venerdì 19 settembre 2008


UNA STORIA DI AMORE E DI TENEBRA

Di Amos Oz Trad. Elena Loewenthal, Ed. Feltrinelli, Milano 2003, €.18

Quando uscì in Italia nel 2003, non tardai ad acquistarlo; ma confesso che questo poderoso romanzo, salutato come un’autobiografia nazionale e il capolavoro di Amos Oz, mi ispirava una certa soggezione. Una cara amica di Tel Aviv mi consigliò vivamente di leggerlo: “Non preoccuparti per la mole” cercò di rassicurarmi “resterai coinvolta da quelle pagine e non farai fatica ad andare avanti” E spiegò: “E’ un libro importante perché…è anche la storia di Israele”. Trascorse altro tempo; seguirono diverse vicende e letture. E il librone restava lì, nella biblioteca di camera da letto in legno color verde chiaro -piccola, ma straripante di volumi- in piedi, ultimo del ripiano, dopo “Gente d’Israele” di Ruthie Blum, quasi a far da sostegno, per le sue dimensioni, a tutti gli altri. Il padre di Oz mi avrebbe giustamente rimproverato per questa soluzione. Pazienza. Finché, alla fine del mese scorso, la decisione: non è possibile affrontare la letteratura (e cultura) israeliana con cognizione di causa, sia pure per collaborare in un piccolo sito web di amici, anzi a maggior ragione per rispetto nei loro confronti, senza aver digerito ed assimilato alcuni testi, tra i quali “Una storia di amore e di tenebra” occupa un ruolo di primordine; anzi non se ne può prescindere, per nulla al mondo. Nel nostro romanzo si intrecciano vicende complesse; magia, psicologia, storia , favola; risate, lacrime, speranze, delusioni, tragedia, gioia sublime, in un continuo andirivieni tra passato e presente. Tra il piccolo Amos Klausner di otto anni cui, in un primo momento, viene permesso dal padre, il 29 novembre 1947, di assistere alla trasmissione radio della votazione all’Assemblea ONU sulla Risoluzione n. 181, e il premiatissimo scrittore Amos Oz che ogni mattina, ad Arad dove risiede dal 1986, appena spuntato il sole, va a vedere che cosa c’è di nuovo nel deserto. Si mescolano la storia di un uomo, di due famiglie nell’arco di oltre un secolo, di una Nazione. Lo stile cambia di continuo, in una ricerca appassionata. Luce e tenebra e contraddizioni. Passato e Presente. Avanti e Indietro. Amore e Tenebra. C’è un centro, per così dire, forte, che determina l’unitarietà del racconto: il suicidio dell’amata madre, Fania Mussman, a seguito di una lunga, dolorosa depressione, avvenuto in casa della sorella di lei, Haya, a Tel Aviv, nel gennaio 1952, quando Amos non aveva ancora tredici anni. Su questa tragica vicenda egli aveva serbato un silenzio lungo un cinquantennio. E confessa: “Di mia madre non ho parlato quasi mai, per tutta la mia vita fino a ora, che scrivo queste pagine. Né con mio padre né con mia moglie né con i miei figli né con nessun altro. Dopo la morte di mio padre, nemmeno di lui ho quasi mai parlato. Come se fossi stato un trovatello”.
Che cosa lo ha spinto a ritornare ai suoi primi 15 anni di vita che aveva, potremmo dire, rimosso per tanto tempo? In un’intervista rilasciata tempo fa confessava che, cinque anni prima, un nipote gli aveva chiesto se si ricordasse di suo nonno. “Gli ho dato questa risposta lunga 600 pagine….Avvicinandomi ai sessant’anni ho sentito il bisogno di comunicare con i miei genitori, morti molti anni prima. Avevo bisogno di capire….da che cosa fossero scappati… Io ho scritto questo romanzo in un momento in cui…ero pieno di…empatia verso di loro”. Il linguaggio è efficace, colorito, pieno di sfumature, con pensieri e annotazioni che vanno dritti al cuore del lettore; non mancano, nei contesti giusti, né l’ironia affettuosa, né i toni ed accenti epici, ma non vi troverai un granello di retorica. L’opera si snoda lungo sessantatre capitoli ed è composta, per così dire, di diversi piani che si intersecano l’un l’altro in un mirabile castello palpitante di vita. Alcune (poche, per la verità) ripetizioni attestano un non esatto incastro tra i diversi piani; ma ciò non è un limite, poiché sta ad indicare la sofferenza, il vissuto faticoso dell’Autore sulle pagine che scrive, una carne viva, come tale non perfetta. Altro aspetto interessante, nell’intreccio tra storie personali e grande storia, l’apparire sulla scena, in prima persona o grazie alle parole dei diversi personaggi, di interpreti rilevanti per le vicissitudini del popolo ebraico e/o di Israele. Da Bialik, a Shmuel Yosef Agnon (un “ragazzo sottile e sognatore…”) da Yosef Chayyim Brenner (“un ebreo russo ombroso e isterico, tozzo, trasandato….un’anima dostoevskijana sempre in bilico fra l’entusiasmo e la depressione….”), a David Ben Gurion (all’incontro del giovane autore col quale è dedicato un gustosissimo capitolo), a Menahem Begin (ritratto in maniera impareggiabile) a Vladimir Zeev Jabotinsky e tanti altri, come la poetessa Zelda, verso la quale Amos Oz nutre profondo affetto e gratitudine. Vi è la ricostruzione avvincente della storia, nel tempo e nello spazio, di due famiglie della borghesia ebraica europea, da Odessa, Vilnius e Rovno a Gerusalemme, dove esse -a seguito delle persecuzioni antisemite prenaziste- giungono, con la volontà di impiantare nella Terra dei Padri una nuova esistenza ed identità. Interessanti le vicende dei due gruppi, con le numerose ramificazioni, gli spaccati di storia e le annotazioni psicologiche. E poi c’è Gerusalemme, che non si accontenta a far da sfondo, ma assurge al ruolo di personaggio del romanzo, come del resto in altre opere dello stesso Autore. Si potrebbe quasi dire che essa cambia e cresce insieme con lui. Torniamo agli altri attori della vicenda. Il nonno paterno dell’A. Alexander, soprannominato fin da piccolo Zussi o Zussl (zucchero), è la figura più piacevole nella schiera dei parenti e il nipote non nasconde una forte simpatia nei suoi confronti. Nonno Alexander (nato nel 1881 e morto nel 1977/’78) era mediatore commerciale e rappresentante di prodotti di abbigliamento, di giorno; ma poeta, di notte. Nella solitudine del suo studiolo, con un bicchierino di liquore dolce sulla scrivania, spandeva sul mondo (indifferente) rime d’amore, di ardore e malinconia, rigorosamente in russo. Fu irresistibilmente attratto dalla bellezza femminile fino alla tardissima età e amato dalle stesse donne, che trovavano ricca di fascino la sua capacità di ascolto. Egli aveva una predilezione per la nuora Fania, della quale temeva la tristezza; la morte di lei lo addolorò moltissimo. A 17 anni Alexander si era innamorato della cugina Shlomit Levin; la celebre nonna Shlomit, la figura più bizzarra del romazo, che, giunta al porto di Haifa nel 1933, appena sbarcata dalla nave, emetterà la sentenza inappellabile: “Il Levante è pieno di microbi”. Ella muore nel 1958, nella vasca da bagno per le troppe abluzioni, espressione di una profonda inquietudine interiore. Il figlio minore della coppia e Padre dello scrittore, Yehuda Arieh, vantava una vastissima cultura, parlava undici lingue; era persona di grande sensibilità, anche se magari non gli faceva difetto una certa pedanteria nell’erudizione e nei ripetuti giochi di parole. Aveva anche studiato letteratura ebraica con lo zio, il celebre Prof. Yosef Klausner (altro personaggio della vicenda); ma questi non lo aiutò nella carriera accademica per non essere tacciato di favoritismi; e in seguito, passato il “tempo di Klausner”, per il nipote non fu possibile accedere ad una cattedra universitaria. Dunque Yehuda si dovette accontentare di un posto di bibliotecario presso la Biblioteca nazionale di Gerusalemme. Ma non aveva rinunciato a scrivere.. L’amarezza per la mancata affermazione universitaria negli anni di maggiore produttività non possono non aver influito sulla sua vita personale, sui rapporti con la moglie Fania Mussman, conosciuta una sera del 1936. Una studentessa di 23 anni introversa, bellissima “scura di pelle e dagli occhi neri, che parlava molto poco ma la cui solo presenza induceva gli uomini a parlare e parlare a più non posso”. Qualche tempo prima ella aveva lasciato l’Università di Praga ed era giunta da sola a Gerusalemme, nel 1934, dove già stavano i genitori e la sorella maggiore Haya, per studiare storia e filosofia all’Università del Monte Scopus. Anche Fania ha dimestichezza con le lingue: ne legge sei, otto, e ne parla quattro o cinque. Yehuda che ama molto parlare, spiegare, esporre; Fania che sa ascoltare e sentire ciò che sta tra le righe.
Purtroppo fra di due non si instaurò mai quella comunione che, insieme con l’amore, fa superare le gravi delusioni e prove che la vita inevitabilmente ti impone.
“Qualcosa nella proposta formativa di quel liceo [frequentato da Fania, a Rovno, Ucraina] o forse un muschio romantico annidato in profondità nell’animo di mia madre e delle sue amiche, negli anni della loro giovinezza, la fitta nebbia sentimentale russo polacca, una via di mezzo tra Chopin e Mitzkiewitz… tarlò mia madre per quasi tutta la vita e l’avvinse finché ne fu sedotta e si uccise, nel 1952. Aveva trentanove anni…” A tutto questo va aggiunto il trauma irreparabile della Shoah, con la distruzione del mondo amato da questi inguaribili europofili che erano gli Ebrei: il mondo amato era la vita prima dell’avvento del nazismo e, prima ancora, del dilagare inarrestabile dell’antisemitismo. All’inizio del romanzo lo scrittore che, nel loro piccolo appartamento del quartiere di Kerem Abraham -trenta metri quadri, al piano terra, sotto un soffitto basso, situato in un edificio il cui pianterreno era scavato nel dorso della montagna-, i libri riempivano tutta la casa. “Se il senso culturale li spingeva a leggere per lo più in tedesco e inglese, certamente era lo yiddish a popolare i loro sogni, la notte. Quanto a me, mi insegnarono solo e soltanto l’ebraico: forse per paura che la padronanza di tante lingue esponesse anche me alle seduzioni della letale Europa” che li aveva cacciati. “Ebrei andatevene in Palestina!” si leggeva sui muri. Né più né meno di quando, qualche decennio dopo, sugli stessi muri, apparve chiara la scritta: “Ebrei fuori dalla Palestina!”.Fania è una lettrice infaticabile, finché ha l’energia per farlo, finché non si riduce a stare tutto il giorno (e la notte) seduta davanti alla finestra, con una tazza di the che le si raffredda in mano e gli occhi spalancati, come avviene negli ultimi, terribili tempi: “I libri non ti abbandoneranno mai” diceva ad Amos, il quale, ad un certo punto, sogna addirittura, di poter diventare da grande un libro, per difendersi dalle angosce della vita. Certo, i libri possono anche essere bruciati, com’era accaduto tante volte nella storia, ma “è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna….in qualche piccola sperduta biblioteca”.
Nella speranza di superare il trauma per la morte della madre, complice il fatto che il padre aveva contratto, poco tempo dopo, un nuovo matrimonio e rimosso, almeno in apparenza, il ricordo della moglie, ma, soprattutto, per diventare membro di quella “una nuova razza di ebrei-eroi, in confidenza col buio” (che abitava oltre i Monti di Tenebra), guidava il trattore e conosceva l’arabo, sulla quale aveva favoleggiato tante volte, Amos, a quattordici anni e mezzo, lascia Gerusalemme e si trasferisce nel Kibbutz di Hulda, dove cambia il proprio cognome da “Klausner” a “Oz” , che significa “forza” o “coraggio”. “ Il kibbutz sarà la sua casa per un trentennio; fino al 1986. Il nuovo ambiente del kibbutz è vivo e palpitante; e anche quelli furono per lui anni di letture vastissime, grazie anche all’aiuto di Sheftel, il bibliotecario e futuro suocero, uomo dal cuore d’oro e appassionato di canto. Amos deve pure confrontarsi con il problema irrisolto del rapporto conflittuale tra Ebrei e Arabi. A tale proposito viene riportato un colloquio rivelatore avvenuto con Efraim Avneri, poco prima della campagna del 1956, durante un turno di guardia al kibbutz, a proposito delle ragioni degli uni e degli altri. Questo grande poema o affresco si apre e si chiude, in omaggio alla circolarità dell’ebraismo, in due ambienti tanto modesti quanto alto è il sentire dei protagonisti: il minuscolo appartamento, zeppo di libri, a piano terra nel quartiere di Kerem Abraham della famiglia Klausner e la semplice abitazione di zia Haya a Tel Aviv, in cui Fania decide di congedarsi dal mondo.L’ultimo capitolo è dedicato alla morte di Fania. E’ di altissima intensità; una sinfonia, col canto della capinera Elisa sullo sfondo. Valgono per Fania le parole di “zia” Rauha -la missionaria finlandese, amica dei genitori; uno dei personaggi c.d. secondari del romanzo, che meriterebbero tutti un commento a parte-: “Un’anima tormentata, la pace sia su di lei……vedeva nel cuore degli uomini, e quel che vedeva non era facile per lei accettarlo.” L’ultimo paragrafo -con l’emblematica annotazione finale: Arad, dicembre 2001- è da brivido. Sarebbe irrispettoso commentarlo. Bisogna leggerlo e rileggerlo.
Mara Marantonio, http://www.mara.free.bm/; http://www.italiaisraele.free.bm/

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