sabato 22 gennaio 2011


Allenatori irlandesi in Israele

Gli allenatori della Federcalcio irlandese (FAI) hanno partecipato all'iniziativa pacifista Football Village of Hope in Israele
La delegazione della FAI ha visitato il "Villaggio calcistico della speranza" di Shfeya, paese nel nord di Israele, per tenere sedute di allenamento con i bambini israeliani e palestinesi. La federazione spera così di dare un contributo per interrompere un ciclo di segregazione.Oltre 100 ragazzi di Kiryat Gat, Merchavim, Jericho, Hebron, Yata e Yerucham hanno giocato a calcio sotto la guida degli allenatori della FAI, partecipando anche ad attività in classe e workshop. L'impegno della FAI è supervisionato da Milo Corcoran, ex presidente della federazione e attuale presidente del comitato internazionale, e da Ophir Zardok, ex direttore generale del Drogheda United FC (squadra di prima divisione irlandese).Gli allenamenti sono stati condotti dagli allenatori Ger Dunne, Sue Ronan e Des Tomlinson e da una squadra mista di consulenti israeliani e palestinesi, che hanno dato un modello positivo ai bambini. "È un'opportunità che capita una sola volta nella vita: i bambini possono incontrare la gente del cosiddetto 'altro lato' e lavorare con l'obiettivo comune di un futuro migliore", ha commentato l'allenatore palestinese Anwar Zeidan.Il Football Village of Hope, organizzato dal Centro Peres per la Pace a cadenza annuale, ospita ragazzi e ragazze del programma Twinned Peace Sports Schools. La prospettiva a lungo termine del progetto, nato più di otto anni fa, è quella di consolidarsi come modello per favorire la pace e la convivenza tra palestinesi e israeliani.18 gennaio 2011, http://it.uefa.com/trainingground/


Tel Aviv
12 minuti per incenerire Tel Aviv

Vent’anni fa, alle tre del mattino del 18 gennaio del 1991, gli Scud di Saddam Hussein iniziarono a piovere su Tel Aviv. Per la seconda volta nella storia, la metropoli israeliana subiva un attacco dal mondo arabo. Si temeva l’uso di armi chimiche o biologiche, il virus del vaiolo e l’antrace erano una realtà nell’Iraq di Saddam. In Israele caddero 39 Scud, ci furono morti, feriti, distruzione. L’acqua minerale e le scatolette sparivano dai supermarket. In quelle serate fredde la gente camminava portandosi sempre a tracolla l’ammennicolo della maschera antigas, perché Saddam aveva risollevato nell’inconscio collettivo degli ebrei l’idea che si potesse morire gasati senza alzare un dito. Israele rispose con l’understatement, il quieto coraggio civile, verificando i rifugi, sigillando con la plastica porte e finestre. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha appena puntato il dito sul nemico più serio per Israele: “La prima preoccupazione è l’Iran, la seconda preoccupazione è l’Iran, la terza preoccupazione è l’Iran”. A confermarlo sono le stime dell’intelligence israeliana: Teheran sarebbe in grado di lanciare 400 missili “letali” su Tel Aviv. Hezbollah ne potrebbe lanciare fino a 600 al giorno. Da Teheran a Tel Aviv, un razzo iraniano Shihab impiegherebbe dodici minuti per colpire lo stato ebraico. Tel Aviv, nel cui bacino vive un quarto dell’intera popolazione israeliana, è l’obiettivo della prossima guerra, che nessuno sa se e quando scoppierà, ma tutti sanno che avrà gli occhi bui degli ayatollah. Mentre prosegue il balletto sulla data in cui Teheran avrà l’atomica, Israele sta investendo nella propria sopravvivenza. Il comandante delle forze di difesa della regione, Adam Zussman, ha spiegato che “Tel Aviv è di nuovo in pericolo. In qualunque scenario di guerra, sarà colpita da numerosi missili, missili mirati e letali”. Sia Tel Aviv sia la città portuale di Haifa furono colpite dagli attacchi del 1991. Ma, per la prima volta dalla nascita d’Israele, domani potrebbero essere raggiunte da ordigni devastanti. Si studia in fretta a chi debbano andare i poteri locali (vigili urbani, pompieri, ospedali) nel caso di attacchi disastrosi. L’economia si attrezza, decidendo a chi deve andare la priorità d’intervento immediato in caso di collasso bellico, così da evitare il blocco della produzione: quali i computer da ripristinare per primi, quali le catene da rimettere in moto per non restare privi di elettricità. La capacità di morte nella regione è salita vertiginosamente. Si calcola che, quattro anni fa, la Siria avesse trecento missili che potevano raggiungere Tel Aviv, Hezbollah una dozzina, l’Iran cinquanta e nessuno Hamas. Due anni dopo, la Siria ne aveva 1.300, Hezbollah 800, Teheran 300 e Hamas una dozzina. Oggi l’intelligence stima 2.300 missili per la Siria, 1.200 per Hezbollah, 400 per Teheran e un buon arsenale di Fajr-5 anche per Hamas. Oggi Gerusalemme potrebbe essere colpita con una precisione tale da lasciare intatta la moschea di al Aqsa, sacra all’islam. A confronto gli Scud di Saddam sono ricordi sghembi. L’eventuale effetto di un missile iraniano su Tel Aviv è stato appena quantificato dal generale Itzik Ben-Israel, già a capo del centro ricerche dell’esercito: “Farebbe un cratere di 500 metri e 20 mila morti. E’ tanto, ma non distruggerà Tel Aviv o Israele”. Ogni missile su Tel Aviv avrebbe sulla popolazione lo stesso impatto di trenta missili di Hamas nel sud del paese. Tel Aviv non si estende oggi solo verso il cielo con i suoi grattacieli, ma sprofonda anche sotto terra perché sa di essere un bersaglio ambìto per Iran, Hezbollah, Siria e Hamas. Secondo un rapporto redatto dal Comando militare delle retrovie, in caso di un conflitto regionale “centinaia di missili” sarebbero lanciati sulla metropoli israeliana. Nemmeno nel 1991 Tel Aviv fu costretta a emergenze del genere. Meir Javedanfar, uno dei massimi esperti israeliani di affari iraniani, autore del libro “The Nuclear Sphinx of Tehran”, dice al Foglio che “nel futuro immediato non ci sono molte possibilità che Israele attacchi l’Iran senza il sostegno attivo dell’America. Obama non mi pare sia predisposto a questa opzione. Se le sanzioni e il sabotaggio non riusciranno a fermare il programma nucleare, le possibilità dell’attacco aumenteranno velocemente. Quando e se, nessuno lo sa. Sarebbe uno strike davvero complesso. L’Iran nuclearizzato vedrebbe una Repubblica islamica molto più aggressiva verso i vicini e più aperta nel sostegno a Hamas e Hezbollah. La richiesta di eliminare Israele si farebbe più forte. La paura dominerebbe Israele, gli investimenti e l’immigrazione verrebbero meno, i terroristi sarebbero più audaci, politicamente e militarmente. Nessuno vuole vivere sott’assedio nucleare. Immaginate di avere un vicino di casa che ogni giorno vi minaccia di morte”. Il Jaffa Center ha pubblicato un booklet dal titolo “Iran’s Ambitions for Regional Hegemony”. Vi si spiega come Teheran potrebbe mutuare da Israele la politica di opacità sull’atomica. Negare di aver creato la bomba. Uno degli autori del dossier, Reuven Pedatzur, docente all’Università di Tel Aviv, specializzato in balistica, è tra i più pessimisti sull’efficacia dell’attacco preventivo: “Israele non può distruggere il programma nucleare iraniano. C’è mancanza di intelligence completa su cosa l’Iran sta combinando realmente e in quali siti. C’è la questione critica dei bunker, non è possibile distruggere sotto terra la centrale di Natanz. E poi non abbiamo abbastanza aeroplani per compiere un vero strike. L’Iran, se attaccato, userà Hezbollah contro Tel Aviv. E stavolta sarà un disastro, moltissimi morti e feriti. Abbiamo un problema enorme, l’Iran sta costruendo la bomba atomica e ci sono tre stati, Siria, Libano e Gaza, da cui si possono lanciare armi letali su Israele. Non abbiamo alcuna capacità di rendere immune il paese: se ci saranno attacchi, Israele dovrà entrare nuovamente in Libano e a Gaza e conquistare i territori. Se Hamas colpisse un asilo e uccidesse dieci bambini, Israele dovrebbe rioccupare Gaza. Intanto chi oggi costruisce una casa in Israele deve farsi anche un rifugio”. A Gerusalemme il 2011 dovrebbe essere l’anno dell’apertura del più grande bunker nucleare di tutto il paese. Ottanta metri sotto terra per accogliere cinquemila persone. La città santa sarà collegata a Tel Aviv anche da un tunnel di sessanta chilometri. Che Israele tema per Tel Aviv, cuore economico e finanziario dello stato, ce lo dice anche il fatto che, per far fronte a un eventuale attacco dell’Iran o a una sua rappresaglia nucleare o biochimica, Gerusalemme e Washington stanno lavorando a un nuovo scudo antimissile. Si chiamerà “Arrow III”, basato sull’evoluzione del precedente sistema e in grado di intercettare e abbattere missili balistici ad altissima quota, al rientro in atmosfera. Israele è impegnato da anni in una drammatica corsa contro il tempo che lo vede elevare fino al cielo un “Progetto Muraglia” (“Homa” in ebraico) nato dopo la guerra del Golfo, in seguito alla deludente prestazione di fronte agli Scud iracheni dei Patriot statunitensi. Il lavoro dei missili Arrow si basa sulle informazioni ricevute in tempo reale dal sistema di radar “Pino Verde”. Ma alcuni esperti israeliani criticano questo meccanismo di difesa, ritenendolo passivo. E’ necessario intercettare i missili già in territorio nemico. A inizio gennaio è arrivato l’annuncio che a Tel Aviv verrà dislocata una nuovissima batteria di missili Arrow. Si aggiungerà alle due batterie già presenti nel sud contro Hamas e nel nord ad Hadera, contro Hezbollah. Resta sguarnito il ventre del paese. Si sa anche che da un anno i riservisti che si occupano del sistema balistico hanno iniziato a trascorrere un giorno alla settimana in esercitazioni pre conflitto. Il sito online del municipio di Tel Aviv ha diffuso, strada per strada, le possibilità di difesa per gli abitanti. Ad Haifa, la terza città più grande d’Israele, è in corso la realizzazione del più grande ospedale al mondo sotto terra. E anche il Teatro Habima di Tel Aviv sarà dotato di quattro piani sotterranei con ingressi da ogni lato. Il capo di stato maggiore d’Israele, Gabi Ashkenazi, pochi giorni fa ha detto che nella prossima guerra “si dovranno evacuare i civili”. Fra le misure di difesa, Israele ha messo a punto un sistema prodotto dalla Ericsson che invierà a tutti i cellulari l’allarme “in tempo utile”. Dove per utilità s’intende il minuto necessario (e sufficiente?) per raggiungere i rifugi antiatomici. Il nuovo sistema d’allarme, situato in un bunker del Negev, calcola con esattezza la traiettoria d’un missile e ne prevede l’impatto. Un sms arriverà in contemporanea a stazioni radio e tv, siti web, tabelloni luminosi, sirene e altoparlanti stradali. “E’ un sistema di difesa preventiva e collettiva unico al mondo”, spiegano i militari. Sono in corso di installazione filtri speciali in grado di tutelare la popolazione anche “per lunghi periodi di tempo”. Perché come spiega il viceministro della Difesa, Matan Vilnai, “i rifugi antimissili sono una cosa da Londra di settant’anni fa. Lì ci passavi mezz’ora fino a che il pericolo era passato. Oggi le persone devono poterci trascorrere anche un mese”. Prosegue, a rilento, la distribuzione delle maschere antigas. Fecero la loro comparsa nel 1991 e l’allora viceministro degli Esteri israeliano Netanyahu compariva sulla Cnn con una maschera. L’esercito sta mettendo a punto sirene per i missili che possono portare armi chimiche. Si è parlato di un gigantesco aerostato, grande come un campo di calcio, che da una posizione fissa potrà fotografare oggetti distanti mille chilometri. Si teme che la conferma di una bomba atomica nelle mani degli ayatollah possa scatenare la “grande fuga”. Sono i risultati di una rilevazione condotta per conto del Centro studi iraniani dell’Università di Tel Aviv, secondo cui un buon 30 per cento d’israeliani è disposto a prendere in considerazione l’abbandono del proprio paese laddove Teheran riuscisse a dotarsi di armi non convenzionali. Cosa che per l’81 per cento degli intervistati è senza dubbio destinata ad accadere, malgrado gli sforzi diplomatici dell’Amministrazione Obama. “La minaccia di un attacco nucleare su Tel Aviv diverrebbe parte integrante della realtà israeliana”, ha scritto sul Wall Street Journal l’analista Yossi Klein Halevi. E nel caso di guerra Israele dovrà fare una scelta tragica. L’Home Front Command per bocca del colonnello Zussman ha rivelato che la prima preoccupazione non saranno i caffè o i ristoranti di Tel Aviv, ma le infrastrutture economiche e industriali: “Mi interessa meno un contraccolpo ai cinema e più il malfunzionamento delle banche e dell’economia”.Zussman ha consigliato la popolazione di “dotarsi di kit protettivi in caso di attacco nucleare, biologico e chimico e a preparare una zona protetta nelle case”. Da due anni si rincorrono esercitazioni. Gli studenti sono entrati in silenzio nei rifugi, hanno simulato lo sgombero dei feriti e reazioni a vari tipi di attacco. Gli ospedali e le strutture d’emergenza sono pronti, seguitano a compiere esercitazioni per un gran numero di feriti. Le municipalità hanno protocolli di evacuazione, specie nella zona costiera che nel 1991 fu colpita dai missili. Haaretz ha pubblicato due agghiaccianti scenari basati sul presupposto che in un futuro ormai prossimo Teheran riesca a dotarsi di armi nucleari e immediatamente le punti in direzione di Israele. Nello “scenario A”, Israele viene raggiunto da ordigni nucleari. Poi c’è lo scenario “realistico”, cioè un Iran con una deterrenza ma saggio nell’uso. Visto che è di dodici minuti il tempo necessario a un razzo iraniano per raggiungere Israele, ogni decisione di un primo ministro israeliano dopo un eventuale attacco iraniano deve maturare in un pugno di minuti. Nello scenario A, il primo ministro israeliano segue il dramma per telefono. Il primo aggiornamento non è terribile: c’è un razzo in volo verso Israele. Pochi istanti dopo, la doccia fredda: sui radar sono apparsi dodici razzi. Entrano in azione gli Arrow, i razzi anti missile. Il primo Shihab iraniano viene intercettato. Anche il secondo, e il terzo. Gerusalemme comincia a sperare che la crisi sia superata, poi apprende: cinque razzi sono passati. Per un paese delle dimensioni e della conformazione di Israele (una striscia di terra oblunga di circa ventunomila chilometri quadrati), quattro o cinque lanci nucleari sarebbero sufficienti. E addio Israele. Un milione o più di israeliani, nelle maggiori aree di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, perirebbero sul colpo. Milioni i gravemente irradiati. Resta un minuto per decidere se ordinare una devastante reazione israeliana che incenerirebbe le principali città iraniane. Secondo la rivista militare Jane’s, se attaccato Israele reagirebbe spianando Teheran, Isfahan, Tabriz, Mashhad, Bandar Abbas e la città santa Qom. Una cartolina dell’Home Front Command, recapitata ai cittadini israeliani, divide il paese in sei regioni, dal Negev al Golan. Ogni regione ha diversi tempi di reazione a un eventuale attacco. Se vivi lungo la Striscia di Gaza, hai quindici secondi. A Gerusalemme si sale a tre minuti (nel 1991 erano appena novanta i secondi per ripararsi dai razzi saddamiti). Ma se vivi a ridosso dei Libano o della Siria, il colore rosso significa che, a meno che non ti trovi già in un bunker, se suona la sirena tanto vale aspettare il razzo sul posto. Dal 2006 Israele ha speso una fortuna nella difesa. Come per il satellite spia Eros B, o le bombe 500 US Blu-109, in teoria in grado di penetrare i bunker iraniani. I jet israeliani hanno già dato prova di colpire lontano, come quando a Tunisi bombardarono il quartier generale dell’Olp in risposta all’uccisione di tre turisti israeliani a Cipro. Dal Negev si possono alzare in volo i caccia “Ra’am”, che in ebraico significa tuono, e i “Sufa”, o tempesta. Possono arrivare fino a 2.200 chilometri. I missili Gerico 2 possono colpire fino a 1.500 chilometri e portare ordigni di una tonnellata. Tengono a tiro tutte le capitali islamiche. L’Iran può rispondere con i missili Shihab 3 e i BM-25 acquistati dalla Corea del nord. Centinaia di famiglie israeliane sono già corse ai ripari. Facendo costruire sotto casa bunker con un sistema d’aria che dà indipendenza per sei mesi. In caso di attacco atomico.Anche la Knesset, il Parlamento israeliano, sta facendo costruire un mega bunker da cui la leadership guiderebbe il paese in caso di attacco. Sono trascorsi vent’anni da quando caddero i primi missili su Tel Aviv, ma nelle case d’Israele si conserva ancora una guida per il buon uso della maschera antigas. Si intitola “Lohama Kimit”, 126 pagine e 200 fotografie di spiegazioni su come proteggersi in caso di lancio di bombe non convenzionali. Di solito la guida si conserva nell’angolo meno vivibile di ogni casa, dentro brutte scatole di cartone color kaki. Vi si spiega che questi gas sono inodori e incolori, possono seminare la morte in “centinaia di metri” (dipende dal vento e dalla temperatura, alta in Israele), colpiscono gli occhi, il naso, la bocca e la pelle. Si perde il controllo del sistema nervoso e i muscoli si contraggono. Sono trascorsi vent’anni, è cambiato il nemico, ma in caso di attacco il consiglio alla popolazione è lo stesso: “Bevete molta acqua”. “L’attacco preventivo è l’ultima risorsa e non è circondata da entusiasmo, ma se le sanzioni falliranno, lo strike sarà necessario”, ci dice l’ex generale e viceministro della Difesa, il laburista Ephraim Sneh, figlio di uno dei fondatori del Partito comunista israeliano e di sopravvissuti alla Shoah: “Speriamo che Israele non si trovi nell’angolo. Non mi interessano le analisi degli ‘esperti’, mi fido dell’esercito. La domanda non è se l’Iran userà i missili su Israele, le ipotesi non sono rilevanti. E’ il fatto che li abbia o meno che cambia la questione. Teheran è devota alla distruzione d’Israele, fine della discussione. Per adesso l’equilibrio strategico è in nostro favore, ma l’Iran potrebbe lanciare un attacco nucleare e i nostri F-15 non potrebbero prevenirlo. Se Teheran avrà l’atomica, Israele sarà povero, insicuro, i giovani se ne andranno all’estero. E’ la fine del sionismo. E’ la lezione della Shoah. Sessantacinque anni dopo Auschwitz, non si può consentire a un altro dittatore di cancellare Israele dalla mappa geografica”. dal FOGLIO 19/01/2011, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti


Israele, UBS acquista il 5% della Leumi Bank

Giovedì 20 Gennaio 2011 http://www.focusmo.it/
UBS, che oltre ad essere la più grande banca svizzera, la UBS è una delle più grandi del mondo, ha vinto una gara pubblica per l’acquisto del 5% delle azioni della banca statale israeliana Leumi. Le azioni sono state acquistate al prezzo di 1.3 miliardi di NIS (circa 370 milioni di dollari). Il ministro delle finanze israeliano Yuval Steinitz ha commentato l’acquisizione definendola un grande successo e un segnale della fiducia accordata all’economia e alla robustezza finanziaria del paese.Fino a mercoledì, la quota statale della banca era pari all’11%; ora è rimasto il 6,5 % in holdings. L’imprenditore Shlomo Eliahu detiene il 10% ed è il maggiore azionista. Delle tre principali banche israeliane, Leumi, Discount e Hapoalim, la Leumi è stata l’ultima ad essere privatizzata. E tuttavia la privatizzazione non implica un rapporto diverso con i clienti.


Tel Aviv

Banca d'Israele: guerra aperta agli speculatori

Giovedì 20 Gennaio 2011 http://www.focusmo.it/
La Banca d'Israele si accanisce contro gli speculatori di valuta estera. L'Istituto ha pubblicato un progetto di direttiva in base al quale le operazioni in valuta per un importo di oltre 10 milioni di dollari al giorno, o quelle delle amministrazioni pubbliche superiori ai 10milioni di Nis al giorno, dovranno essere immediatamente comunicate.Stanley Fisher, governatore della Banca, si è sempre opposto con forza all'intervento del governo nei mercati, ma stavolta ha fatto notare che non si deve mai dire "mai".


Tel Aviv
Israele, arrivano due funzionari americani

Giovedì 20 Gennaio 2011 http://www.focusmo.it/
Sono arrivati in Israele Dennis Ross e David Hale, rispettivamente funzionario del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d’America e vice dell’inviato speciale in Medio Oriente. L’ufficio del Primo Ministro rende noto che i due saranno impegnati in incontri che verteranno su problemi di sicurezza regionale, per mantenere il relativo vantaggio di Isralele in eventuali prossimi trattati di pace. Fonti vicine al primo ministro Benjamin Netanyahu dicono che questi sia determinato a rinnovare i colloqui di pace con i palestinesi e che i suoi sforzi siano in questa direzione


Energie rinnovabili, ambiente e Ict, le opportunità in Israele

Roma, 21/01/2011 - "Nuovi orizzonti per il sistema produttivo del Lazio" è il tema sotto il quale il prossimo 27 gennaio, presso Sviluppo Lazio, si parlerà delle opportunità di internazionalizzazione nei settori ICT e ambiente, in Israele.In tema di energie rinnovabili, ambiente e Ict, l'Israele presenta un altissimo livello di innovazione e ricerca, con una solida attività di ricerca e sviluppo, condotta da istituzioni accademiche, incubatori tecnologici e società commerciali.Saranno presenti rappresentanti dell'Ambasciata di Israele in Italia che raccoglieranno anche eventuali manifestazioni di interesse per la partecipazione alla Eilat-Eilot Renewable Energy, 4th international conference & exhibition, in programma ad Eilat (Israele) dal 22 al 24 febbraio 2011.P. Tommaseo [ Primapagina.biz ]


Gaza City
Gaza: Israele pensa a stop forniture acqua ed elettricità

Israele intende "disimpegnarsi" dalla striscia di Gaza per quanto riguarda le forniture di acqua e di elettricità. Lo ha affermato oggi il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, durante un incontro con la ministra degli esteri francese Michele Alliot-Marie."Durante il loro colloquio - ha annunciato l'ufficio del primo ministro in un comunicato, senza fornire altri dettagli - Netanyahu ha dichiarato che Israele intende provare a disimpegnarsi dalla striscia di Gaza per quanto riguarda le infrastrutture quali acqua ed elettricità".Il comunicato non ha precisato da dove la striscia di Gaza potrebbe ricevere energia elettrica se Israele interrompesse la fornitura.Israele ha ritirato truppe e coloni dalla striscia di Gaza nel 2005, ma lo Stato Ebraico fornisce sempre circa il 70% dell'elettricità che vi si consuma. Il restante 30% giunge dall'Egitto e da centrali elettriche locali.La ministra Alliot-Marie, giunta oggi in Israele, sarà domattina nella striscia di Gaza. 21.01.2011 http://www.ticinonews.ch/


LE OLIMPIADI FANNO DIALOGARE ISRAELIANI E PALESTINESI

Da "Il Corriere della Sera" di venerdì 21 gennaio 2011
Le delegazioni nella sede Cio di Losanna. Più libertà agli atleti negli spostamenti dalla Striscia di Gaza Le Olimpiadi fanno dialogare israeliani e palestinesi Lontano da immortali vetrine (le due Germanie riunite sotto la stessa bandiera - nero, giallo, rosso e i cinque cerchi olimpici - alla vigilia del Muro di Berlino nell`estate di Roma`6o che cambierà il mondo) e ricchi palcoscenici (lo storico abbraccio tra Coree durante la cerimonia d`inaugurazione di Sydney 2000), senza nemmeno un tavolo da ping pong (il io aprile ricorrono quarant`anni dalle partite dimostrative tra Usa e Cina che aprirono la strada alla visita del presidente Nixon a Pechino) o una palla ovale (Mondiale di rugby. 1995: Nelson Mandela, indossando una maglia degli Springboks, consegna il trofeo nelle mani del capitano del Sudafrica, l`afrikaner Francois Pineaar, segnando la riconciliazione tra bianchi e neri dopo decenni di apar- theid) nei paraggi, ancora una volta lo sport è riuscito a fare un gol alla diplomazia.E così ieri a Losanna, nella sede del Comitato olimpico internazionale, Israele e Palestina si sono sedute allo stesso tavolo e hanno stretto accordi in vista dell`Olimpiade di Londra 2012, permettendo a Jacques Rogge di sprecare l`aggettivo che qualsiasi presidente, almeno una volta nel suo mandato, sogna di pronunciare: «Storico!».II segretario generale del comitato olimpico israeliano, Efraim Zinger, e il leader dell`olimpismo palestinese, Jibril Rajoub hanno discusso cinque ore nell`intento di rafforzare i legami tra i due paesi e aiutarsi per creare squadre più forti in vista dei Giochi. Altro obiettivo dell`incontro è stato quello di dare maggiore libertà a sportivi e atleti negli spostamenti dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. Zinger e Rajoub torneranno a Losanna a marzo prima di presentare proposte ai governi israeliano e palestinese. «Crediamo-- ha detto Zinger- che tramite lo sport possiamo fare la differenza». Era stato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a promettere nel corso di una visita di Rogge in Medio Oriente lo scorso ottobre che si sarebbe impegnato ad ammorbidire le restrizioni di viaggio per i palestinesi. Nel 2008 soltanto quattro atleti palestinesi avevano partecipato all`Olimpiade di Pechino. Prossimo passo:farsi accettare dai Giochi del Mediterraneo (nel 2013 in Grecia).Gaia Piccardi Diplomazia del ping pong Nel 1971 e 1972 Stati Uniti e Cina si scambiarono la visita di giocatori di ping ponga un evento che favori la distensione tra i due Paesi


C'era una volta

C’era una volta Israele, un paese di pionieri che disprezzavano il lusso, ed erano pronti a sacrificarsi per il bene comune (non voglio dire “per la patria”). So benissimo che i tempi sono cambiati sebbene qualcuno rimanga legato agli antichi valori. Così Sonia Peres che ha preferito rimanere a casa e non abitare nel palazzo presidenziale col marito Shimon. Sonia era rimasta all’epoca del kibbutz e senza chiasso faceva del bene per coloro che avevano bisogno di un aiuto. La modestia è sempre stata la sua virtù ed era divenuta un simbolo che oggi purtroppo è sparito.All’estremo opposto è situato il generale Galant. La sua casetta in campagna, in un moshav, appare ieri sulla prima pagina del quotidiano Haaretz: è di dimensioni enormi, sembra una fortezza del tempo dei Crociati ed affonda nel verde di un parco privato che la circonda. Una nuova Versailles? Ignoro se Galant abbia ricevuto i terreni, i permessi di costruzione e scusate, i soldi in modo corretto col sudore della fronte. Non so se abbia sfruttato la sua posizione militare per una questione civile. Ma è certo che non ha il senso delle proporzioni, che se ne infischia dell’opinione pubblica e pensa solo al suo benessere privato. In altre parole non è adatto ad essere il prossimo Capo di Stato Maggiore.Sergio Minerbi, diplomatico http://www.moked.it/


Il Talmud, l'opera più importante della cultura ebraica

L’ebraismo si poggia su due grandi colonne: la Bibbia e il Talmud. La prima è diventata patrimonio dell’umanità intera, tradotta in centinaia di lingue e considerata sacra da centinaia di milioni di persone. Il Talmud, invece, è rimasto un testo esclusivo del popolo ebraico e le sue traduzioni integrali non sono più di due o tre. Per molti aspetti il Talmud è l’opera più importante della cultura ebraica, perché è quella che più la caratterizza. Si tratta di un testo religioso, giuridico, scientifico, filosofico, letterario, esegetico, omiletico ecc. che risale, nei suoi strati più antichi, a circa duemila anni fa. Il Talmud consiste nella raccolta di insegnamenti dei Maestri dell’ebraismo che copre un arco di sei secoli, fino al V secolo. Si suddivide in Mishnà e Ghemarà. La Mishnà (lett. “ripetizione”), si compone di sei Ordini e ciascuno ordine è diviso in trattati per un totale di 63. E’ anche chiamata Torah Orale perché fu trasmessa dapprima oralmente da Maestro ad allievo e poi messa per iscritto alla fine del secondo secolo da rabbi Yehudà Hanasì. Lo studio della Mishnà nelle Accademie (yeshivòt, pl. di yeshivà) della terra d’Israele e di Babilonia produsse la Ghemarà. L’insieme della Mishnà e della Ghemarà costituisce il Talmud (sia Ghemarà che Talmùd significano “studio”, il primo termine in aramaico, la lingua parlata dagli ebrei dell’epoca, il secondo in ebraico). Si hanno due redazioni del Talmud: il Talmud Babilonese (prodotto nelle yeshivot babilonesi), redatto nel V secolo, e il Talmud di Gerusalemme, redatto nella Terra d’Israele nel IV secolo. Uniti ammontano a quasi 30 volumi di dimensioni enciclopediche. Il Talmud Babilonese è quello più ampio e, per questo motivo e per essere posteriore, è considerato più autorevole. E’ anche quello maggiormente studiato nelle yeshivot contemporanee in tutto il mondo. Il Talmud è talmente vasto che non a caso viene chiamato il “mare del Talmud”. E’ difficile trovare un argomento, attuale o meno, che non sia in esso affrontato estesamente o almeno per allusioni. Ad esempio, ci sono riferimenti utili per le discussioni di bioetica dei giorni nostri. Trattando del problema della definizione dell’inizio della vita, nel Talmud si afferma che l’embrione fino a quaranta giorni dal concepimento è come se fosse “semplice acqua” e quindi non è una “persona”. Da qui deriva la decisione che, per quanto l’aborto sia vietato, non è considerato un omicidio. Il Talmud ha una complessa stratificazione. E’ intenzionalmente redatto in maniera sintetica, criptica, di difficile comprensione. E’ un testo che va studiato, non semplicemente letto. Lo studio va svolto con l’ausilio di un maestro e, tradizionalmente, di un compagno di studio (“chevruta”). La lingua è in parte l’ebraico (per i detti che risalgono all’epoca della Mishnà) ma la maggior parte del Talmud è in aramaico. Il testo, come tutti quelli post-biblici non-liturgici, non è vocalizzato, e ciò ne rende difficile la lettura e la comprensione. Non ci sono quasi segni d’interpunzione, per cui è difficile sapere dove inizia e finisce una frase o capire se una certa espressione va intesa in senso affermativo, interrogativo o esclamativo. Il Talmud non è un’opera unitaria ma è una raccolta di detti di molti Maestri diversi, esposti nel corso di varie generazioni, quasi sempre in contrasto l’uno con l’altro. Il Talmud, in effetti, è la registrazione delle discussioni fra gli studiosi, che cercano di arrivare alla comprensione del significato, l’origine e l’applicabilità degli insegnamenti della Bibbia, in particolare della Torah, e della Mishnà. Il modo con cui la discussione procede è quello delle domande e delle risposte, delle obiezioni e dei tentativi di risolvere le difficoltà, a volte riusciti a volte no. Spesso le domande non hanno una risposta conclusiva: ma le risposte sono meno importanti delle domande. Scrive Rav Adin Steinsaltz, uno dei massimi studiosi e divulgatori del Talmud dei nostri giorni: “Dopo che ha assimilato il testo talmudico, lo studente è tenuto a formulare – a se stesso o ad altri – domande sul materiale studiato, a sollevare dubbi, ad avanzare riserve: e questo è il metodo di studio. Da questo punto di vista il Talmùd è forse l’unico libro sacro in qualsiasi cultura al mondo che consente e perfino incoraggia domande e contestazioni da parte di quegli stessi che gli attribuiscono il carattere di santità” (Cos’è il Talmùd, Giuntina 2004, p. 22). Il Talmud fu spesso osteggiato dal mondo non ebraico in passato, con motivazioni pretestuose, al punto che fu messo al rogo più volte, come avvenne a Roma a Campo de’ Fiori nell’anno 1553 per decreto di Papa Giulio III. Migliaia furono i volumi di Talmud bruciati in tutta Italia. Gli ebrei italiani dell’epoca, però, si ingegnarono. Districarono dal Talmud gli argomenti legali da quelli di altro genere e stamparono due nuove opere con diversi nomi. Studiando l’una e l’altra, poterono ricostituire il Talmud quasi nella sua interezza. Tuttavia, un notevole danno culturale fu inferto agli ebrei italiani. Lo studio del Talmud divenne estremamente difficoltoso (oltre che pericoloso) e di conseguenza anche lo studio della Halakhà, la normativa legale ebraica che si basa principalmente sul Talmud, come anche lo studio della filosofia ebraica ebbe a risentirne. Secondo Rav Steinsaltz, i roghi del Talmud diedero l’avvio alla “decadenza della cultura ebraica italiana, da cui in effetti non si è più ripresa. E’ questo un emblematico caso storico che dimostra come un nucleo ebraico che non studia e non si occupa di Talmùd è destinato al declino spirituale” (ibid., pp. 115-116). Il “Progetto Talmud” che viene qui presentato consiste nella traduzione in lingua italiana del Talmud Babilonese, con commento e testo originale a fronte. La traduzione parte dal testo originale in lingua aramaica ed ebraica. È previsto un volume introduttivo sulla struttura, i contenuti e la lingua del Talmud. http://www.moked.it/


Emanuele Artom

Nato ad Aosta il 23 giugno 1915, morto sotto tortura nelle carceri di Torino il 7 aprile 1944, storico.
Nato in una famiglia d'intellettuali ebrei aperta agli ideali di libertà e giustizia, si era laureato in lettere all'Università di Milano, a pieni voti e con lode, con una tesi di argomento ebraico dal titolo Il tramonto degli Asmonei. Non poté tuttavia dedicarsi, come avrebbe voluto, all'insegnamento, prima per il fatto che non aveva aderito mai a organizzazioni fasciste, poi per l'adozione delle leggi razziali. Si dedicò così alle ricerche storiche, collaborando al Grande dizionario enciclopedico della UTET, traducendo per l'Einaudi Le storie di Polibio e Il secondo libro di Erodoto.Emanuele Artom che, nonostante le persecuzioni razziali e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, rifiutò sempre di riparare in Svizzera, nel maggio del 1943 si iscrisse al Partito d'Azione. Subito dopo l'armistizio, il giovane intellettuale si arruola (col nome di copertura di Eugenio Ansaldi) tra i partigiani, come delegato azionista in una formazione garibaldina di Barge comandata da Pompeo Colajanni. Diventa poi commissario politico delle bande "Italia Libera" in Val Pellice e in Val Germanasca.Quando, nel corso di un rastrellamento, Artom cade nelle mani dei fascisti, è trasferito nelle carceri di Luserna San Giovanni. Un fascista, al quale aveva salvato la vita, lo denuncia come ebreo e la sua condizione si fa ancora più drammatica. Le torture cui è sottoposto non bastano a strappargli informazioni sulla Resistenza, così il 31 marzo del 1944 Emanuele Artom è trasferito alle "Nuove" di Torino, nel "braccio" tedesco. Le sevizie che i suoi aguzzini gli infliggono, sono tali da causarne la morte. I fascisti provvedono a liberarsi del cadavere, che non è mai stato ritrovato e che forse è stato sepolto sulla riva del torrente Sangone. Una Brigata partigiana operante nel Comasco, quando si seppe della morte di Emanuele Artom, ne assunse il nome.Nel dopoguerra, il Municipio di Torino gli ha dedicato una piazza; la comunità israelitica torinese gli ha intitolato una scuola media ebraica; l'Università di Torino lo ricorda con una lapide, collocata nella biblioteca della Facoltà di Lettere. Una parte del diario di vita partigiana di Emanuele Artom è stata pubblicata, nel 1954, col titolo Artom - Tre vite. Più completo, nel 1966, col titolo Emanuele Artom - Diari, il volume del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. http://www.anpi.it/


Giaffa e Tel Aviv

“Quando in Italia venne l’antisemitismo, io credetti che avrebbe rafforzato il sentimento ebraico, almeno per i giovani, ma non fu così. L’unica forma ebraica che avesse presa fu il sionismo, preparato dagli altri nazionalismi, ma la guerra lo rese praticamente impossibile e in teoria dimostrò che la formazione di un piccolo stato non sarebbe servita a difenderci. D’altra parte i più fervidi giovani, quelli che potevano far propaganda e diffondere le loro idee, partirono nell’intervallo tra la legislazione antisemita e la guerra, lasciando i più freddi e i più indifferenti. Questo in Italia; fuori, persecuzioni e assimilazioni. Non so se l’ebraismo uscirà da questa crisi e come ne uscirà”. Dal diario di Emanuele Artom, 1 marzo 1942.SoniaBrunetti Luzzati, pedagogista http://www.moked.it/


I milanesi e la Shoah: il film sul Binario 21

Di: Miriam Bendayan 20/01/2011, http://www.mosaico-cem.it/
La Stazione Centrale di Milano è un crocevia dove ogni giorno una quantità immensa di persone parte, arriva, vive. C’è chi ha fretta di iniziare il proprio viaggio, chi aspetta nei bar, chi si distrae nelle decine di negozi che vi si trovano. Pochi però sanno, o ricordano, che 68 anni fa un luogo così ricco di vita fu per migliaia di Ebrei l’inizio di un terribile viaggio verso la morte.Perché tutto questo non sia dimenticato, ritorna oggi Fratelli D’Italia?, docu-fiction e lungometraggio che, in occasione del Giorno della Memoria, verrà proiettato a Milano nella nuova versione sottotitolata in inglese. Gli appuntamenti sono due: il 23 gennaio alle 20:30 al Teatro Litta e il 26 gennaio, alle 18:30 alla libreria Feltrinelli della Stazione Centrale (info qui: http://fratelliditalia.binario21.org/index.php).Il film esce nelle sale mentre infuria la polemica sulla mancanza di fondi per realizzare il Memoriale della Shoah a Milano (mancano sei milioni di euro), previsto proprio al Binario 21 in Stazione Centrale. A questo proposito, più che encomiabile lo sforzo di cinque scuole milanesi di tassarsi e contribuire così alla sua realizzazione, in risposta alla sottoscrizione lanciata dalla Provincia di Milano.Il film (produzione Moving Image e regia di Dario Barezzi), racconta la tragedia che ebbe come sfondo Milano durante la Seconda Guerra: da San Vittore e da altre carceri dove erano stati detenuti in precedenza, migliaia di ebrei, caricati a forza su un treno merci, partirono dal binario sotterraneo della Stazione Centrale (il tristemente celebre “Binario 21”), per arrivare dopo sette giorni ad Auschwitz Birkenau, da dove la quasi totalità non fece mai più ritorno.Nella docu-fiction, tutto inizia da Daniele, nipote di un sopravvissuto alla Shoah, che, vedendo su Internet i numerosi siti negazionisti e revisionisti, decide di reagire. Convoca così un gruppo di amici. L’appuntamento è proprio in Stazione, al Binario 21, luogo dal quale, per 15 volte, tra il 1943 e il 1945, partirono per ignota destinazione convogli ferroviari carichi di italiani ebrei, vecchi, bambini, uomini e donne. I passanti e i viaggiatori della stazione, tutte le persone che si muovono intorno a loro tuttavia non conoscono, non ricordano e in pratica non sanno nulla della storia di deportazione che la Centrale custodisce come un cuore avvelenato… Ci sono le parole e i volti dei deportati, e i ricordi di chi è rimasto ma vide partire chi non fece più ritorno. Rivive così l’esperienza di quel trauma e scorrono i fotogrammi di un’opera corale intensa e commovente.Tra presente e passato, narrazione e realtà storica lo spettatore diventa anch’esso un testimone di quella tragedia collettiva. Un film educativo e importante, perché il filo che lega le generazioni non venga interrotto.


“Vento di primavera”

Di: Miriam Bendayan 19/01/2011, http://www.mosaico-cem.it/
Parigi, 1942: Joseph è un ragazzino ebreo di 11 anni che vive in una città sconvolta dall’occupazione nazista finché, il 16 luglio, la sua vita cambia per sempre. Parte da qui Vento di primavera (La Rafle – Francia 2010), film di Rose Bosch che verrà presentato in anteprima dalla fondazione CDEC lunedì 24 gennaio al Cinema Anteo di Milano, via Milazzo 9 (per gli inviti contattare video@cdec.it).L’introduzione sarà affidata alla storica Liliana Picciotto e i ricavati della serata andranno infatti per metà al CDEC e per metà al villaggio di Yemin Ordé in Israele, dove in seguito al drammatico incendio di Haifa, centinaia di bambini hanno perso tutto ciò che avevano e si trovano oggi in situazioni drammatiche.La Rafle è la tristemente celebre retata che portò al rastrellamento di 13.000 ebrei parigini al Vélodrome d’Hiver e alla loro successiva deportazione. Tutto è dettagliatamente ricostruito in questo film e la regista ha impiegato ben tre anni per documentarsi e scovare la quasi totalità degli scritti e delle testimonianze. Una ricostruzione storica assolutamente unica, uno scrupolo documentario come raramente si è visto. Tutti i personaggi sono infatti esistiti e ogni evento, anche il più estremo, avvenne realmente in quella tragica estate del 1942.La vicenda si dipana attraverso gli occhi dei protagonisti, Jo Weismann (Hugo Leverdez), l’undicenne che sarà uno dei pochissimi sopravvissuti dopo la guerra, e il piccolo “Nono” (Mathieu e Romain Di Concetto), strappato crudelmente alla sua famiglia: le loro storie si scontrano drammaticamente con la ferocia dei loro persecutori ma anche con il coraggio di chi non esitò a mettere a rischio la propria vita per stare vicino alle migliaia di innocenti che venivano portati via. Stiamo parlando di Mélanie Laurent, che dà vita sullo schermo al personaggio pieno di empatia e slancio dell’infermiera Annette Monod e al famoso attore Jean Reno, che qui ritroviamo nelle vesti del generoso dottor Sheinbaum.Vento di primavera è un film che per la tragicità delle storie narrate ha fortemente coinvolto tutti gli interpreti e non potrà lasciare indifferente nessuno spettatore. Un’opera che mostra, una volta per tutte, quello che realmente la Repubblica di Vichy ha fatto agli ebrei ma che, al tempo stesso rende omaggio anche alla speranza: il mattino della retata su 25.000 ebrei, furono ben 12.000 quelli che non vennero mai trovati. Una cifra che racconta la solidarietà di chi guardava ma non stava alla finestra. In una nazione occupata palmo a palmo, strada dopo strada, ciò significò che ad accogliere quei 12 mila ebrei furono, coraggiosamente, i loro stessi vicini di casa, anch’essi francesi, ovviamente

venerdì 21 gennaio 2011




L’ultimo saluto a Sonia, la moglie del presidente Peres

«Il nostro è stato un amore a prima vista. Averla incontrata è stata la maggior fortuna della mia vita. Il nostro amore resterà fino al giorno in cui chiuderò gli occhi». È un capo dello Stato commosso e molto triste Simon Peres. E di fronte alla bara della moglie Sonia, morta giovedì 20 gennaio, all’età di 87 anni, hanno potuto consolarla poco o per niente le tante dimostrazioni d’affetto nei confronti dell’uomo più amato d’Israele.La cerimonia funebre – molto semplice, proprio com’è nello stile dei Peres – si è tenuta venerdì mattina nel villaggio agricolo di Ben Shemen. La location l’ha scelta la stessa Sonia. È qui, tra Tel Aviv e Gerusalemme, più di sessant’anni fa la donna aveva incontrato per la prima volta Simon Peres.«Quel giorno – ha detto Peres – vidi di fronte a me un’adolescente che curava il giardino. Era scalza, aveva una grande treccia e pantaloncini corti. Mi colpì il suo volto, dalle linee scavate, come quelle di una statua greca». Nell’elogio funebre Peres ha sottolineato il grande carattere della moglie e la determinazione ad aiutare in segreto quanti, nella società israeliana, avevano maggiori necessità. «Non amava i beni materiali. Erano gli ideali i suoi beni».Quando tre anni fa Peres venne eletto capo di Stato, Sonia preferì non seguirlo nella residenza ufficiale e restò nel modesto appartamento familiare a Tel Aviv. La notizia del decesso della moglie è stata comunicata a Pere mentre era impegnato a Gerusalemme in un incontro con il ministro francese degli esteri Michel Alliot-Marie. La sua reazione, stando a quello che scrivono i quotidiani israeliani, è stata molto sofferta.A confortare il presidente d’Israele alla cerimonia funebre, oltre a un’intera nazione, c’erano le più alte personalità politiche dello Stato ebraico: il premier Benyamin Netanyahu, i ministri Ehud Barak (Difesa) e Avigdor Lieberman (Esteri) e Tzipi Livni, la leader di “Kadima”, il più grande partito d’opposizione (e anche quello più votato alle elezioni del 2009). http://falafelcafe.wordpress.com/


Tel Aviv - casa Ben Gurion
La pace perquisita

All’ Ambasciata d'ItaliaAl Ministero degli Affari EsteriAll’attenzione del Minsitro per gli Affari Esteri, dr. F. FrattiniAll’Ambasciata di Giordania in ItaliaTo the Jordan Embassy Oggetto: Perquisizione invasiva al Confine Israelo-Giordano Nahar Jarden – Sheik Hussein
Buongiorno,Mi chiamo Paolo (Shaul) Pozzi, titolare di passaporto Italiano ed Israeliano, Direttore della filale di una ditta multinazionale in Israele.Il giorno 19 Gennaio 2011 ho attraversato il confine Israelo-Giordano a Nahar Jarden – Sheik Hussein, munito di entrambi i passaporti (visti d’uscita allegati) e con lettera d’invito personale scritta dal mio collega Giordano risiedente in Amman,Scopo della visita in Giordania era una riunione di lavoro ad Amman, organizzata dalla ditta stessa, della durata di tre giorni (dal 19 al 21 gennaio).Ho regolarmente pagato il visto d’ingresso (20 JD) ed ho ottenuto il visto d’ingresso sul passaporto Israeliano. Successivamente al controllo passaporti sono stato accompagnato al controllo doganale. La perquisizione del poco bagaglio personale si e’ immediatamente concentrata su breviario di preghiere ebraico, scialle di preghiera e filatteri: il tutto e’ stato immediatamente sequestrato da un poliziotto, insieme al passaporto, mentre in Inglese mi e’ stato sbrigativanente detto che “e’ proibito portarli in Giordania”.La rapidita’ e la sicurezza nell’identificazione degli oggetti non lasciano alcun dubbio in merito alle finalita’ stesse della perquisizione !Sono stato riaccompagnato ad un ufficio di polizia adiacente al controllo passaporti, ed un altro poliziotto mi ha ribadito la proibizione a portare in Giordania libri ed oggetti di culto ebraico.Alla mia osservazione che era per uso strettamente personale e ne avrei avuto bisogno, come Ebreo, per pregare durante la mia permanenza, mi e’ stato risposto: “lo so; e’ comunque proibito portarli in Giordania. E’ per la tua sicurezza”Il tono non ammetteva repliche, ne’ il poliziotto, su mia richiesta, ha acconsentito a parlarere, perlomeno, con il mio collega Giordano.La sbrigativa scelta era lasciare tutto li’alla stazione di polizia o di uscire dalla Giordania.Ho scelto di uscire dalla Giordania; il visto e’ stato annullato, la tassa non rimborsata, e sono immediatamente ritornato al posto di confine IsraelianoViaggio regolarmente all’estero per lavoro e non ho mai avuto alcun “prolema di sicurezza” legato al mio essere Ebreo, oltre che cittadino Italiano (o Israeliano), ed alla mia privata pratica dell’Ebraismo.Il mio collega Giordano visita regolarmente Israele, su mia specifica lettera d’invito, e durante le sue visite, se lo richiede, viene accompagnato a Gerusalemme ad Al Aksa a pregare. Nessuno in Israele si e’ mai minimamente permesso di avanzare problemi di “sicurezza” per la sua privata pratica religiosa, una volta ottenuto un regolare visto d’ingresso.INOLTRO CON LA PRESENTE UNA FORMALE PROTESTA CONTRO IL TRATTAMENTO SUBITO DALLE AUTORITA’ DEL REGNO DI GIORDIANIA, TRATTAMENTO CHE NON PUO’ DEFINIRSI ALTRO CHE INTOL LERANTE E APERTAMENTE ANTISEMITA !Ritengo il trattamento subito oltraggioso, vergognoso e, non da ultimo, disonorevole da parte del Regno di Giordania..Mi rivolgo all’Ambasciata d’Italia in Israele, a tutela dei cittadini Italo-Israeliani di religione Ebraica, ed al Ministero degli Affari Esteri d’Italia, affinche siano ufficialmente a conoscenza della potenziale situazione di discriminazione cui sono soggetti i cittadini, anche Italiani, di religione Ebraica qualora visitino, per turismo o lavoro, il Regno di Giordania.Distinti salutiDr. Paolo Pozzi www.kolot.it - www.facebook.com/kolot.voci


Israele, la protesta del deodorante contro il governo

E' successo alla Knesset, il Parlamento israeliano, dove una manciata di deputati dell'opposizione hanno simbolicamente spruzzato dello spray contro quelle che hanno definito le manovre "puzzolenti" del premier. Che, presente in aula, non ha fatto una piega e l'ha presa con un sorriso. VIDEO: http://mmedia.kataweb.it/video/27907803/israele-la-protesta-del-deodorante-contro-la-puzza-del-governo


Israele, al via i tour by night nella Città di David

Hanno preso il via lo scorso 6 gennaio i tour notturni nella Città di David a Gerusalemme. Ogni giovedì sera i visitatori che prendono parte al tour potranno godere della vista dei più bei siti storici della città. Dolci melodie al suono d'arpa accompagnano i visitatori mentre si recano nel Giardino del Re. Il tour inizia al calar della sera, partendo dalla postazione Hatzofeh nella Città di David che offre ai visitatori una vista mozzafiato che abbraccia l'intera Gerusalemme. Sempre da quella postazione, i visitatori avranno modo di notare la collocazione della Città Biblica di David rispetto alle mura della città vecchia di Gerusalemme. Durante il tour guidato, verrà proiettato un filmato 3D che illustra millenni di storia dedicati a Gerusalemme, accompagnato da display illuminati che rappresentano le nuove scoperte archeologiche risalenti al periodo biblico. Il tour prosegue verso il Quartiere Regale dove si svolgerà lo spettacolo ‘Luci e Suoni', dedicato alla storia della città. I visitatori hanno la possibilità di scegliere fra 2 opzioni: un tour guidato alle 21 della durata di 75 minuti il cui costo è di 35 NIS per adulti e 25 NIS per bambini; oppure un normale biglietto d'ingresso al sito con partecipazione alla proiezione del filmato 3D e allo spettacolo ‘Luci e Suoni' che costa 25 NIS per adulti e 13 NIS per bambini. La Città di David sarà aperta ogni giovedì fino alle 22 senza interruzione. L'ultimo ingresso è alle 21.30. http://www.travelnostop.com/


Pierluigi Battista, Lettera a un amico antisionista, Rizzoli. Sergio Romano, il destinatario della lettera

Sono trascorsi un paio di decenni da quando, in piena Guerra del Golfo, giurai a me stesso che non avrei più discusso su Israele con chiunque non la pensasse esattamente come me. Tale ottusa risoluzione era il prodotto dell’ennesimo scontro con l’amico con cui da sempre discutevo sulla questione israelo-palestinese. Mi era sembrato che stavolta, in quanto a capziosità, avesse superato il confine imposto dalla decenza dialettica. Da giorni il territorio israeliano era sottoposto alla pioggia di Scud iracheni, e Israele, contrariamente al solito, tergiversava. Il mio amico sosteneva che la mancata reazione israeliana fosse dettata dal solito opportunismo sionista (perché intervenire se c’erano gli alleati di sempre a fare il lavoro sporco?). E che comunque gli israeliani con la loro inerzia non stessero facendo altro che riconoscere le proprie responsabilità morali nella lunga guerra di cui il conflitto in atto non era che l’epilogo tragico. Ero esterrefatto. Responsabilità morali? Che c’entrava Israele con l’invasione del Kuwait da parte delle truppe di Saddam Hussein? Possibile che l’intervento in Iraq di una forza militare internazionale potesse essere addebitato a Israele? La rabbia mi stava giocando un brutto scherzo. Mentre il mio amico continuava ad argomentare con la solita distesa impudenza, io balbettavo. Allora presi il mio impegno: non mi sarei mai più esposto a una simile mortificazione. D’ora in poi, cascasse il mondo, avrei vissuto nell’ombra, mostrando un’equanimità putrida e nient’affatto corrispondente ai miei sentimenti e (cosa ancor più grave) alle mie idee. D’ora in poi avrei opposto ai detrattori di Israele un sorrisino di circostanza. Il tutto sarebbe stato reso più arduo dal fatto che mi stavo avviando a una carriera intellettuale, e che i miei colleghi e compagni di avventura sarebbero stati accademici, scrittori e giornalisti, categoria storicamente sospettosa nei confronti di Israele. Ho tenuto fede al mio giuramento? Direi di sì. Ma con quanta fatica, e a costo di quale sacrificio della mia dignità. Forse questo spiega perché abbia letto il libro di Pierluigi Battista Lettera a un amico antisionista (Rizzoli) con il gusto che si avverte nel ricevere un insperato e tardivo risarcimento. Ho trovato enumerati, con puntiglioso talento argomentativo, tutti gli interrogativi che da anni avrei voluto rivolgere a un sacco di miei amici, cosa che mi sono ben guardato dal fare. La lettera di Battista, per esplicita ammissione dell’autore, è una risposta alla missiva che, qualche anno fa, l’ambasciatore Sergio Romano scrisse a un «amico ebreo» . E che suscitò tanta indignazione, soprattutto in ambito ebraico. Ricordo che pure nel soggiorno di casa mia ci divedemmo tra falchi e colombe. Guarda caso è proprio da lì che muove l’argomentazione di Battista. È onesto liquidare come antisemita chi ostenta nei confronti di Israele e dei suoi fiancheggiatori una peculiare sospetta o ossessiva severità? La risposta di Battista è molto interessante: l’accusa di antisemitismo è imprecisa. Battista ne è talmente convinto da confutare Martin Luther King che in una lettera indirizzata a James Earl Ray scriveva: «Tu dichiari, amico mio, di non odiare gli ebrei, di essere semplicemente “antisionista”. E io dico: quando qualcuno attacca il sionismo intende gli ebrei, questa è la verità di Dio» . Battista, evidentemente non a suo agio con «la verità di Dio» e tanto meno con il commovente tono oracolare di quel martire dei diritti civili, rifiuta il sillogismo. Sforzandosi, per esempio, di spiegare le ragioni di Sergio Romano. Dando forma plastica e autorevolezza ideologica alle diffidenze di quest’ultimo. Certo, Battista le considera sbagliate, ma evita di tacciarle di antisemitismo. In fondo Battista sta scrivendo a un «amico antisionista» . Se costui fosse antisemita non sarebbe un suo amico, tanto meno il possibile destinatario di una lettera. Detto questo però, Battista riconosce l’esistenza di un’odiosa ambiguità. «È però vero, che seppure gli antisionisti non sono tutti antisemiti senza sfumature, non c’è purtroppo antisionista che non sia prigioniero di un’ossessione che con l’antisemitismo, fatalmente, ha molte parentele. Di una malattia culturale il cui sintomo principale a me pare si possa definire come il “morbo della dismisura”. Dismisura nei giudizi, nei pregiudizi, nel lessico, nei furori inconsulti e incontrollati. Dismisura nell’acredine contro un popolo, quello israeliano, che numericamente costituisce una piccola quantità nel gran mare del mondo arabo. Dismisura, se soltanto si considera l’angustia geografica di un pezzo di terra contesa che copre una percentuale piccolissima dell’area mediorientale» . Il dato interessante di questo appassionante pamphlet è che Battista non si perde a stabilire ragioni e torti dei contendenti di quel conflitto infinito. Né, mi pare, gli interessi granché esercitarsi in un’inutilmente faziosa apologia sionista. Ciò di cui Battista vuole dare conto è di un atteggiamento mentale, o per meglio dire un sentimento— così prossimo al risentimento— di coloro che da anni professano nei confronti di Israele una diffidenza che dire “préalable”è poco. C’è qualcosa che non va in costoro. Un eccesso di zelo. Una forma di esibizionismo. Un disarmante strabismo. Un’ardente smania di boicottare, rifiutare, giudicare, aborrire. L’antisionista di Battista è un liberal, pieno di sacro fuoco e di sensi di colpa, animato da un molto ebraico «odio del sé» , convinto assertore della responsabilità occidentale nei dissesti del mondo. E che, in nome di tutto questo, identifica in Israele uno scandalo geografico e politico. «L’antisionismo» scrive Battista «è un unicum nella storia pur parecchio variegata delle ideologie antimperialiste, anticolonialiste, indipendentiste, nazionaliste e così via, perché implica la distruzione, tabula rasa, del soggetto “coloniale”o “imperiale”da cui liberarsi» . Qualche anno fa, dalla medesima tribuna, più o meno in questo periodo dell’anno, mi dichiarai ostile al Giorno della Memoria, ravvisando una relazione perturbante tra i commossi retori della Memoria e i grandi esecratori di Israele. Battista, nel suo viaggio nel cuore dell’antisionista doc, nota un’aporia analoga: «Mentre si asciugano le lacrime dopo aver visto Schindler’s list, non sembrano molto scossi quando Ahmadinejad convoca a Teheran l’internazionale negazionista per denunciare la “menzogna di Auschwitz”» . Una contraddizione che una volta un mio amico israeliano liquidò senza fare una piega con queste parole: «Perché ti stupisci? Da sempre un ebreo morto è molto più commovente di un ebreo vivo» .


..............E pensare che Yehoshua, nella realtà, non ha perso un figlio in guerra. David Grossman invece sì. Ed è proprio questo che rende ancora più commuovente, e spiazzante, la sua testimonianza al funerale del figlio Uri. In cui ricorda la sensibilità e l’umanità del figlio, eppure… Giustifica l’odio dei palestinesi nei suoi confronti:
Eri il sinistroide del tuo battaglione, ma eri rispettato, perché mantenevi le tue posizioni senza rinunciare ai tuoi doveri militari. Ricordo che mi hai raccontato della tua politica dei posti di blocco, perché anche tu sei stato non poco ai posti di blocco,” racconta Grossman di suo figlio. “Dicevi che se c’era un bambino nell’auto che avevi fermato, innanzi tutto cercavi di tranquillizzarlo e di farlo ridere. E ricordavi a te stesso che quel bambino aveva più o meno l’età di [tua sorella] Ruti e quanta paura aveva di te e quanto ti odiava, e a ragione. Eppure facevi di tutto per rendergli più facili quei momenti tremendi, compiendo al tempo stesso il tuo dovere, senza compromessi”.................http://blog.panorama.it/, Anna Momigliano, 19 gennaio


Tel Aviv

Quale luce in fondo al tunnel (arabo-islamico)?

Di Salman Masalha http://www.israele.net/
Tranquilli. Ciò che è accaduto in Tunisia non è destinato a ripetersi tanto presto in altri stati arabi. Il rovesciamento di un dittatore ad opera di una rivolta popolare porta effettivamente una ventata di aria fresca, e forse persino un raggio di speranza a tanti, in questa parte del mondo. Ma c’è ancora molta strada da fare prima che si possa celebrare l’avvento della democrazia.Innanzitutto bisogna aspettare di vedere se in Tunisia, fra due mesi, si terranno davvero elezioni democratiche, e non con un solo candidato alla presidenza e un solo partito. Altrimenti tutto resterà come prima. In secondo luogo, la Tunisia non è uguale agli altri stati arabi che stanno più a est, perché la sua popolazione è al 99% musulmana sunnita.Pertanto chiunque si immagini qualcosa di simile allo scenario tunisino in altri paesi arabi sta solo fantasticando: significa non capire le forze che sono effettivamente in campo e non tenere in considerazione le strutture etniche, religiose e statali di quei paesi. Sin dal ritiro delle potenze coloniali, il mondo arabo non è riuscito ad edificare un solo stato-nazione degno di questo nome. Lo stato dell’Iraq, ad esempio, non ha dato vita a un popolo iracheno, né lo stato di Siria ha creato un popolo siriano. In entrambi questi paesi, la dittatura è stata il solo collante che ha tenuto insieme tutti i pezzi del puzzle religioso, etnico e tribale. Quando la dittatura in Iraq è crollata, l’intera entità irachena è andata in frantumi.Uno scenario alla tunisina è impossibile in stati composti da una raccolta di tribù e comunità religiose, e governati da regimi tribali che si comportano secondo antiche tradizioni repressive. Una sollevazione popolare in luoghi come quelli pone una minaccia vitale al regime tribale e confessionale, per cui fatalmente il regime scatenerà un bagno di sangue contro i ribelli prima di cedere il passo a un altro regime repressivo. Il fallimento del nazionalismo arabo nel creare uno stato-nazione civile degno di questo nome è ciò che ha portato all’ascesa dell’islamismo. Che però è solo un miraggio, che si richiama a un distante passato. La nostalgia per il passato “glorioso” è l’espressione più evidente dell’inettitudine di queste società nel presente. L’arretratezza del mondo arabo si manifesta ad ogni livello: nell’istruzione, nella sanità, nella disoccupazione crescente, nella dilagante corruzione governativa.In questo mondo non c’è creatività in alcun campo. È un mondo di stridente consumismo senza alcuna speranza all’orizzonte. È un mondo in cui i governanti, nei loro ultimi giorni, lasciano in eredità il regime, e il suo sistema di corruzione, ai loro figli che molto probabilmente continueranno la repressione e la corruzione dei padri fino al successivo sanguinoso cambio di regime, e poi ancora al successivo.Ma il mondo arabo ha una spiegazione pronta per tutti i suoi guai: un complotto ebraico, sionista e imperialista. Fra le manifestazioni di questo complotto, la diffusione di chewing-gum che provocano eccitazione sessuale nelle donne, la volontà di corrompere la cultura e la società arabe, l’invio di squali aizzati contro i turisti sulle coste del Sinai per distruggere l’industria egiziana del turismo, e via di questo passo. La diffusione di leggende infantili come queste è una sorta di oppio per le masse ignoranti che si bevono il “complotto sionista” e cadono in uno stato di torpore. Nel mondo arabo, l’effetto ipnotico del complotto sionista offre un modo facile e sicuro per evitare di affrontare sul serio i problemi al proprio interno.Disastri e fallimenti non possono innescare un autentico dibattito, e le ragioni di ciò sono strutturali, radicate nella cultura arabo-islamica: giacché, a differenza di altre culture, la cultura islamica non ha creato meccanismi di autocritica. Non c’è una sola tradizione attribuita al profeta Maometto che chieda al credente musulmano di impegnarsi in un’autocritica. L’assenza di questo principio è la radice dei problemi di questa società, giacché in una cultura l’autocritica è il meccanismo che rende possibili le correzioni. Senza tale meccanismo, non è possibile nessuna correzione. Ed ecco perché è così difficile intravedere una qualche luce alla fine del tunnel.(Da: Ha’aretz, 19.1.11)


Israele è lenta a riformare la propria aviazione civile

Tel Aviv, Israel - Il governo Usa ritiene che il livello di sicurezza aerea del settore sia tra i più bassi al mondo
(WAPA) - L'aeroporto internazionale di Tel Aviv con le sue poderose "Fortificazioni" è considerato da molte compagnie aeree al top per quanto riguarda la sicurezza con robot, veicoli speciali, videocamere a circuito chiuso e profilatura dei passeggeri. Insomma: tutto concorre a creare sicurezza e a prevenire gli attacchi terroristici. Ma dietro ciò ci sono delle falle per quanto riguarda un altro tipo di sicurezza: quella di chi vola e dei suoi aeromobili. Già, perché il governo degli Stati Uniti ha posizionato la "Safety" (questo termine inglese intende sempre la sicurezza ma quella legata all'incolumità di chi vola ed è differenziato da "Security", che è quella di cui si parlava prima, legata al terrorismo o ai reati) di Israele ai livelli più bassi al mondo, paragonabile a quella di Paesi come il Bangladesh, il Congo, Haiti o lo Zimbabwe. In passato, in almeno un paio di occasioni l'aeronautica militare israeliana avrebbe scambiato degli aerei di linea con degli aerei militari nemici. E molti piloti temono che un giorno un aereo commerciale possa essere abbattuto per errore. "Questa è una cosa intollerabile per l'aviazione civile internazionale" ha detto Giovanni Bisignani, capo di quella Iata (International Air Transport Association ). "Per questo motivo, la safety è stata abbassata di livello". Ma altre accuse arrivano anche dalle stesse autorità del Paese mediorientale: un'agenzia di controllo israeliana recentemente ha accusato il governo di procedere a rilento nel definire delle linee guida per trovare una soluzione ai problemi di safety che affliggono l'aeroporto internazionale "Ben Gurion" di Tel Aviv. Sotto accusa la vecchia tecnologia, piste troppo corte, spazio aereo affollato e utilizzato sia dagli aerei commerciali sia da quelli militari, e un'autorità per l'aviazione civile che non funziona come dovrebbe. Fatto sta che il declassamento a "Categoria 2" impedirà alle compagnie aeree israeliane di aumentare i collegamenti con gli Stati Uniti e di sottoscrivere accordi di code-sharing con vettori d'oltre Atlantico. "E questa cosa costerà in reputazione e danneggerà i vettori" ha detto Bisignani. Intanto i lavori per migliorare la sicurezza (intesa come safety) stanno iniziando e prevederanno l'impiego di nuovi radar di terra, l'estensione di una delle 3 piste del "Ben Gurion" e la costruzione di una nuova torre di controllo. Ma gli addetti ai lavori ritengono che tali lavori stiano andando avanti troppo lentamente. Bisignani e la Iata hanno criticato anche il programma di sicurezza (intesa stavolta come security) che è in fase di sperimentazione dal ministero dei trasporti che richiede ai piloti degli aerei di linea in avvicinamento a Israele di digitare un codice segreto che confermi la loro identità. Solo allora sarà possibile dare l'autorizzazione all'atterraggio. Il programma -ancora in fase di test- vuole far sì che gli aerei diretti nel Paese non rappresentino una minaccia. In 2 occasioni -ad aprile 2009 e luglio 2010- altrettanti jet civili sono stati intercettati da caccia israeliani perché i piloti avevano digitato in maniera sbagliata tale codice. (Avionews 19 gennaio)


Cellule armate dirette da Hezbollah

Nella striscia di Gaza, stando a quotidiano Israele Maariv
(ANSA) - TEL AVIV, 19 GEN - Alcune cellule armate attive nella striscia di Gaza sono dirette e sostenute dagli Hezbollah libanesi. Lo afferma il quotidiano israeliano Maariv secondo cui queste cellule - spesso composte da ex elementi di al-Fatah - dipendono dalla 'Unita' 1800' degli Hezbollah che fomenta la lotta armata palestinese contro Israele. Da fonti di sicurezza palestinesi Maariv ha appreso che a dirigere la 'Unita' 1800' ci sono due 'vecchie conoscenze' di Israele: Qeis Obeid e Samir Quntar.


Giaffa

Wikileaks/ Usa cercavano dati su sistemi comunicazione Israele

Washington chiedeva anche profili dirigenti palestinesi
19 gen. (TMNews) - Nel 2008 l'Amministrazione Bush diede istruzione ai suoi diplomatici perché raccogliesse informazioni sul sistema di protezione dei dati utilizzata dai sistemi di comunicazione israeliani e fornissero dei profili finanziari e biometrici dei principali leader palestinesi: è quanto si legge in uno dei cablogrammi riservati statunitensi diffusi dal sito di WikiLeaks. Come riporta il quotidiano israeliano Ha'aretz il memorandum, firmato dall'allora Segretario di Stato Condoleezza Rice, mostra come l'Amministrazione fosse preoccupata dalla mancanza di dati di intelligence sullo Stato ebraico, nonostante i rapporti di forte amicizia con Israele e con la stessa Autorità Nazionale Palestinese.


LUNGOMARE TEL AVIV

SPARATORIA SU LUNGOMARE TEL AVIV, ALMENO DUE FERITI

(AGI 22 genn) Gerusalemme - Almeno due persone sono rimaste ferite in una sparatoria sul lungomare di Tel Aviv, in Israele. Lo ha riferito il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, sottolineando che sono in corso le indagini e che i feriti sono stati gia' trasportati in ospedale. Le cause della sparatoria, ha riferito la polizia, sono ancora da chiarire. Secondo il sito Ynet news, i feriti sarebbero almeno cinque .


moschea di Al Azhar
L'ultima sulla guerra santa? È colpa di ebrei e cristiani

Il Grande imam della moschea di Al Azhar, Ahmed Al Tayyeb, dopo aver ammonito che l’appello del Papa Benedetto XVI in difesa dei cristiani poteva «creare malintesi», allo scopo di dissipare i medesimi e «ristabilire i ponti della fiducia» ha proposto al Papa di inviare un messaggio di pace ai musulmani. Una richiesta invero singolare – visto che l’attentato di Alessandria era diretto contro i cristiani – che il rappresentante delle vittime rivolga un messaggio di pace ai musulmani, come se essi fossero gli aggrediti. Se esiste ancora la logica il messaggio di pace doveva inviarlo l’imam Al Tayyeb. Non risulta che il Papa abbia aderito a questa richiesta. Ci ha pensato però qualcun altro al suo posto, e si tratta di una personalità cattolica del calibro di Vittorio Messori. In un articolo sul Corriere della Sera e in vari interventi sul suo nuovo giornale informatico, egli si è sbracciato in varie ricostruzioni storiche con il classico sistema di comporre notizie parzialmente vere in un quadro tendenzioso; il tutto allo scopo di spiegare che l’islam, dovunque è arrivato non è mai stato “cattivo”, non ha mai avuto un atteggiamento invadente, oppressivo o imperiale, ma è stato, per così dire, costretto alla conquista dalla dabbenaggine, dall’incapacità, dai conflitti interni e persino dai misfatti dei conquistati, in particolare dei cristiani. Quindi, siccome tutto è sempre andato nel migliore dei modi nel migliore dei mondi possibili, salvo qualche sbavatura marginale, Messori si è chiesto desolato: «Sino a tempi recenti la convivenza, cementata da tanti secoli, non è mai stata messa seriamente in discussione. Che è avvenuto, dunque, da qualche tempo?». E la risposta l’ha trovata in un battibaleno: la colpa è degli ebrei e del sionismo. Difatti, «tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che ha avuto come detonatore l'intrusione violenta del sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i credenti, quasi alla pari della Mecca».Si prova quasi vergogna a dover ricordare che Gerusalemme è la prima città santa per gli ebrei, e una delle prime due per i cristiani mentre nel Corano non è neppure menzionata. Ma questo pare non conti. La santità di Gerusalemme vale soltanto per i musulmani, non per gli ebrei e – si noti – neppure per i cristiani. Viene da ridere pensando al Messori che anni fa bacchettava Giovanni Paolo II, colpevole di chiedere troppe scuse a destra e a manca per le colpe storiche del cristianesimo, e che ora parla dell’occupazione islamica della Spagna medioevale come di una “liberazione”, rimprovera gli eccessi antimusulmani delle repubbliche marinare e cancella il diritto degli ebrei a considerare Gerusalemme città santa. Ma più che ridere nasce un sentimento di pena di fronte all’immagine di un signore che supplica il coccodrillo di mangiarlo per ultimo. E, oltretutto, lo fa mentre il coccodrillo gli sta mangiando un piede.Forse Messori si illude che una via per sfangarla sia di offrire gli ebrei come agnello sacrificale in pasto all’islam – si badi, gli ebrei, non soltanto il sionismo, perché la questione di Gerusalemme è religiosa, a detta dello stesso Messori. È da augurarsi che il mondo cristiano, e cattolico in particolare, non lo segua su una simile via. Oltre ad essere una scelta moralmente riprovevole sarebbe anche inefficace. Con simili demonizzazioni si farà di certo molto male agli ebrei e si attizzerà un antisemitismo sempre più virulento, ma alla fine il conto verrà pagato da tutti e sarà un conto salato, come insegna la storia (quella autentica, non i fumetti di Messori).(Tempi, 20 gennaio 2011) Giorgio Israel http://gisrael.blogspot.com/


Mar Morto

Pio XII - "Silenzio" e silenzio

Caro Massimo Giuliani, ho letto con grande interesse il suo articolo su Avvenire del 14 gennaio “Italia e Shoah, le sfumature del grigio” e sarei disposto a sottoscriverlo se non ci fossero le virgolette alle parole il silenzio di Pio XII. Purtroppo il silenzio di Pio XII ci fu e fu assordante, come alcuni hanno scritto. Si possono trovare mille scuse per tale silenzio: il desiderio di rimanere super partes e neutrale nel conflitto mondiale; i supremi interessi della Chiesa come li intendeva il Papa di allora; la priorità assegnata ad altri fattori come evitare la distruzione di Roma piuttosto che alla salvezza degli ebrei. Ma il silenzio ci fu. E fa male ai cattolici di oggi, poiché contrasta le pretese della Chiesa di essere anzitutto un ente morale, mentre essa fallì proprio per la carenza di moralità. Perciò si inventò che il Papa non conoscesse la realtà, ma è stato dimostrato che ciò non era vero. E` stato detto che Pio XII voleva lasciare la questione nelle mani dei vescovi, ma anche questa affermazione si è rivelata sbagliata, da quando sono state pubblicate le lettere del Vescovo di Berlino, von Preysing, al suo amico Papa. Più di una volta nel 1943 von Preysing supplicò di fare qualcosa per gli ebrei ed è evidente che pensasse a una dichiarazione pubblica, ma il silenzio continuò. Il vescovo di Berlino non fu ascoltato dal vescovo di Roma, anzi von Preysing fu punito poiché la sua nomina a cardinale fu rinviata a dopo la fine della guerra. Pio XII sarà stato un buon politico, ma santo certo non era.Sergio Minerbi,http://www.moked.it/



Il lavoro culturale

La notizia della traduzione in italiano del Talmud ha prodotto una grande eccitazione nella curia romana. Si tratta di individuare con la massima urgenza chi sarà adesso a tradurlo in latino. Il Tizio della Sera


Ben Gurion e Golda Meir

Come il grande partito egemone della Democrazia Cristiana in Italia negli anni '90, e in un certo senso come una "maionese impazzita" in cui gli ingredienti invece di fondersi si separano rendendo il prodotto immangiabile, il partito laburista israeliano con una repentina convulsione si è spezzato in tre o quattro schegge. E così è giunta al capolinea la più che centenaria e onorata storia del socialismo ebraico. Il gruppo centrista dei cinque di Ehud Barak rimane saldamente nel governo Netanyahu, e anzi migliora i propri incarichi istituzionali. Il gruppo della sinistra sociale dei quattro di Amir Perez rimane a malincuore nel partito dopo aver seriamente considerato la scissione, anticipato sui tempi dal ministro della difesa. Il gruppo dei tre ministri Ben Eliezer, Herzog, e Braverman, che da tempo annunciavano l'uscita dal governo, paga il prezzo più salato perché un conto è parlare di dimissioni, un altro è darle per davvero. E resta l'assertiva presenza mediatica di Shelly Yechimòvich che può sembrare una voce isolata ma forse rappresenta la sola persona politica in grado di fungere da collante e forza motrice di una nuova forza socialdemocratica. Nell'uscire dal partito Barak ha citato gli esempi di David Ben Gurion e di Moshé Dayan ma ha dimenticato che il primo si ritirò a Sdé Bokèr nel Neghev, dando un esempio di idealismo pionieristico ben diverso dalla sua lussuosa abitazione nel grattacielo di Tel Aviv con l'assistente domestica filippina senza permesso; e il secondo passò, sì, al campo politico rivale come ministro degli esteri del governo Begin, ma entro poco tempo riuscì a portare il presidente egiziano Anwar el-Sadat alla storica visita a Gerusalemme e alla Knesset e al trattato di pace. Con Barak alla difesa ma senza il contrappeso degli otto deputati laburisti ora all'opposizione, l'asse politico del governo Netanyahu si sposta decisamente a destra. La coalizione di governo, numericamente ridotta, appare più compatta ma aumenta grandemente la sua dipendenza dagli umori di Shas e di Liberman che peraltro propongono programmi sociali contrapposti e incompatibili. La debole mediazione di Bibi e la logica del potere mantengono in piedi una compagine che non riesce a risolvere gli incredibili (e unici al mondo) scioperi della diplomazia al ministero degli esteri e dei procuratori di stato nei tribunali. A rigor di logica le elezioni anticipate sembrerebbero inevitabili, a meno che non spunti entro breve tempo uno strabiliante successo di politica estera. SergioDella Pergola,Università Ebraicadi Gerusalemme, http://www.moked.it/