lunedì 21 dicembre 2009












Frank: tra ossessione e leggerezza . Ebrei del Novecento

Jean Michel Frank, cugino di Anna, fu uno dei più grandi interior-decorator del Novecento, un maestro di stile che rivoluzionò il gusto di un secolo. Una mostra a Parigi oggi gli rende omaggio "Mi piacerebbe che gli artisti, sempre di più, partecipassero alla creazione delle case e del loro design. Il risultato sarebbe qualcosa di vivo, di profondamente legato ai nostri tempi”. Siamo nel 1914, e a pronunciare queste parole è Jean Michel Frank, forse uno dei più grandi designer e decoratori d’interni del Novecento. Con queste parole Frank pensava soprattutto ai set teatrali e alla sintesi di tutte le arti postulata da Sergej Diaghilev e dai suoi Balletti russi, veri capolavori alla cui realizzazione avevano partecipato Picasso, Derain, Matisse, Braque e che avevano lasciato un segno indelebile nella sua giovane immaginazione. Dopo questa esperienza, per tutta la sua breve vita (1895-1941), Jean Michel Frank chiederà ad amici come Alberto Giacometti, Salvador Dalì e altri, di disegnare dei mobili apposta per lui e per le case che via via concepiva, destinate all’aristocrazia e all’alta borghesia di Parigi, New York e Buenos Aires. A ripercorrere quella che è stata l’avventura estetica di uno dei più grandi maestri dell’interior design del secolo scorso, vissuto tra le due Guerre mondiali, cugino di Anna Frank, figura tormentata e infelice di ebreo in fuga dall’Europa incendiata dal nazismo e dall’antisemitismo, arriva oggi una mostra (Parigi, fino al 3 gennaio, Fondation Pierre Bergè e Yves Saint Laurent, 5 Av Marceau, tel. 0144316431, www.fondation-pb-ysl.net), che ne ricostruisce gli ambienti, i decori, lo stile e la vicenda umana, tracciando la storia di quella che fu la “rivoluzione Frank” in fatto di gusto. Di fatto, quello che Coco Chanel rappresentò in termini di sovvertimento dei linguaggi della moda e del look delle donne, Frank lo è stato per le case e l’interior decoration: la sua fu una concezione che coniugò il senso del bello al confort, l’arte dell’abitare con una lussuosa semplicità, l’enfasi sul non-colore (“esistono seimila tonalità di beige!”, diceva), con linee semplici e squadrate di oggetti, sedie, divani, armadi, tutti ricoperti di materiali preziosi, nuovissimi e mai usati fino allora.Dal travertino al galuchat, e poi gomma, paglia intrecciata, pergamena, gesso, lacca, avorio, mica, grafite, zigrino, terracotta, fino alla pelle delle poltrone trattata in modo unico da un artigiano che allora si chiamava Hermès. Il suo gusto innovò integralmente lo stile degli interni. Nel 1921 i suoi primi clienti furono gli amici di sempre: gli scrittori Pierre Drieu La Rochelle, Louis Aragon, Jean Cocteau, il milieu surrealista, tutti innamorati della sua estetica del vuoto e della riduzione. Una visione, per l’epoca, di implacabile modernità. Non dimentichiamoci che durante gli anni Venti e Trenta, Parigi fu il crocevia del mondo, il fonte battesimale delle avanguardie storiche: Balthus e Chagall, De Chirico e Klee, Ernst, Mondrian, Mirò, Luis Bunuel e il suo film L’Age d’or... La svolta nella carriera di Frank avviene con la progettazione nel 1926-27 dei salons di Marie Laure e Charles de Noailles a Parigi. Fotografati da Man Ray all’indomani dall’inaugurazione, quegli interni diventeranno il suo biglietto d’ingresso nel tout Paris, ciò che farà conoscere al mondo intero lo “stile Frank”.Come meravigliarsi quindi se diventa il beniamino dei più grandi couturier dell’epoca? Iniziano a chiamarlo praticamente tutti. Marcel Rochas, Guerlain, ma soprattutto Elsa Schiapparelli che sarà l’artefice della sua fortuna mondana con la richiesta di inventargli lo stile dell’appartamento di boulevard Saint Germain. È a questo punto che il bel mondo impazzisce letteralmente per Frank, per l’audacia dei suoi divani porpora, le sedie scarlatte e le librerie bianche sormontate da pennacchi dorati... Fino a oggi: non a caso, gran parte della sua riscoperta, la si deve, in tempi più recenti a Yves Saint Laurent e Giorgio Armani.Ma quali furono i cardini della sua “rivoluzione”? In linea con l’ultima generazione di storici, va detto innanzitutto che Frank, contrariamente alla vulgata corrente, non era un minimalista. Il suo “lusso ascetico”, la sua “estetica della rinuncia” (la definizione è di Francois Mauriac), la passione per le linee pure e per un certo geometrismo, non ne fanno un apostolo del gusto minimal e nemmeno quel maestro dell’understatement, come fu percepito per decenni. “Il bianco e il beige erano i suoi colori preferiti. La verità è che la sua creatività non rientra in schemi rigidi e codificati: di fatto mio zio adora mescolare gli stili”, scrisse nel 1935 Alice Frank, sua nipote, ricordandone la boutique aperta nel 1938 con il socio Adolphe Chanaux in Rue du Faubourg Saint Honorè 140. Dal 1928 al 1941, successo e creatività esplodono. Crea divani dalla cremosa consistenza di un guanto di pelle, piccoli armadi rettangolari ricoperti di pelle di pescecane. Per lui gli amici inventeranno gli oggetti più folli: Salvador Dalì disegna nel 1938 il canapè Labbra in velluto rosso ispirato alla bocca di Mae West, la lampada in legno ricoperto da foglie d’oro Dalì.Trasversalità, pensiero laterale, capacità di connettere cose e stili lontanissimi tra loro. Per alcuni questo fu il tratto ebraico di Frank e insieme la cifra dei suoi interni, fatta di spoliazione e di sontuosa essenzialità, un lusso sobrio, una tensione al vuoto tipico degli ambienti sinagogali, quel vuoto assoluto del Kodesh-haKodashim.Quanto alla biografia, la sua vita è avvolta da un alone noir, spesa tra futilità e mistero, solitudine e sfrenate feste mondane. Terzo figlio del banchiere Leon Frank e di Nanette Loewi (figlia di un rabbino di Filadelfia), la tragedia lo colpisce in piena Prima Guerra Mondiale, nel 1915, con la morte dei due fratelli maggiori. Essendo ebrei di nazionalità tedesca, quindi nemici, i suoi genitori sono agli arresti domiciliari mentre i due fratelli maggiori, nati francesi come lui stesso, combattono al fronte per la “patria”. Una beffa atroce. Con la morte sul campo di battaglia dei due figli, distrutto dal dolore, il padre Leon si suiciderà subito dopo. Una scia di sangue che non lascerà mai Jean Michel, sempre in lotta con la depressione tanto da avere sempre al fianco due psicanalisti. Ancora una volta, sarà un’altra guerra a decidere del destino di Frank. Iniziate le persecuzioni antisemite, da protagonista del bel mondo, Jean Michel si vede precipitare nella condizione di rifiuto della società. Nel 1939 chiude l’atelier, fugge dalla Francia per l’Argentina e poi per New York. Sconvolto da quanto sta succedendo agli ebrei d’Europa, ossessionato dai ricordi dei fratelli e dal suicidio del padre, si getterà da un grattacielo di Manhattan l’8 marzo 1941. Di lui resta fino ad oggi questo melange unico di leggerezza e rigore, sogno e poesia, l’eleganza impareggiabile di un dandy ebreo impegnato a creare una nuova armonia per le case del XX secolo.Fiona Diwan http://www.mosaico-cem.it/

Nessun commento: