venerdì 28 maggio 2010


Il premier palestinese Fayyad spinge a boicottare i prodotti israeliani

Ramallah, dall'Intifada alla finanza

Premier palestinese Fayyad lancia il boicottaggio di prodotti israeliani «Una nuova resistenza: colpisce i nemici e giova ai nostri mercati»
LUCIA ANNUNZIATA, 28/5/2010, http://www.lastampa.it/
RAMALLAHA Hebron, l'ultima fabbrica di kefiah, il leggendario copricapo a scacchi neri e bianchi dei Palestinesi sta per chiudere. L'ultima fabbrica di kefiah soccombe lentamente davanti alla Cina che ha invaso il mercato di kefiah stampate invece che cucite a mano. D'altra parte l'economia della Palestina è cresciuta, nel terribile anno scorso, del 7%, non male per un Paese che non ha nemmeno sovranità nazionale. Su questa transizione fra identità frantumate e globalizzazione, all’inizio dell’ennesimo giro di colloqui fra Israele e Autorità Palestinese, cerca di spiccare il salto verso la leadership nazionale della Palestina un uomo che non è né di Hamas, né di Fatah, che non viene dai ranghi di nessuna delle Intifade precedenti, un tecnocrate, ex Banca Mondiale, di cui Obama, come dicono qui, «parla come delle sue figlie ». È il primo Ministro Salam Fayyad, che sta lanciando un’Opa sul futuro del suo popolo con un programma innovativo, di grande incertezza, che si può racchiudere in una sola fase: trasportare i Palestinesi dal mitra alle regole del Fondo Monetario. Che questo uomo abbia successo o meno, il tentativo basta a illustrare a che bivio si trovi la politica della Cisgiordania. Val la pena di cominciare, nel racconto di questa fase, dalla più recente iniziativa presa dal Primo Ministro. Tre mesi fa il governo dell'Autorità Palestinese ha lanciato un boicottaggio dei beni di consumo prodotti negli insediamenti israeliani. Si sottolinea qui insediamenti, perché il commercio con lo Stato di lsraele è legale in quanto riconosciuto dagli accordi internazionali fin qui firmati. Gli insediamenti invece sono illegali e sono infatti oggi il principale oggetto del contendere. Sono ormai 177 e hanno fiorenti attività, il cui maggiore mercato è proprio la Cisgiordania araba nel cui fianco sono collocati. Non si parla di piccole cifre. Il ragionamento del governo di Fayyad è conseguente: se illegali sono i territori, rendiamo illegali i loro prodotti. Una campagna che è partita, per altro, in vari Paesi europei. C’e un apposito istituto, Karameh, fondato dal governo per guidare e implementare questa campagna: il fondo iniziale per la sua attività è stato di 1,5 milioni di dollari, raccolti in buona parte dal settore privato. La battaglia non è esattamente di principio. Se il commercio di Israele con gli ex Territori è preponderante, con 2 miliardi annui, quello degli insediamenti vale comunque 500 milioni di dollari annui. In più in queste città ebraiche in Palestina lavorano almeno circa 25 mila arabi, in condizioni di illegalità. Gli insediamenti producono di tutto, come si vede da un pamphlet stampato da Karameh, per far riconoscere alla popolazione i prodotti da sabotare: frutta, latte, computer, telefonini, mobili e, soprattutto, materiale di costruzione. I negozi arabi vengono visitati a uno a uno dagli ispettori di Karameh, ogni settimana ci sono grandi fuochi per distruggere il materiale sequestrato, dove in giacca e cravatta si affaccia regolarmente anche il Primo Ministro, che fa il suo simbolico lancio. Ci racconta Ghassan Khatib, stretto collaboratore di Fayyad e suo portavoce: «L'idea è quella di trovare un differente modo di fare resistenza. Invece delle armi, noi abbiamo individuato protesta pacifica, che si intrecci con lo sviluppo delle strutture del nostro futuro Stato». La protesta «è legale, in quanto non contro Israele, ma può far male agli insediamenti. Nel frattempo questo boicottaggio apre nuove opportunità al nostro settore privato, che ha così modo di sviluppare il mercato interno». Questo è il progetto di Fayyad. Uscire dalle secche della vecchia resistenza armata, e fare una politica che, anche nella protesta, aiuti il progetto di «costruzione dello Stato», cioè delle infrastrutture nazionali: «Case, banche, strade, servizi, fogne, questo programma da oggi fa della Palestina un grande cantiere con grandi opportunità per tutti». Ma è anche un’idea politica, dice ancora Khatib: «Quando lo Stato sarà pronto, chi potrà negarcelo? La comunità internazionale certo ci aiuterà». Ma è realistico, questo approccio? E' popolare? Soprattutto, è condiviso dai partiti politici, Fatah - per non dire Hamas? Qui si arriva al vecchio serpente palestinese, quello strisciante istinto alla divisione, allo scontro interno, che da sempre divora e paralizza la politica di questo popolo. Prima forse val la pena guardare all’efficacia delle cose fatte da Fayyad e alla sua biografia, per capire bene in che contesto si muove il dibattito politico in corso. Il Primo Ministro, nato nel 1952 vicino a Tulkarem, si laurea all'Università americana di Beirut, prende un Mba all’Università di Austin, Texas, insegna in Giordania, viene chiamato alla Banca Mondiale (1987-1995) e poi, fino al 2001, è il rappresentante palestinese al Fondo Monetario. Quando torna nei Territori, come direttore della Arab Bank, la seconda Intifada è già finita, lui non ha nessun cursus honorum nella «causa»,ma se ne trova ben presto uno, in una maniera che dice molto su come funziona la politica qui. Quando, tra il marzo e il maggio del 2002, Arafat è messo sotto assedio, Fayyad va a trovarlo, come molti altri - ma a differenza degli altri rimane con lui per tutto il tempo, unico della società civile a fare questo gesto. La mossa è fruttuosa. Un Arafat che alla fine del suo regno è messo sotto pressione dalle critiche delle organizzazioni internazionali sulla corruzione e la mancanza di trasparenza nel suo governo, sceglie proprio il direttore di Banca per mettere ordine nella casa finanziaria palestinese. Da allora Fayyad ha mantenuto il ruolo di Ministro delle Finanze in quasi tutti i governi, spesso attaccato dalla sua stessa parte politica, certamente attaccato da Hamas, che lo considera un filoamericano. Primo Ministro brevemente nel 2007 dopo la rottura con Hamas, è oggi di nuovo in carica dal 2009. Per il suo insediamento il congresso americano ha dotato l’Autorità Palestinese di 200 milioni di dollari. In cambio Fayyad ha presentato il suo programma di ricostruzione dello Stato Palestinese, secondo le regole del mercato e delle autorità internazionali, come il Fondo Monetario. Aggiungono in coro i suoi amici e nemici, «visto che il Presidente Abu Mazen è un vero debole, oggi Fayyad è il solo uomo che conta in Palestina». Val la pena però di andare a vedere se la ricetta di Fayyad sta funzionando. Lo stato delle cose ci viene illustrato da Jihad Al Wazir, Governatore della Banca Centrale Palestinese, istituzione nuovissima, la cui solo esistenza è in sè la prova delle novità. La Banca Centrale non ha ancora questo nome (ufficialmente è Autorità Monetaria Palestinese) perché lo Stato Palestinese non esiste, ma nello studio impeccabile del Governatore si vedono già alle pareti le bozze della nuova moneta nazionale. Forse si chiamerà «pound palestinese», dice, come durante il Protettorato Britannico. Al Wazir ci parla subito del suo primo intervento: il consolidamento delle banche, passate da 50 a 19 in un anno, e il microcredito aperto nelle zone rurali. Per quanto riguarda la crescita economica, i dati forse più rivelatori riguardano il rapporto nella formazione del bilancio dello Stato fra donazioni e attività produttiva: «Nell'ultimo anno questo rapporto ha visto scendere il peso delle donazioni del 30%, compensato dal contributo locale ». Questo significa che c’è business e che lo Stato è in grado di organizzare la raccolta delle tasse. L’altro risultato è la formazione di ranghi statali: oggi la Palestina ha 160 mila dipendenti, comprese le forze di sicurezza. «E la sicurezza, come si sa - dice il Governatore - è il prerequisito per ogni investimento». Queste cifre si riflettono bene in un solo sguardo alla capitale, Ramallah. Un ex villaggio divorato oggi da un incredibile boom di grattacieli, palazzi di uffici, condomini di lusso, nuovi quartieri, caffè e locali vari, che le hanno meritato la fama di «piccola città che non dorme mai». Proprio uno di questi locali, «Pesto», dove si riunisce la borghesia locale, ci conferma l’ottimismo della comunità economica Samir Huleileh, executive manager di Padico, la «Palestine development and investiment Company» che fa a capo a Munib Masri, il più ricco arabo dei Territori. Huleileh è un giovane cresciuto nella politica palestinese, e la sua approvazione prende subito questa angolazione: «Il vero passo avanti che Fayyad ci ha fatto fare è la riconciliazione fra politica e affari. Per lungo tempo in Palestina le due cose erano in contrasto. Non per ragioni morali, ma politiche: fare affari, agli occhi della Resistenza, ha sempre significato mettere in secondo piano la lotta per l'indipendenza nazionale». Spiega Mahdi Abdul Hadi, direttore dell'istituto di studi Passia, e forse l'analista più sincero degli affari interni del Paese: «Nella nostra politica si mischiano, e si condizionano, cinque elementi: Fatah, Hamas, la società civile, Abu Mazen e Fayyad. Il risultato finale uscirà dall'impatto di questi elementi fra di loro ». Il parere della politica su Fayyad, dice Mahdi, è questo: «Hamas considera il Primo Ministro un uomo degli americani, e su di lui ha posto il veto. Fatah non lo vede certo bene: ci sono troppe ambizioni per raccogliere l’eredità di Arafat, e ci sono ancora i vecchi signori dell’Olp che mantengono le loro zone di influenza, stanno a guardare Fayyad ma non si pronunciano». Uno dei potenziali competitor di Fayyad per l’eredità di Arafat è il nipote stesso del vecchio leader, uomo di Fatah, ex diplomatico a lungo in Usa, molto interno al partito, nonché presidente della Fondazione Arafat. Nasser Al Qudwa ci riceve nel suo ufficio, anche questo impeccabile e moderno. Dello zio ha solo le palpebre. Ma, a parlargli, si rivela erede anche dell'astuzia veloce. «Fayyad - dice - sta facendo uno straordinario lavoro da Ministro dell' economia, ma involontariamente, e sottolineo questo aggettivo, la sua posizione può offrire il fianco ai nostri nemici». Meglio detto: «La sua non è una posizione politica. La costruzione dello Stato va bene, ma non può venire prima della conquista dello Stato». È, insomma, la divisione fra politici e tecnocrati, con i primi che spingono per la supremazia delle «visioni» e gli altri che credono nell’inflessibile capacità delle regole e dei numeri. Forse, come spesso succede nella nostra società ai tecnocrati, si rivelerà presto che le intenzioni buone di chi maneggia i numeri sono buonemanon sufficienti a governare.

Nessun commento: