venerdì 21 gennaio 2011


Pierluigi Battista, Lettera a un amico antisionista, Rizzoli. Sergio Romano, il destinatario della lettera

Sono trascorsi un paio di decenni da quando, in piena Guerra del Golfo, giurai a me stesso che non avrei più discusso su Israele con chiunque non la pensasse esattamente come me. Tale ottusa risoluzione era il prodotto dell’ennesimo scontro con l’amico con cui da sempre discutevo sulla questione israelo-palestinese. Mi era sembrato che stavolta, in quanto a capziosità, avesse superato il confine imposto dalla decenza dialettica. Da giorni il territorio israeliano era sottoposto alla pioggia di Scud iracheni, e Israele, contrariamente al solito, tergiversava. Il mio amico sosteneva che la mancata reazione israeliana fosse dettata dal solito opportunismo sionista (perché intervenire se c’erano gli alleati di sempre a fare il lavoro sporco?). E che comunque gli israeliani con la loro inerzia non stessero facendo altro che riconoscere le proprie responsabilità morali nella lunga guerra di cui il conflitto in atto non era che l’epilogo tragico. Ero esterrefatto. Responsabilità morali? Che c’entrava Israele con l’invasione del Kuwait da parte delle truppe di Saddam Hussein? Possibile che l’intervento in Iraq di una forza militare internazionale potesse essere addebitato a Israele? La rabbia mi stava giocando un brutto scherzo. Mentre il mio amico continuava ad argomentare con la solita distesa impudenza, io balbettavo. Allora presi il mio impegno: non mi sarei mai più esposto a una simile mortificazione. D’ora in poi, cascasse il mondo, avrei vissuto nell’ombra, mostrando un’equanimità putrida e nient’affatto corrispondente ai miei sentimenti e (cosa ancor più grave) alle mie idee. D’ora in poi avrei opposto ai detrattori di Israele un sorrisino di circostanza. Il tutto sarebbe stato reso più arduo dal fatto che mi stavo avviando a una carriera intellettuale, e che i miei colleghi e compagni di avventura sarebbero stati accademici, scrittori e giornalisti, categoria storicamente sospettosa nei confronti di Israele. Ho tenuto fede al mio giuramento? Direi di sì. Ma con quanta fatica, e a costo di quale sacrificio della mia dignità. Forse questo spiega perché abbia letto il libro di Pierluigi Battista Lettera a un amico antisionista (Rizzoli) con il gusto che si avverte nel ricevere un insperato e tardivo risarcimento. Ho trovato enumerati, con puntiglioso talento argomentativo, tutti gli interrogativi che da anni avrei voluto rivolgere a un sacco di miei amici, cosa che mi sono ben guardato dal fare. La lettera di Battista, per esplicita ammissione dell’autore, è una risposta alla missiva che, qualche anno fa, l’ambasciatore Sergio Romano scrisse a un «amico ebreo» . E che suscitò tanta indignazione, soprattutto in ambito ebraico. Ricordo che pure nel soggiorno di casa mia ci divedemmo tra falchi e colombe. Guarda caso è proprio da lì che muove l’argomentazione di Battista. È onesto liquidare come antisemita chi ostenta nei confronti di Israele e dei suoi fiancheggiatori una peculiare sospetta o ossessiva severità? La risposta di Battista è molto interessante: l’accusa di antisemitismo è imprecisa. Battista ne è talmente convinto da confutare Martin Luther King che in una lettera indirizzata a James Earl Ray scriveva: «Tu dichiari, amico mio, di non odiare gli ebrei, di essere semplicemente “antisionista”. E io dico: quando qualcuno attacca il sionismo intende gli ebrei, questa è la verità di Dio» . Battista, evidentemente non a suo agio con «la verità di Dio» e tanto meno con il commovente tono oracolare di quel martire dei diritti civili, rifiuta il sillogismo. Sforzandosi, per esempio, di spiegare le ragioni di Sergio Romano. Dando forma plastica e autorevolezza ideologica alle diffidenze di quest’ultimo. Certo, Battista le considera sbagliate, ma evita di tacciarle di antisemitismo. In fondo Battista sta scrivendo a un «amico antisionista» . Se costui fosse antisemita non sarebbe un suo amico, tanto meno il possibile destinatario di una lettera. Detto questo però, Battista riconosce l’esistenza di un’odiosa ambiguità. «È però vero, che seppure gli antisionisti non sono tutti antisemiti senza sfumature, non c’è purtroppo antisionista che non sia prigioniero di un’ossessione che con l’antisemitismo, fatalmente, ha molte parentele. Di una malattia culturale il cui sintomo principale a me pare si possa definire come il “morbo della dismisura”. Dismisura nei giudizi, nei pregiudizi, nel lessico, nei furori inconsulti e incontrollati. Dismisura nell’acredine contro un popolo, quello israeliano, che numericamente costituisce una piccola quantità nel gran mare del mondo arabo. Dismisura, se soltanto si considera l’angustia geografica di un pezzo di terra contesa che copre una percentuale piccolissima dell’area mediorientale» . Il dato interessante di questo appassionante pamphlet è che Battista non si perde a stabilire ragioni e torti dei contendenti di quel conflitto infinito. Né, mi pare, gli interessi granché esercitarsi in un’inutilmente faziosa apologia sionista. Ciò di cui Battista vuole dare conto è di un atteggiamento mentale, o per meglio dire un sentimento— così prossimo al risentimento— di coloro che da anni professano nei confronti di Israele una diffidenza che dire “préalable”è poco. C’è qualcosa che non va in costoro. Un eccesso di zelo. Una forma di esibizionismo. Un disarmante strabismo. Un’ardente smania di boicottare, rifiutare, giudicare, aborrire. L’antisionista di Battista è un liberal, pieno di sacro fuoco e di sensi di colpa, animato da un molto ebraico «odio del sé» , convinto assertore della responsabilità occidentale nei dissesti del mondo. E che, in nome di tutto questo, identifica in Israele uno scandalo geografico e politico. «L’antisionismo» scrive Battista «è un unicum nella storia pur parecchio variegata delle ideologie antimperialiste, anticolonialiste, indipendentiste, nazionaliste e così via, perché implica la distruzione, tabula rasa, del soggetto “coloniale”o “imperiale”da cui liberarsi» . Qualche anno fa, dalla medesima tribuna, più o meno in questo periodo dell’anno, mi dichiarai ostile al Giorno della Memoria, ravvisando una relazione perturbante tra i commossi retori della Memoria e i grandi esecratori di Israele. Battista, nel suo viaggio nel cuore dell’antisionista doc, nota un’aporia analoga: «Mentre si asciugano le lacrime dopo aver visto Schindler’s list, non sembrano molto scossi quando Ahmadinejad convoca a Teheran l’internazionale negazionista per denunciare la “menzogna di Auschwitz”» . Una contraddizione che una volta un mio amico israeliano liquidò senza fare una piega con queste parole: «Perché ti stupisci? Da sempre un ebreo morto è molto più commovente di un ebreo vivo» .

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