sabato 22 gennaio 2011


Tel Aviv
12 minuti per incenerire Tel Aviv

Vent’anni fa, alle tre del mattino del 18 gennaio del 1991, gli Scud di Saddam Hussein iniziarono a piovere su Tel Aviv. Per la seconda volta nella storia, la metropoli israeliana subiva un attacco dal mondo arabo. Si temeva l’uso di armi chimiche o biologiche, il virus del vaiolo e l’antrace erano una realtà nell’Iraq di Saddam. In Israele caddero 39 Scud, ci furono morti, feriti, distruzione. L’acqua minerale e le scatolette sparivano dai supermarket. In quelle serate fredde la gente camminava portandosi sempre a tracolla l’ammennicolo della maschera antigas, perché Saddam aveva risollevato nell’inconscio collettivo degli ebrei l’idea che si potesse morire gasati senza alzare un dito. Israele rispose con l’understatement, il quieto coraggio civile, verificando i rifugi, sigillando con la plastica porte e finestre. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha appena puntato il dito sul nemico più serio per Israele: “La prima preoccupazione è l’Iran, la seconda preoccupazione è l’Iran, la terza preoccupazione è l’Iran”. A confermarlo sono le stime dell’intelligence israeliana: Teheran sarebbe in grado di lanciare 400 missili “letali” su Tel Aviv. Hezbollah ne potrebbe lanciare fino a 600 al giorno. Da Teheran a Tel Aviv, un razzo iraniano Shihab impiegherebbe dodici minuti per colpire lo stato ebraico. Tel Aviv, nel cui bacino vive un quarto dell’intera popolazione israeliana, è l’obiettivo della prossima guerra, che nessuno sa se e quando scoppierà, ma tutti sanno che avrà gli occhi bui degli ayatollah. Mentre prosegue il balletto sulla data in cui Teheran avrà l’atomica, Israele sta investendo nella propria sopravvivenza. Il comandante delle forze di difesa della regione, Adam Zussman, ha spiegato che “Tel Aviv è di nuovo in pericolo. In qualunque scenario di guerra, sarà colpita da numerosi missili, missili mirati e letali”. Sia Tel Aviv sia la città portuale di Haifa furono colpite dagli attacchi del 1991. Ma, per la prima volta dalla nascita d’Israele, domani potrebbero essere raggiunte da ordigni devastanti. Si studia in fretta a chi debbano andare i poteri locali (vigili urbani, pompieri, ospedali) nel caso di attacchi disastrosi. L’economia si attrezza, decidendo a chi deve andare la priorità d’intervento immediato in caso di collasso bellico, così da evitare il blocco della produzione: quali i computer da ripristinare per primi, quali le catene da rimettere in moto per non restare privi di elettricità. La capacità di morte nella regione è salita vertiginosamente. Si calcola che, quattro anni fa, la Siria avesse trecento missili che potevano raggiungere Tel Aviv, Hezbollah una dozzina, l’Iran cinquanta e nessuno Hamas. Due anni dopo, la Siria ne aveva 1.300, Hezbollah 800, Teheran 300 e Hamas una dozzina. Oggi l’intelligence stima 2.300 missili per la Siria, 1.200 per Hezbollah, 400 per Teheran e un buon arsenale di Fajr-5 anche per Hamas. Oggi Gerusalemme potrebbe essere colpita con una precisione tale da lasciare intatta la moschea di al Aqsa, sacra all’islam. A confronto gli Scud di Saddam sono ricordi sghembi. L’eventuale effetto di un missile iraniano su Tel Aviv è stato appena quantificato dal generale Itzik Ben-Israel, già a capo del centro ricerche dell’esercito: “Farebbe un cratere di 500 metri e 20 mila morti. E’ tanto, ma non distruggerà Tel Aviv o Israele”. Ogni missile su Tel Aviv avrebbe sulla popolazione lo stesso impatto di trenta missili di Hamas nel sud del paese. Tel Aviv non si estende oggi solo verso il cielo con i suoi grattacieli, ma sprofonda anche sotto terra perché sa di essere un bersaglio ambìto per Iran, Hezbollah, Siria e Hamas. Secondo un rapporto redatto dal Comando militare delle retrovie, in caso di un conflitto regionale “centinaia di missili” sarebbero lanciati sulla metropoli israeliana. Nemmeno nel 1991 Tel Aviv fu costretta a emergenze del genere. Meir Javedanfar, uno dei massimi esperti israeliani di affari iraniani, autore del libro “The Nuclear Sphinx of Tehran”, dice al Foglio che “nel futuro immediato non ci sono molte possibilità che Israele attacchi l’Iran senza il sostegno attivo dell’America. Obama non mi pare sia predisposto a questa opzione. Se le sanzioni e il sabotaggio non riusciranno a fermare il programma nucleare, le possibilità dell’attacco aumenteranno velocemente. Quando e se, nessuno lo sa. Sarebbe uno strike davvero complesso. L’Iran nuclearizzato vedrebbe una Repubblica islamica molto più aggressiva verso i vicini e più aperta nel sostegno a Hamas e Hezbollah. La richiesta di eliminare Israele si farebbe più forte. La paura dominerebbe Israele, gli investimenti e l’immigrazione verrebbero meno, i terroristi sarebbero più audaci, politicamente e militarmente. Nessuno vuole vivere sott’assedio nucleare. Immaginate di avere un vicino di casa che ogni giorno vi minaccia di morte”. Il Jaffa Center ha pubblicato un booklet dal titolo “Iran’s Ambitions for Regional Hegemony”. Vi si spiega come Teheran potrebbe mutuare da Israele la politica di opacità sull’atomica. Negare di aver creato la bomba. Uno degli autori del dossier, Reuven Pedatzur, docente all’Università di Tel Aviv, specializzato in balistica, è tra i più pessimisti sull’efficacia dell’attacco preventivo: “Israele non può distruggere il programma nucleare iraniano. C’è mancanza di intelligence completa su cosa l’Iran sta combinando realmente e in quali siti. C’è la questione critica dei bunker, non è possibile distruggere sotto terra la centrale di Natanz. E poi non abbiamo abbastanza aeroplani per compiere un vero strike. L’Iran, se attaccato, userà Hezbollah contro Tel Aviv. E stavolta sarà un disastro, moltissimi morti e feriti. Abbiamo un problema enorme, l’Iran sta costruendo la bomba atomica e ci sono tre stati, Siria, Libano e Gaza, da cui si possono lanciare armi letali su Israele. Non abbiamo alcuna capacità di rendere immune il paese: se ci saranno attacchi, Israele dovrà entrare nuovamente in Libano e a Gaza e conquistare i territori. Se Hamas colpisse un asilo e uccidesse dieci bambini, Israele dovrebbe rioccupare Gaza. Intanto chi oggi costruisce una casa in Israele deve farsi anche un rifugio”. A Gerusalemme il 2011 dovrebbe essere l’anno dell’apertura del più grande bunker nucleare di tutto il paese. Ottanta metri sotto terra per accogliere cinquemila persone. La città santa sarà collegata a Tel Aviv anche da un tunnel di sessanta chilometri. Che Israele tema per Tel Aviv, cuore economico e finanziario dello stato, ce lo dice anche il fatto che, per far fronte a un eventuale attacco dell’Iran o a una sua rappresaglia nucleare o biochimica, Gerusalemme e Washington stanno lavorando a un nuovo scudo antimissile. Si chiamerà “Arrow III”, basato sull’evoluzione del precedente sistema e in grado di intercettare e abbattere missili balistici ad altissima quota, al rientro in atmosfera. Israele è impegnato da anni in una drammatica corsa contro il tempo che lo vede elevare fino al cielo un “Progetto Muraglia” (“Homa” in ebraico) nato dopo la guerra del Golfo, in seguito alla deludente prestazione di fronte agli Scud iracheni dei Patriot statunitensi. Il lavoro dei missili Arrow si basa sulle informazioni ricevute in tempo reale dal sistema di radar “Pino Verde”. Ma alcuni esperti israeliani criticano questo meccanismo di difesa, ritenendolo passivo. E’ necessario intercettare i missili già in territorio nemico. A inizio gennaio è arrivato l’annuncio che a Tel Aviv verrà dislocata una nuovissima batteria di missili Arrow. Si aggiungerà alle due batterie già presenti nel sud contro Hamas e nel nord ad Hadera, contro Hezbollah. Resta sguarnito il ventre del paese. Si sa anche che da un anno i riservisti che si occupano del sistema balistico hanno iniziato a trascorrere un giorno alla settimana in esercitazioni pre conflitto. Il sito online del municipio di Tel Aviv ha diffuso, strada per strada, le possibilità di difesa per gli abitanti. Ad Haifa, la terza città più grande d’Israele, è in corso la realizzazione del più grande ospedale al mondo sotto terra. E anche il Teatro Habima di Tel Aviv sarà dotato di quattro piani sotterranei con ingressi da ogni lato. Il capo di stato maggiore d’Israele, Gabi Ashkenazi, pochi giorni fa ha detto che nella prossima guerra “si dovranno evacuare i civili”. Fra le misure di difesa, Israele ha messo a punto un sistema prodotto dalla Ericsson che invierà a tutti i cellulari l’allarme “in tempo utile”. Dove per utilità s’intende il minuto necessario (e sufficiente?) per raggiungere i rifugi antiatomici. Il nuovo sistema d’allarme, situato in un bunker del Negev, calcola con esattezza la traiettoria d’un missile e ne prevede l’impatto. Un sms arriverà in contemporanea a stazioni radio e tv, siti web, tabelloni luminosi, sirene e altoparlanti stradali. “E’ un sistema di difesa preventiva e collettiva unico al mondo”, spiegano i militari. Sono in corso di installazione filtri speciali in grado di tutelare la popolazione anche “per lunghi periodi di tempo”. Perché come spiega il viceministro della Difesa, Matan Vilnai, “i rifugi antimissili sono una cosa da Londra di settant’anni fa. Lì ci passavi mezz’ora fino a che il pericolo era passato. Oggi le persone devono poterci trascorrere anche un mese”. Prosegue, a rilento, la distribuzione delle maschere antigas. Fecero la loro comparsa nel 1991 e l’allora viceministro degli Esteri israeliano Netanyahu compariva sulla Cnn con una maschera. L’esercito sta mettendo a punto sirene per i missili che possono portare armi chimiche. Si è parlato di un gigantesco aerostato, grande come un campo di calcio, che da una posizione fissa potrà fotografare oggetti distanti mille chilometri. Si teme che la conferma di una bomba atomica nelle mani degli ayatollah possa scatenare la “grande fuga”. Sono i risultati di una rilevazione condotta per conto del Centro studi iraniani dell’Università di Tel Aviv, secondo cui un buon 30 per cento d’israeliani è disposto a prendere in considerazione l’abbandono del proprio paese laddove Teheran riuscisse a dotarsi di armi non convenzionali. Cosa che per l’81 per cento degli intervistati è senza dubbio destinata ad accadere, malgrado gli sforzi diplomatici dell’Amministrazione Obama. “La minaccia di un attacco nucleare su Tel Aviv diverrebbe parte integrante della realtà israeliana”, ha scritto sul Wall Street Journal l’analista Yossi Klein Halevi. E nel caso di guerra Israele dovrà fare una scelta tragica. L’Home Front Command per bocca del colonnello Zussman ha rivelato che la prima preoccupazione non saranno i caffè o i ristoranti di Tel Aviv, ma le infrastrutture economiche e industriali: “Mi interessa meno un contraccolpo ai cinema e più il malfunzionamento delle banche e dell’economia”.Zussman ha consigliato la popolazione di “dotarsi di kit protettivi in caso di attacco nucleare, biologico e chimico e a preparare una zona protetta nelle case”. Da due anni si rincorrono esercitazioni. Gli studenti sono entrati in silenzio nei rifugi, hanno simulato lo sgombero dei feriti e reazioni a vari tipi di attacco. Gli ospedali e le strutture d’emergenza sono pronti, seguitano a compiere esercitazioni per un gran numero di feriti. Le municipalità hanno protocolli di evacuazione, specie nella zona costiera che nel 1991 fu colpita dai missili. Haaretz ha pubblicato due agghiaccianti scenari basati sul presupposto che in un futuro ormai prossimo Teheran riesca a dotarsi di armi nucleari e immediatamente le punti in direzione di Israele. Nello “scenario A”, Israele viene raggiunto da ordigni nucleari. Poi c’è lo scenario “realistico”, cioè un Iran con una deterrenza ma saggio nell’uso. Visto che è di dodici minuti il tempo necessario a un razzo iraniano per raggiungere Israele, ogni decisione di un primo ministro israeliano dopo un eventuale attacco iraniano deve maturare in un pugno di minuti. Nello scenario A, il primo ministro israeliano segue il dramma per telefono. Il primo aggiornamento non è terribile: c’è un razzo in volo verso Israele. Pochi istanti dopo, la doccia fredda: sui radar sono apparsi dodici razzi. Entrano in azione gli Arrow, i razzi anti missile. Il primo Shihab iraniano viene intercettato. Anche il secondo, e il terzo. Gerusalemme comincia a sperare che la crisi sia superata, poi apprende: cinque razzi sono passati. Per un paese delle dimensioni e della conformazione di Israele (una striscia di terra oblunga di circa ventunomila chilometri quadrati), quattro o cinque lanci nucleari sarebbero sufficienti. E addio Israele. Un milione o più di israeliani, nelle maggiori aree di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, perirebbero sul colpo. Milioni i gravemente irradiati. Resta un minuto per decidere se ordinare una devastante reazione israeliana che incenerirebbe le principali città iraniane. Secondo la rivista militare Jane’s, se attaccato Israele reagirebbe spianando Teheran, Isfahan, Tabriz, Mashhad, Bandar Abbas e la città santa Qom. Una cartolina dell’Home Front Command, recapitata ai cittadini israeliani, divide il paese in sei regioni, dal Negev al Golan. Ogni regione ha diversi tempi di reazione a un eventuale attacco. Se vivi lungo la Striscia di Gaza, hai quindici secondi. A Gerusalemme si sale a tre minuti (nel 1991 erano appena novanta i secondi per ripararsi dai razzi saddamiti). Ma se vivi a ridosso dei Libano o della Siria, il colore rosso significa che, a meno che non ti trovi già in un bunker, se suona la sirena tanto vale aspettare il razzo sul posto. Dal 2006 Israele ha speso una fortuna nella difesa. Come per il satellite spia Eros B, o le bombe 500 US Blu-109, in teoria in grado di penetrare i bunker iraniani. I jet israeliani hanno già dato prova di colpire lontano, come quando a Tunisi bombardarono il quartier generale dell’Olp in risposta all’uccisione di tre turisti israeliani a Cipro. Dal Negev si possono alzare in volo i caccia “Ra’am”, che in ebraico significa tuono, e i “Sufa”, o tempesta. Possono arrivare fino a 2.200 chilometri. I missili Gerico 2 possono colpire fino a 1.500 chilometri e portare ordigni di una tonnellata. Tengono a tiro tutte le capitali islamiche. L’Iran può rispondere con i missili Shihab 3 e i BM-25 acquistati dalla Corea del nord. Centinaia di famiglie israeliane sono già corse ai ripari. Facendo costruire sotto casa bunker con un sistema d’aria che dà indipendenza per sei mesi. In caso di attacco atomico.Anche la Knesset, il Parlamento israeliano, sta facendo costruire un mega bunker da cui la leadership guiderebbe il paese in caso di attacco. Sono trascorsi vent’anni da quando caddero i primi missili su Tel Aviv, ma nelle case d’Israele si conserva ancora una guida per il buon uso della maschera antigas. Si intitola “Lohama Kimit”, 126 pagine e 200 fotografie di spiegazioni su come proteggersi in caso di lancio di bombe non convenzionali. Di solito la guida si conserva nell’angolo meno vivibile di ogni casa, dentro brutte scatole di cartone color kaki. Vi si spiega che questi gas sono inodori e incolori, possono seminare la morte in “centinaia di metri” (dipende dal vento e dalla temperatura, alta in Israele), colpiscono gli occhi, il naso, la bocca e la pelle. Si perde il controllo del sistema nervoso e i muscoli si contraggono. Sono trascorsi vent’anni, è cambiato il nemico, ma in caso di attacco il consiglio alla popolazione è lo stesso: “Bevete molta acqua”. “L’attacco preventivo è l’ultima risorsa e non è circondata da entusiasmo, ma se le sanzioni falliranno, lo strike sarà necessario”, ci dice l’ex generale e viceministro della Difesa, il laburista Ephraim Sneh, figlio di uno dei fondatori del Partito comunista israeliano e di sopravvissuti alla Shoah: “Speriamo che Israele non si trovi nell’angolo. Non mi interessano le analisi degli ‘esperti’, mi fido dell’esercito. La domanda non è se l’Iran userà i missili su Israele, le ipotesi non sono rilevanti. E’ il fatto che li abbia o meno che cambia la questione. Teheran è devota alla distruzione d’Israele, fine della discussione. Per adesso l’equilibrio strategico è in nostro favore, ma l’Iran potrebbe lanciare un attacco nucleare e i nostri F-15 non potrebbero prevenirlo. Se Teheran avrà l’atomica, Israele sarà povero, insicuro, i giovani se ne andranno all’estero. E’ la fine del sionismo. E’ la lezione della Shoah. Sessantacinque anni dopo Auschwitz, non si può consentire a un altro dittatore di cancellare Israele dalla mappa geografica”. dal FOGLIO 19/01/2011, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti

Nessun commento: