sabato 19 dicembre 2009


Rehovot Istituto Weizmann

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Mentre l’anno si approssima alla sua conclusione, e le festività cristiane si avvicinano, la nostra rassegna stampa, che pure si occupa di cose eminentemente ebraiche, non può non registrare il «pieno mediatico», ovvero il costante flusso informativo, che il ferimento del Presidente del Consiglio ha ingenerato nei nostri mezzi di comunicazione, occupando il proscenio collettivo per diverse giornate. Non è di nostra pertinenza il trattare la cosa in sé, soprattutto in quanto accadimento nei riguardi del quale si sprecano analisi e giudizi, e tuttavia un piccolo richiamo ci sia consentito nella misura in cui il fatto - e le sue infinite rifrazioni - si riverbera su altri campi, fuoriuscendo dall’ambito che gli è proprio per assurgere a evento-indice e fagocitare l’attenzione comune. Sulla scorta di questo meta-avvenimento, ovvero un qualcosa che impegna l’attenzione collettiva per intero, solleticando l’immaginazione comune, la parte restante delle notizie ha sofferto di un imbarazzato “declassamento”. Segnatamente, un risultato di questo genere lo si aveva già avuto più di un anno fa, sia pure con una vicenda dai contorni ben diversi rispetto all’aggressione ai danni di Silvio Berlusconi, con l’elezione di Barack Obama, salutata come un mutamento da molti, per poi scoprire, a distanza di poco tempo, che una parte della sua fortuna, tributatagli ripetutamente dalla carta stampata, è essa stessa il prodotto di una costruzione mediatica, così come segnala in un ampio dossier l’Internazionale, da oggi in edicola. La rassegna stampa, quindi, un po’ ne risente, non avendo troppo da segnalare (ma comunque molto da dire). Quattro sono stati i temi che, tra gli altri, hanno accompagnato la nostra settimana, sfogliandone i giornali: la vicenda domestica, poiché tutta italiana, degli insulti antisemiti, pronunciati ripetutamente in un mercato romano alla volta di una commerciante di origine ebraica; la tempesta diplomatica ingenerata dalla notizia che un mandato di cattura sarebbe stato spiccato da uno zelante magistrato britannico contro Tzipi Livni, in ragione della responsabilità politica per le violazioni che si sarebbero consumate contro la popolazione di Gaza durante l’operazione «Piombo fuso»; l’annuncio, proveniente da Teheran, che l’Iran ha testato con successo un vettore missilistico, il Sajjil-2, capace di raggiungere Tel Aviv (non a caso richiamata come il target principale da parte dei radicali islamici, di contro a Gerusalemme, che è rimane al-Quds, «la santa»; così facendo, però, si avvalora, per parte della stampa nostrana, che riprende quella allocuzione che è ben lungi dall’essere neutra, l’affermazione per cui quest’ultima non sarebbe l’autentica capitale d’Israele, poiché assurta a tal ruolo illegittimamente); ancora dal triste paese dei pavoni, le minacce rivolte dalla leadership religiosa contro i dissenzienti e la promessa di un redde rationem quanto prima. A quest’ultimo riguardo, ovvero nel merito del discorso sul fenomeno dell’intolleranza sistematica nei paesi musulmani verso qualsiasi forma di pensiero non omologabile, rimandiamo alla lettura di Giulio Meotti, sul Foglio, dove ci parla di quello che si afferma (e si fa) nella grande università cairota di al Azhar, fucina, tra l’altro, delle autorità religiose sunnite. Ciò che fino ad un certo punto è emerso in questi giorni sulla carta stampata nostrana è, invece, l’ennesimo logoramento che stanno subendo le relazioni diplomatiche e politiche tra Israele e i paesi dell’Unione Europea, dove i pronunciamenti di quest’ultima, proprio in merito al futuro di Gerusalemme, acuiscono le divergenze anziché smussarle. Uno dei punti i maggiore conflitto, aperto non solo con i palestinesi ma anche con una rilevante parte dell’Europa, è infatti lo status in divenire della città. Da certuni intesa come la capitale di due Stati; dagli altri rivendicata a sé esclusivamente; dagli israeliani, infine, difesa come la propria capitale. Su quale sia lo stato della situazione nei rapporti con l’Unione si soffermano sia Alberto Stabile, per la Repubblica, che Akira Eldar, per Haaretz. Francesca Marretta, su Liberazione, ci parla di un altro, non inedito capitolo della querelle che i paesi europei intrattengono, a fasi alterne, con lo Stato ebraico, quando si sofferma sulla “guerra delle etichette commerciali” in corso a Londra. I singoli episodi, a partire dal mandato di cattura contro la Livni, sono in realtà il tassello di un mosaico dove all’espressione «stallo negoziale» (la completa mancanza di iniziativa politica nel merito del processo di pace in Medio Oriente) si coniuga quella di «sfiancamento» delle relazioni diplomatiche. Le quali peraltro, nella storia più redente del Mediterraneo, non sono mai state troppo facili. Non di meno, un'altra vicenda che ha sofferto di una secca riduzione di attenzione è quella del destino di Gilad Shalit, dato alcune settimane fa come in procinto d’essere liberato, quanto meno in tempi relativamente stretti, e poi, per così dire, abbandonato a sé, se si fa l’eccezione, ovviamente, della stampa israeliana per la quale, segnaliamo oggi, l’articolo di Avi Issacharoff su Haaretz. Accenni ci sono infatti offerti solo da Benjamin Barthe su l’Express, dove si parla però del prezzo imposto per la liberazione di Shalit, ovvero la messa in libertà di Marwan Barghuti. Non deve sorprendere, peraltro, questo alternarsi di speranze a delusioni, perché, purtroppo, è parte stessa della strategia di Hamas il sottoporre i suoi interlocutori a docce scozzesi. Peraltro, la dilazione e i rinvii, oltre ad essere il prodotto di una volontà politica che cerca in tutti i modi di sfruttare, manipolandole, le opportunità di visibilità mediatica offerte dal prolungamento del rapimento, demanda anche alle oggettive difficoltà che il movimento islamista sta conoscendo in quello che aveva eletto a suo feudo. L’erosione del consenso sarebbe palpabile (certificata anche dai sondaggi compiuti dal Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah), malgrado le “oceaniche” manifestazioni inscenate nei giorni scorsi, in occasione del ventiduesimo anniversario della fondazione del movimento, per testimoniare, dinanzi ad una platea (ancora una volta mediatica) perlopiù araba e musulmana, la sua perdurante forza. In quella occasione, peraltro, il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha ribadito i capisaldi della dottrina radicale, a partire dal rifiuto di riconoscere ad Israele il diritto ad esistere. Probabile, quindi, che dinanzi allo scemare degli entusiasmi da parte di una popolazione, quella della striscia di Gaza, che vive i peggiori disagi derivanti dall’essere di fatto in ostaggio di questa fazione dell’integralismo politico e religioso, si possano registrare anche in un futuro molto prossimo ulteriori manifestazioni di violenza. Su quella che è la condizione di quella piccola porzione di terra si sofferma, con prevedibili accenti polemici nei confronti di Israele, Michele Giorgio per il Manifesto. Si faccia la tara dell’atteggiamento preconcetto che traspare, ancora una volta, dall’articolo e si vada al sodo dei dati: si capirà quanto sia avanzata la condizione di depauperamento degli abitanti e quanto ciò sia determinante nell’agevolare i radicali nelle loro fortune. Aggiungiamo ancora, per comune consapevolezza, che il 2010 sarà anno di elezioni in campo palestinese, sia per il rinnovo del Parlamento dei Territori (il Consiglio legislativo palestinese) sia per l’elezione del Presidente dell’Autorità nazionale. L’impossibilità di raggiungere un ragionevole accordo di medio periodo tra Hamas e il Fatah (dopo sette sessioni di discussione al Cairo l’ipotesi è definitivamente tramontata nel mese settembre) farà sì, con tutta probabilità, che le prossime tornate elettorali possano siano funestate da violenze. Per concludere, un po’ come d’abitudine il rimando ad una recensione, quella di Claudio Toscani su l’Avvenire, dedicata al libro di Antonio Stella sul razzismo e l’intolleranza ieri, oggi (e domani?). Claudio Vercelli http://www.moked.it/

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