venerdì 30 maggio 2008

deserto del Neghev - parco Golda
Biografia di Moshe Bejski

L’infanzia in Polonia, la Shoah e l’incontro con Schindler
Moshe Bejski nasce nel villaggio di Dzialoszyce, in Polonia, nei
pressi di Cracovia, il 29 dicembre del 1920. Cresciuto nell’ambiente
ebraico, sente fortemente il peso dell’antisemitismo polacco e,
ancora adolescente, aderisce a un movimento sionista che organizza
il trasferimento in Palestina dei giovani ebrei polacchi per la
costruzione di una nuova patria nella terra promessa. Poco prima
dell’invasione tedesca del 1939 deve rinunciare al suo sogno
sionista a causa di una grave malattia al cuore, che gli impedisce di
partire insieme ai suoi compagni. Nel 1942 tutti gli ebrei vengono
internati. La famiglia Bejski è smembrata: Moshe, insieme ai fratelli
Uri e Dov, finisce nel campo di lavoro di Plaszow, reso tristemente
famoso nel film di Spielberg Schindler’s List per il suo comandante
sadico, Amon Goeth, che si divertiva a usare i prigionieri come
bersagli di un allucinante tiro a segno dalla finestra della sua
camera da letto. I genitori e la sorella, invece, vengono fucilati sul
posto. Moshe riesce ad eludere la sorveglianza delle guardie durante
un turno di lavoro fuori dal campo e cerca invano rifugio presso i
vicini di casa polacchi, i cui figli sono stati, fino al giorno prima,
suoi compagni di scuola e di giochi. Solo un fattorino, suo collega di
lavoro in una ditta di Cracovia, gli offre ospitalità, pur in condizioni
molto disagiate e rischiose, ma anche in questo caso la curiosità
malevola dei vicini vanifica l’unico gesto di generosità di un polacco
verso un ebreo che Moshe abbia conosciuto. Costretto a ritornare
“spontaneamente” nel campo di Plaszow, dove ritrova Uri e Dov,
ottiene fortunosamente di essere inserito con loro nella famosa lista
della fabbrica di Oskar Schindler. In questo modo i tre fratelli Bejski
riescono a salvarsi e sono liberati dall’Armata Rossa nel maggio del
1945. Scoprono la tragica sorte dei genitori e della sorella e
decidono di emigrare in Israele: la Polonia, ormai, non è più la terra
a cui ritornare, ma solo il paese dell’antisemitismo e della
persecuzione del loro popolo.
Moshe inizia una nuova vita nel luogo dei sogni che non aveva
potuto raggiungere da ragazzo. Il sogno sionista si infrange subito
contro la dura realtà: suo fratello Uri viene ucciso da un cecchino
palestinese il giorno del riconoscimento ONU dello Stato ebraico.
Il sogno di diventare ingegnere si scontra invece con le necessità
della vita quotidiana. Moshe è costretto a scegliere una facoltà che
gli permetta di lavorare per mantenersi agli studi e con molti
sacrifici si laurea in giurisprudenza, con una tesi sui diritti deuomo
nella Bibbia. Diventato uno dei più stimati avvocati di Tel Aviv,
sente tuttavia il dovere di sostenere lo Stato d’Israele appena nato e
sceglie la carriera di giudice, fino ad occupare, alla fine degli anni
Cinquanta, l’incarico più prestigioso, di membro della Corte
Costituzionale.
Il processo Eichmann e la Commissione dei Giusti
Moshe Bejski ha lasciato alle spalle il passato in Polonia, di cui non
vuole più parlare. Nessuno conosce la sua storia drammatica e tutti
lo considerano un sionista giunto in Palestina prima della
persecuzione nazista, se non addirittura nato in quella terra.
Solo nel 1961, durante il processo Eichmann, i suoi amici ne
scoprono la vera origine. Chiamato dal pubblico ministero Hausner
a testimoniare sul campo di Plaszow, Bejski fornisce un racconto
sconvolgente di quell’esperienza e trasmette al Tribunale la
sensazione drammatica dell’impossibilità di comunicare il senso di
disperazione e di impotenza dei prigionieri in quelle circostanze.
Per la prima volta in Israele viene alla luce il profondo disagio dei
profughi dell’Europa sopravvissuti alla Shoah, incapaci di inserirsi e
di farsi accettare da una popolazione che li considera con
sufficienza e li accusa, tra le righe, di vigliaccheria o di non essersi
saputi ribellare ai nazisti. Si apre un grande dibattito nel paese,
fomentato anche dall’intervento polemico della filosofa tedesca di
origine ebraica, Hannah Arendt, fuggita in America negli anni ’30, e
finalmente si affrontano i problemi legati alla storia degli ebrei
nell’Europa del Novecento.
Acquisisce la giusta notorietà il Mausoleo di Yad Vashem, eretto a
Gerusalemme a perenne ricordo delle vittime della Shoah e viene
finalmente messo in pratica il punto 9 della sua legge istitutiva del
1953, con il quale lo Stato d’Israele di impegnava a rendere omaggio
ai non ebrei che avevano salvato delle vite ebraiche, concedendo
loro la sua onorificenza più alta, il titolo di Giusto tra le Nazioni.
Viene istituita la Commissione dei Giusti, con il compito di condurre
le inchieste per accertare gli atti di salvataggio e stabilire a chi
assegnare il riconoscimento. Ne diventa presidente il più famoso
giudice d’Israele, Moshe Landau, che aveva diretto il processo
Eichmann, redigendone la sentenza di condanna a morte. Landau
tuttavia lascia presto l’incarico e propone la candidatura di Bejski,
che lo sostituirà nel 1970, mantenendo la presidenza fino al 1995,
quando darà le dimissioni. Nel frattempo, quasi diciottomila Giusti
sono stati insigniti e hanno piantato un albero nel viale a loro
dedicato a Yad Vashem per ricordarne il gesto. Oggi Moshe Bejski,
ormai in pensione, vive a Tel Aviv occupandosi dell’educazione dei
ragazzi, a cui trasmettere la conoscenza della storia della Shoah e le
riflessioni che la sua esperienza gli ha suggerito.
L’eredità
Il ruolo di Moshe Bejski nell’attività della Commissione dei Giusti è
stato decisivo. Mentre Moshe Landau pensava a un organismo che si
occupasse di pochi casi emblematici, Bejski ha ribaltato questa
posizione, con la volontà di attribuire il titolo a tutti coloro che
avevano espresso l’intenzione di andare in soccorso a un ebreo
perseguitato, anche se non erano riusciti a salvarlo o lo avevano
fatto senza correre il rischio della vita. Per il nuovo presidente della
commissione, non era necessario essersi comportati da eroi per
ottenere il riconoscimento. Il gran numero di casi segnalati a Yad
Vashem dimostrava che vi era stato un reale coinvolgimento di
molte persone, di gente comune, nel tentativo di strappare gli ebrei
allo sterminio. Far conoscere le loro storie significava sfatare il mito
che l’opposizione al nazismo fosse un’impresa quasi impossibile, che
non ci fosse la possibilità concreta di aiutare i perseguitati senza
correre rischi estremi. Molte volte sarebbe bastato un piccolo
intervento per impedire una grande tragedia. Ecco perché è
importante valorizzare e rendere pubblico ogni gesto di opposizione
che si è manifestato a favore degli ebrei nell’Europa occupata dai
nazisti.
Per ottenere questo risultato Bejski non si è risparmiato: vi ha
dedicato i suoi anni migliori, rinunciando a gran parte della sua vita
privata, trattenendosi fino a tardi per dirigere le riunioni della
commissione dopo le giornate intense di lavoro alla Corte
Costituzionale. La sua attività, del tutto volontaria, ha saputo
coinvolgere e trasmettere entusiasmo agli altri membri,
allargandone le competenze, creando le sottocommissioni per poter
affrontare più casi, sostenendo il dibattito interno senza mai
rinunciare a indagare fino all’ultimo elemento utile per una
valutazione corretta e leale.
I dilemmi che si è trovato di fronte sono stati enormi: come
giudicare chi ha salvato un ebreo, ma dopo la guerra ha ucciso un
altro uomo, o la donna che ha nascosto dei perseguitati mentre si
prostituiva con gli ufficiali nazisti, o chi ha salvato decine di ebrei in
Polonia senza tuttavia venir meno alle sue convinzioni antisemite, o
ancora, chi ha aiutato ricevendo in cambio del denaro?
Non solo. L’idea della responsabilità personale, del debito morale
dei sopravvissuti, di gratitudine verso chi li aveva salvati, ha spinto
Bejski a occuparsi in prima persona del suo salvatore, Oskar
Schindler. Dopo averlo ritrovato all’inizio degli anni ’60 e averlo
strappato dalla bancarotta e alla prigione in Germania, lo ha
invitato in Israele e si è impegnato strenuamente per il
riconoscimento della sua azione, costretto a scontrarsi con la ferma
opposizione di Landau, fino all’apoteosi del film di Spielberg, che lo
ha reso famoso in tutto il mondo. Oltre a Schindler, Bejski si è
impegnato ad aiutare altri Giusti che vivevano in condizioni
precarie nei paesi dell’Europa Orientale o che avevano bisogno di
assistenza medica e ha condotto una dura battaglia per ottenere
l’impegno dello Stato israeliano nei loro confronti.
Moshe Bejski ci lascia una preziosa eredità. La sua ricerca dei Giusti
ci ha insegnato che si può intervenire contro il Male, con un atto di
Bene, anche senza diventare martiri; che si può aiutare un
perseguitato con un semplice gesto, purché si abbia la spinta morale
a farlo; che non esistono barriere, né di etnia, né di religione, né di
credo ideologico o politico, quando si mette l’uomo al centro del
proprio mondo di valori. Infine ci ha dimostrato che il modo
migliore per salvaguardare l’esempio dei Giusti è di sentirci noi
tutti, in prima persona, responsabili verso di loro, come loro si sono
sentiti responsabili verso degli altri esseri umani.
Raccogliere l’eredità di Moshe Bejski significa ripercorrere la sua
strada, per valorizzare i Giusti di ogni parte del mondo, dovunque e
ogni volta che sono stati perpetrati dei genocidi o altri crimini
contro l’umanità.
da Solange

Nessun commento: