giovedì 18 settembre 2008


Introduzione a E. Benamozegh, Storia degli esseni, Marietti, Genova-Milano 2007.

«Duemila anni dopo l’inizio della grande diaspora che è seguita alla distruzione del Secondo Tempio, per la prima volta si fa udire una voce che si riaggancia al tempo dei profeti ebrei. Dopo la lunga parentesi di questa notte diasporica, riprende il tempo in cui i profeti ebrei parlavano simultaneamente in ebraico per Israele e nelle settanta lingue per le nazioni. Dopo un’eclisse di un secolo, ecco che Elia Benamozegh è di nuovo presente, nostro contemporaneo nel cuore di questo problema, tenuto conto dei due grandi eventi storici che ha presagito e al di fuori dei quali il suo messaggio non sarebbe stato possibile: la restaurazione della società ebraica da un lato e la riabilitazione del discorso cabbalistico dall’altro. Ai suoi tempi parlare di Ebraismo e di Qabbalah significava profetizzare nelle tenebre».(1)
Le parole con le quali Rav Léon Askénazi (1922-1996) (2), un grande maestro sefardita del XX secolo, rende omaggio a un grande maestro sefardita del XIX secolo aprono gli occhi sulla portata dell’impresa iniziata da Benamozegh intorno al 1860. In quell’anno infatti l’«Alliance Israélite Universelle» aveva bandito un concorso con il quale chiedeva di esaminare quali fossero gli elementi che l’ebraismo aveva trasmesso alle religioni che l’avevano seguito. Benamozegh si mise all’opera e nel 1863 spedì a Parigi un manoscritto intitolato Essai sur l’origine des dogmes et de la morale du christianisme (3). In quegli stessi anni egli teneva “a un’eletta schiera di giovani livornesi” un corso triennale di lezioni che venne poi pubblicato con il titolo Storia degli esseni (4).
Negli esseni egli intravedeva “i predecessori della buona nostra Teologia”(ossia della Qabbalah) e nella loro storia “una fonte ricchissima di elementi atti a spiegare l’origine del cristianesimo”. Ma per cercare di capire il significato della sua opera occorre fare un passo indietro e avvicinarsi agli anni di formazione del giovane Benamozegh.
Perduto ben presto il padre, Avraham, Elia era stato allevato dalla madre Clara e dallo zio Yehudah Coriat, un cabbalista proveniente da Fez, in Marocco. Vi erano stati collegamenti molto importanti tra Livorno e il Marocco. Si pensi a Hayyim ben Atar (1696-1743) che vi insegnò per più di un anno nel 1739 prima di pubblicare Or ha-hayyim, il suo commento alla Torah, e di andare a fondare la sua Yeshivah a Gerusalemme. Egli ha nel mondo sefardita un’importanza pari a quella che il Baal Shem Tov (1700-1760) ha nel mondo aschenazita. Di famiglia marocchina era anche Hayyim Azulai (1724-1807), un cabbalista che trascorse a Livorno gli ultimi trent’anni della sua vita. Lo stesso Benamozegh nella Introduzione al Berit Avot di suo cugino Avraham Coriat (Livorno 1862) sottolineava con forza il suo legame con la Tradizione marocchina: «Questa è dunque la Tradizione alla quale ho l’onore di ricollegarmi: questa Tradizione sviluppa le sue radici nel Maghreb, e non ha mai conosciuto interruzioni: i padri hanno acquisito dei meriti per i figli, e lo studio non si è mai spento nelle loro bocche». (5)
Insieme allo zio Yehudah lesse per ben due volte lo Zohar, un’opera che fu dunque di fondamentale importanza nella sua formazione. Occorre tenere presente che vi è uno speciale rapporto tra lo Zohar e la città di Livorno, dal momento che in quella città furono fatte cinque edizioni dell’opera tra XVIII e XIX secolo. Lo stesso Elia, che nel 1839 a 16 anni aveva già debuttato come scrittore firmando l’Introduzione a un’antologia di scritti cabbalistici scelti dallo zio (6), insieme a S. Leoni e Y. Millul pubblicò un’edizione dello Zohar nel 1851. (7)
Ora, è proprio lo Zohar ad attribuire uno straordinario significato a quegli anni: «Nel 600° anno del 6° millennio [l’anno 5600 corrisponde all’anno 1840] le porte della conoscenza della Torah si apriranno dall’alto simultaneamente alle porte della conoscenza dal basso». (8) Questo ci fa capire in quali orizzonti Benamozegh inserisse la sua attività di quegli anni.
Non va inoltre dimenticato che egli partecipò alle vicende del Risorgimento e salutò con entusiasmo la nascita del Regno d’Italia e le nuove possibilità che essa apriva agli ebrei italiani con l’estensione dello Statuto Albertino.
2. Prima della scoperta dei rotoli del Mar Morto conoscevamo gli esseni solo grazie a Filone, Flavio Giuseppe, Ippolito e Plinio.(9) Sapevamo che essi conducevano una vita filosofica: ripudiavano i piaceri come un male e cercavano la virtù nel resistere alle passioni, disprezzavano la ricchezza e vivevano in ammirevole vita comunitaria, ciascuno dava ciò di cui disponeva a chi ne aveva bisogno e riceveva ciò di cui necessitava. Uomini, e donne, capaci di dominare l’ira, costruttori di pace (così li definisce Flavio Giuseppe) che non temevano la morte e credevano nella resurrezione dei corpi. La loro giornata vedeva l’alternarsi di lavoro e preghiera, immersioni nel miqweh e partecipazione alla seudah, il pasto comunitario nel quale la mensa simboleggia l’altare, anticipazione del banchetto al quale parteciperà la coppia messianica formata dal Kohen, che per primo pronuncerà la benedizione sul pane e sul vino, e dal Re Messia.
Generazioni di studiosi erano stati affascinati dal loro genere di vita, sorpresi dalle affinità con il cristianesimo e sconcertati dalla contraddittoria presenza di questi “cristiani prima di Cristo”(10).
Nella primavera del 1947 un giovane pastore beduino di nome Mohammed inseguendo una pecorella smarrita scopre in una grotta nei pressi di Qumran rotoli di pergamena manoscritti, accuratamente avvolti in tela di lino, sigillati con bitume e riposti in giare di argilla.
E’ iniziata da allora un’avventura che ha trovato una prima conclusione con la pubblicazione e traduzione in molte lingue dei testi principali. (11) Complessivamente si tratta di circa 15.000 frammenti di circa 850 manoscritti, composti tra il III sec. a.e.c. e il I sec. e. c. In prima approssimazione, e utilizzando criteri anacronistici, possiamo dire che si tratta di testi di tre tipi: biblici, apocrifi o psedoepigrafi, settari o comunitari.
Alla fine del 1951 ebbe inizio la prima campagna di scavi diretta da De Vaux e Harding e per la prima volta si iniziò a mettere in relazione quelle rovine, che fino ad allora non avevano destato l’interesse di nessuno, da un lato con i manoscritti e dall’altro con gli esseni di cui parlavano le fonti antiche.
Come ha osservato Lawrence Schiffman, per un mondo che ancora stentava a rimettersi in piedi dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah sembrò quasi una nuova rivelazione. L’interesse principale fu in primo luogo rivolto a quello che i manoscritti potevano dire di nuovo sulle origini del cristianesimo e «i mass media e il pubblico ebbero seri problemi a distinguere la spesso sottile differenza tra l’uso dei rotoli per illuminare il background della Cristianità – una impresa accademica legittima e necessaria – e la confusa lettura dei rotoli come testi cristiani». (12) Solo in un secondo tempo i testi vennero recuperati alla storia dell’ebraismo, sottolineandone p. e. l’importanza per l’evoluzione della Halakhah, poiché contenevano una legislazione che precedeva di due secoli la redazione della Mishnah. (13)
(Essendo il testo molto lungo, sul blog viene riportato solo parzialmente. Chi volesse l'intero scritto, può farmene richiesta, grazie nr )

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