che bisogna appoggiare l'Iran: l'ultimo fuoco di chi si dice amico di Chavez e Castro, appoggia naturalmente Hamas e i suoi razzi su Sderot, sostiene la Cina contro l'"aggressione tibetana"... L'altra minaccia viene dallo Yemen, dove il "vicecapo" locale di Al Queda ("Abu Sufyan aI-Azdi, ex prigioniero numero 372 a Guantanamo, liberato un anno fa da quel penitenziario per essere subito internato in un carcere dell'Arabia Saudita, suo paese natale, da lì evaso e fuggito verso lo Yemen", così Pietro del Re su Repubblica) ha dichiarato jihad (guerra santa) ai "crociati" e agli americani e ha dichiarato di proporsi di bloccare il golfo di Aden (che dà accesso al Canale di Suez) per "strangolare gli ebrei" e incidentalmente anche l'Europa (Alfieri su Avvenire, notizia redazionale sul Giornale). Varrà certamente la pena di ricordare il percorso di Al Azdi quando si riaccederà la discussione su questioni come la legittimità di Guantanamo e delle "extraordinary renditions" di pericolosi terroristi ordinati dall'amministrazione Bush. La preoccupazione ora è una saldatura fra i ribelli dello Yemen, fortemente appoggiati dall'Iran e quei somali, islamici anche loro, che partendo dall'altra parte di uno stretto di una ventina di kilometri, da alcuni anni hanno riportato in vita l'antico mestiere della pirateria marittima, nonostante la massiccia ma sostanzialmente imbelle presenza di forze delle marine occidentali in quelle acque.Fra gli altri articoli, da segnalare la solita ironia di Guido Ceronetti in un pezzo sulla Stampa a proposito della proibizione del burka in Francia e una serie di articoli sulla prossima "giornata del ricordo" dedicata alle foibe triestine: ma "anche a destra ricordano in pochi", commenta dispiaciuto Giuseppe Parlato su Libero. Non è un caso quindi che Franco Cardini sul Tempo riproponga la sua idea di un compianto generale per tutti i morti di tutte le stragi, (con)fondendo in esso anche la memoria della Shoà. Ugo Volli http://www.moked.it/


Un ricordo di David Levine, l’irriverente caricaturista americano

E’ venuto di recente a mancare David Levine, l’irriverente caricaturista americano che per più di 50 anni ha animato le pagine della New York Review of Books. Nato a Brooklyn, dove suo padre possedeva una piccola fabbrica di vestiti, David sviluppò fin dalla più tenera età una predisposizione per il disegno. Levine studiò pittura al Pratt Institute e alla Tyler School of Art di Philadelphia per poi servire nell’esercito americano durante la Seconda guerra mondiale.Nel 1960 ricevette il primo incarico di un certo rilievo all’Esquire, dove sviluppò le sue doti di vignettista e caricaturista politico. Poi il passaggio al New York Review of Books e la realizzazione di 3800 disegni e caricature di scrittori, artisti, atleti e politici dal 1963 al 2007. Solo metà dei lavori di Levine vennero creati per il Review, David collaborò infatti con altre testate come il Time, Newsweek, Esquire, Playboy, The Nation, Rolling Stone, il New Yorker.Il suo è uno stile anglosassone, senza inutili veleni, l’artista punta piuttosto sulla sua spiccata vena satirica e sulla caratterizzazione portata all’estremo: grandi teste a sottolineare la mappa somatica dei personaggi ritratti, un’indagine approfondita del volto, spesso una ragnatela di segni su ampie aree di puro bianco e puro nero, e corpi minuscoli, il tutto accompagnato dall’uso di oggetti relativi all’attività del personaggio. Un artista preoccupato del mondo in cui vive, un sentimento, la preoccupazione, che traspare in modo chiaro dai suoi lavori di carattere politico. Caricature graffianti, vere e proprie pietre miliari del vignettismo mondiale. “Lavori straordinari realizzati con una percezione straordinaria”, come sottolinea in una recente intervista il vignettista Jules Feiffer, amico di Levine. Come il ritratto del presidente Lyndon B. Johnson nell’atto di scoprirsi il busto per rivelare una cicatrice a forma di mappa del Vietnam o la caricatura dell’ex segretario di Stato Henry Kissinger catturato nell’atto di amoreggiare su un divano con un corpo femminile la cui testa è un mappamondo o ancora il ritratto di Bill Clinton, ex presidente degli stati uniti, paonazzo mentre stringe la cinghia in attesa di tempi decisamente difficili per l’economia americana. Levine disegnò Richard Nixon, il suo soggetto preferito, per ben 66 volte. Un Nixon a forma di verme che fuoriesce da una mela in occasione delle elezioni, che piange banconote dopo la pubblicazione del report finale sul caso Watergate, e ancora a forma di topo, di cane e di un feto quando il tema dell’aborto spiccava sulle prime pagine dei giornali americani. Secondo suo Figlio Matthew nonostante il padre fosse un ateo convinto si considerava culturalmente ebreo: “l’idea del tikkun olam, di perfezionamento del mondo in cui viviamo è riscontrabile in qualche modo nel lavoro di mio padre, nella sua volontà di non lasciare che le persone che detengono il potere, possano usufruirne impunemente e in modo sconsiderato”.In molti suoi lavori Levine ha rappresentato personaggi di spicco della politica israeliana: troviamo l’ex primo ministro Golda Meir con un mestolo e un piatto di zuppa in mano. Impietoso nei confronti di Ariel Sharon presentato come un golia che sovrasta il piccolo Yasser Arafat, mentre in un altro disegno l’ex primo ministro si presenta con la Keffiah in testa e tra le braccia un Sefer Torah imbottito di missili. Benyamin Netanyahu, disegnato con la Kippah, la pistola in mano e l’abbigliamento tipico del legionario romano. Non viene risparmiato neanche Shimon Peres sequestrato e legato con una corda alla sedia.Non solo politica, ma anche arte e letteratura ebraica. Levine ritrasse lo scrittore Yiddish Isaac Bashevis Singer, seduto su una sedia con lo schienale a forma di stella di Davide e Bernard Malamud con il Tallit a mo’ di sciarpa mentre fa roteare tra le dita i tefillin, o Kafka rappresentato con le zampette da insetto, chiaro rimando alla sua Metamorfosi. Philip Roth viene invece tripartito con chiaro riferimento alla trama del suo cervellotico romanzo Operazione Shylock.Levine spesso riusciva a realizzare anche l’impossibile, ispirandosi per esempio a sculture e statue dell’antichità per riprodurre figure classiche, a dipinti per personaggi del periodo rinascimentale e infine a fotografie per soggetti moderni. Pochi altri disegnatori americani sarebbero stati in grado di raffigurare senza difficoltà concetti astratti quali la linguistica, il manierismo, l’industria militare, la finanza, l’arte.David Levine era un uomo dotato di una grande intelligenza, di un’ampia visione d’insieme e di una solida preparazione artistica. Egli compose, ombreggiò e disegnò con lo sguardo di un vero pittore e artista, ma più di ogni altra cosa Levine possedeva una innata capacità di compenetrazione psicologica che lo portava a ragionare sui soggetti da rappresentare con un’attenzione quasi maniacale. Uno dei migliori vignettisti del ventesimo secolo, un uomo che, grazie al suo acuto spirito critico è riuscito a dar lustro ad una professione sempre alla ricerca di nuova linfa vitale. Michael Calimani, http://www.moked.it/


Gadi Taub, autore di questo articolo


Israele. Dove buttano i discorsi sullo Stato bi-nazionale

Israele fa fatica a modificare il proprio schema mentale e a disfarsi del vecchio presupposto secondo cui quello a cui puntano i nemici del sionismo è erodere a poco a poco il territorio dello stato ebraico: un tempo la chiamavamo “la tattica a fette di salame”. Ma gli avversari del sionismo hanno capito che il modo migliore per eliminare Israele è fare esattamente l’opposto: impedire la spartizione del paese in due Stati.In passato, la natura delle forze che cercavano di prevenire la spartizione era chiara a tutto il mondo democratico: si trattava dei fan del nazionalismo arabo che si battevano per precludere agli ebrei il diritto all’autodeterminazione. Il quadro era chiaro: i nazionalisti si opponevano alla spartizione mentre i sostenitori della democrazia la sostenevano.Oggi, però, sia il nazionalismo che l’antisemitismo vengono presentati sempre più spesso sotto l’apparenza di un discorso democratico.Naturalmente la posizione dei nazionalisti arabi è rimasta la stessa. I palestinesi si opponevano alla spartizione proposta dalle Nazioni Unite (nel 1947) e vi si oppongono ancora oggi. Anche il motivo è rimasto lo stesso: vi deve essere un unico Stato fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo e sarà uguale a ogni altro Stato arabo, con una minoranza di ebrei al suo interno. Viceversa la spartizione avallerebbe l’esistenza di uno Stato per gli ebrei dotato di maggioranza ebraica (che è appunto ciò che non vogliono).La soluzione “un unico Stato” viene sempre più spesso presentata in termini di democrazia e diritti umani. Si tratta del sodalizio tra i vari Goldstone e i loro committenti: un consesso internazionale di Stati che calpestano ogni giorno i diritti umani e che nondimeno incaricano un campione dei diritti umani di descrivere Israele come il nemico dei diritti umani.Intanto l’altra parte – un movimento razzista che abbraccia esplicitamente l’assassinio di ebrei – copre i suoi lanci di razzi contro bersagli civili dietro la facciata di quei diritti umani, nascondendo le sue rampe di lancio e i suoi missili dietro il corpo della sua stessa gente.La non-santa alleanza fra nazionalisti arabi e paladini della democrazia sta diventando sempre più sofisticata. Faremmo meglio a prestare attenzione a questo tentativo di cancellare la distinzione fra territori occupati e Israele vero e proprio. L’opinione pubblica occidentale viene a poco a poco preparata a questo, a cominciare da quando vede nei telegiornali le immagini di posti di blocco con la scritta “Stato ebraico” e ne conclude – sbagliando – che Stato ebraico significhi apartheid.Quest’opera di preparazione viene sostenuta anche da mass-media e da intellettuali. Non a caso gli avversari di Israele in occidente hanno smesso di parlare di occupazione, e sono passati a parlare di apartheid. Il termine occupazione presuppone una chiara distinzione fra territori che si trovano al di qua, e territori che si trovano al di là della Linea Verde armistiziale. Viceversa il termine apartheid fa riferimento alla nozione stessa di Stato ebraico, dipingendolo come uno Stato dove un popolo ne domina un altro, e riducendo la questione del territorio semplicemente alla più vistosa manifestazione di questo fenomeno. Di conseguenza, secondo questa logica, una giusta soluzione basata sull’eguaglianza non può accontentarsi di una spartizione della terra in due Stati giacché questo non farebbe che avallare la perdurante esistenza del deprecabile Stato ebraico.Ecco perché il fantomatico stato bi-nazionale viene visto come la soluzione giusta: qualcosa di simile al Belgio e alla Svizzera, o alla soluzione che è stata imposta alla Bosnia dalla comunità internazionale (e preservata con un’occupazione internazionale). Gli israeliani che prendono in esame questo genere di proposta capiscono perfettamente quanto sia irragionevole. Uno Stato a maggioranza araba non sarà certo simile alla Svizzera. Affidare i diritti della minoranza ebraica nelle mani di una maggioranza di Hamas e di Fatah non darà vita a una democrazia liberale. Non esiste un solo Stato arabo che abbia rinunciato al suo carattere nazionale arabo e – come ha notato lo storico Alexander Yakobson – l’idea che, di tutti i popoli arabi, proprio i palestinesi siano gli unici a farlo per il bene degli “invasori sionisti” è fondamentalmente insensata.E tuttavia non è questo ciò che la comunità internazionale ha davanti agli occhi. Il fuoco di fila di articoli e servizi che ritraggono Israele come uno stato dell’apartheid, unito al martellamento di proposte, apparentemente ragionevoli, per lo Stato bi-nazionale, stanno gradualmente creando un contesto in cui questa sembra essere la soluzione più semplice e democratica per risolvere un sanguinoso conflitto incagliato.Se non si riuscirà a imporre al più presto ai palestinesi la spartizione del paese, la comunità internazionale potrebbe essere tentata di eliminare del tutto Israele attraverso l’“eguaglianza bi-nazionale”. Nel nome della democrazia, naturalmente.(Da: YnetNews, 02.02.10)Articolo concesso da http://www.israele.net/