lunedì 16 giugno 2008

Gerusalemme - le mura

UN DOCUMENTO DEL 1944
DOPO LA LIBERAZIONE DI ROMA

UNA MADRE RACCONTA LE TRAVERSIE IN ROMA OCCUPATA DAI TEDESCHI AL

FIGLIO CHE AVEVA COMPIUTO L’ALIA’ DA SOLO, SEDICENNE, QUATTRO ANNI PRIMA

La madre, autrice della lettera che pubblichiamo a 68 anni da quando fu scritta, è Fernanda Di Segni, sposata con Giovanni Sermoneta. Nacque a Roma nel 1901 ed è quivi morta nel 1967. Il figlio è Joseph Baruch Sermoneta (1924-1992), allora ventenne, divenuto poi professore di storia della filosofia ebraica e di storia della letteratura ebraica italiana all’Università ebraica di Gerusalemme. Baruch era partito per la Palestina, dopo le leggi antiebraiche, a soli sedici anni. I genitori rimasero a Roma con l’altra figlia, Rosetta, poi sposata con Bruno Ajò, la quale mi ha gentilmente autorizzato a pubblicare la lettera. Abitavano con loro, in via degli Scipioni 35 (quartiere Prati) i genitori di Fernanda, Amaddio o Amedeo Di Segni e Giannina Castelnuovo. I Sermoneta avevano un negozio di merceria in via del Leoncino, presso San Lorenzo in Lucina, in pieno centro. Trascorsero gli anni dal 1938 al settembre 1943, in un sereno meno peggio. Nel settembre morì Giannina, madre di Fernanda. Al dolore per la sua scomparsa si aggiunsero le preoccupazioni per le angherie degli occupanti nazisti a danno degli ebrei, finché all’alba del sabato 16 ottobre, il giorno della Juden Aktion, capitò il peggio. Suonò il campanello. Giovanni aprì la porta di casa e si trovò di fronte due soldati tedeschi, che gli misero in mano il foglio dell’ordinanza: vestirsi, fare sommariamente le valigie, portare con sé le vettovaglie disponibili in casa, e andare con loro. Giovanni mostrò invano le benemerenze di combattente della grande guerra, del resto combattuta contro di loro. Fecero loro scendere le scale e li fecero fermare fuori del portone, in attesa del camion, che passasse per portarli alla prima tappa della tragica sorte, il Collegio militare. Gente vicina e negozianti della via, che da sempre li conoscevano, vedendoli arrestati, fecero attorno a loro un capannello di compianto e di saluto. Altri passanti si aggiunsero e nel provvidenziale ritardo dell’automezzo, mentre si produceva una confusione, che distraeva i guardiani, qualcuno sussurrò ai quattro catturati di svignarsela. I nostri non se lo fecero consigliare due volte e osarono allontanarsi di gran lena, con passo spedito a cominciare dal sessantasettenne signor Amedeo. Voltato l’angolo, furono favoriti dalla sorte con un nuovo dono della provvidenza: un raro taxi di passaggio, su cui immantinente salirono e che rapidamente s’involò.
Sentii, fanciullo, la vicenda, pochi giorni dopo il fatto, dagli stessi protagonisti, essendo mio cognato Ettore Di Segni fratello di Fernanda, sicché condividemmo il rifugio, in un convento di suore sarde, in Trastevere, che è attuale sede della Comunità di Sant’Egidio. Ne ho scritto, con fotografia del sito, alle pagine 200 e seguenti della nostra XI annata. Poi, sfuggendo a una delazione, ci si divise in diversi nascondigli.
La scrittrice Rosetta Loy, venutane a conoscenza, ha incontrato Rosetta Sermoneta e ha raccontato fedelmente il fatto nel bel libro La parola ebreo, Torino, Einaudi 1997, pp. 132-135.
Fu un caso del tutto eccezionale nella tragedia del 16 ottobre, che rapì, tra i tanti, Riccardo Di Segni, fratello di Fernanda, con la moglie Rita Caviglia e la piccola Gianna, di due anni. Più tardi una delazione fece catturare la sorella Tosca, con il marito Gino Tagliacozzo: arrestati da italiani furono deportati dai tedeschi. Perciò la pronta generosità della gente di via degli Scipioni fu un po’ velata nel giudizio di Fernanda sugli italiani, dalla malvagità di altri. Ella giustamente scrisse che le perdite degli ebrei romani dopo la retata tedesca del 16 ottobre, nei successivi sette mesi, furono dovute soprattutto a italiani, sia delatori che polizia della Repubblica sociale.
Il 4 giugno 1944 fummo liberati dagli alleati e quindi, tra le difficoltà della guerra che continuava, si riattivarono le comunicazioni postali con la Palestina. Ecco dunque, alla pagina seguente, la lettera di Fernanda Sermoneta al figlio Baruch, che è una genuina testimonianza storica sulla tragedia degli ebrei di Roma sotto l’occupazione nazista. Testimonia, in primo luogo, la difficoltà che si ebbe, pur nell’angoscia per le angherie tedesche, di prevedere cosa gli occupanti preparassero dopo il ricatto dell’oro e la sottrazione della ricca biblioteca. Si prevedeva la possibilità di altre rapine, di saccheggi, per prepotente utilità economica, ma non la deportazione in massa e tanto meno l’annientamento fisico, in dimensione di genocidio. La deportazione in massa non aveva riscontro, ella correttamente osserva, nella memoria degli ebrei romani, che molto dovettero sopportare nella miseria del ghetto, ma radicati, sedentari, raccolti su un territorio, nella città nativa. La logica umana delle vittime non stava al passo con quella metodicamente distruttiva del nazismo. Fernanda doveva pensare al fratello Ettore (e a noi con lui) quando scrisse che prima del 16 ottobre qualche pessimista si era allontanato dalla propria casa, ed infatti non venivamo molto compresi per quella salutare prudenza. Dopo la liberazione, parlando dei parenti deportati in luoghi ignoti e impossibilitati a comunicare, stava tra la speranza e il dubbio che tornassero. Al confronto con il terrore vissuto nei nove mesi dell’occupazione nazista, il giudizio sui primi anni della persecuzione è più che pacato, quasi di sorprendente nostalgia, se non fosse stato per la lontananza del figlio: “Posso dire che siano stati anni buoni”. Lo furono, nell’immediata retrospettiva, al confronto dell’incubo che è seguito. Lo furono nell’ involucro privato di una vita di famiglia e di lavoro, e, vorrei aggiungere, di semplice certezza identitaria, non scossa dall’ ostilità politica e dalle contumelie di regime.
La continuazione pacifica del quotidiano andamento, senza impatto di violenze e di odio da parte della gente comune, le consentiva di non badarci. L’atteggiamento dei vicini nella strada, con l’aiuto alla fuga, sembra dimostrarlo. Un alleviamento penso fosse dovuto al tipo di lavoro, non avendo ella subito direttamente il trauma della cacciata da impiego, studio o professione. Una spiegazione del giudizio sereno su quegli anni sta nel non volere angustiare troppo il figlio e nell’aver quindi limitato le note tristi agli ultimi nove mesi, davvero tremendi. La madre, con ciò, conteneva il suo stesso duolo e misurava la valutazione degli anni addietro, alle spalle del periodo tragico. Scriveva che il lavoro, rimedio sovrano, attutisce qualunque pena. La pena ci era stata, ma sopportabile e compensabile in confronto a quel che venne poi. Tuttavia il senso dell’estraneità dalla nazione italiana circostante, che ella espresse al figlio, si era fatto strada in quegli anni, pur ancora vivibili, di esclusione, e maturò soprattutto nella prova fatta delle vili delazioni e degli arresti operati da italiani, dopo la retata del 16 ottobre. Ella rilevava una massiccia ripresa di arresti, per opera dei fascisti, in febbraio, basandosi su ciò che avvenne a parenti, ma probabilmente fu un andamento generale, che può spiegarsi con il senso di impunità dei fascisti in seguito allo stallo degli alleati dopo lo sbarco ad Anzio. I delatori denunciavano, la polizia della Repubblica sociale arrestava e i tedeschi facevano poi il lavoro di morte. Fu una delazione a far prendere la sorella Tosca con il marito, e un’altra delazione obbligò i Sermoneta, insieme con i miei, a lasciare il convento di cui dicevo, presso Ponte Sisto. A fronte dei delatori è consolante il riconoscimento che molti sono stati benigni con noi e resta sempre valida l’attestazione sull’accoglienza nei conventi, ascritta allo stesso Vaticano, come generalmente si riconobbe all’indomani della liberazione.
Il fatto che si stesse particolarmente attenti a non far uscire gli uomini, dopo che si era visto deportare anche donne, vecchi, bambini, dipendeva dal timore delle generali retate di uomini per il servizio obbligatorio del lavoro e per ricerca dei renitenti alla leva. La lettera è ricca di introspezione e di esame autocritico. Si noteranno comprensibili oscillazioni nello stato d’animo e sul da fare per il ricongiungimento familiare, tra la prospettiva dell’aliah e quella della permanenza in Italia, questa povera Italia, in cui, dopo i tormentosi eventi, non riconosceva più la patria: Tutto apparentemente tornerà come prima, ma tutto è diverso da prima. Manca alla lettera la data, ma il paterno augurio di Giovanni per il nuovo anno, 5705, la colloca nel settembre 1944. Tra parentesi quadre sono alcune note informative redazionali.

______________________


LA LETTERA DI FERNANDA SERMONETA

Carissimo figlio,
è giunta oggi la tua del 4/8/44. E’ la lettera che aspettavo da quattro lunghi anni, e quasi sembrava impossibile dovesse più giungere. Eppure è arrivata, portando a noi tanta parte di te quasi da sentirti vicino. Ci siamo tutti commossi, e le tue parole nostalgiche hanno acuito il desiderio di rivederti. Da tanto desideravo un così ampio racconto di come si è svolta la tua vita in questo tempo! Finalmente il mio desiderio è stato soddisfatto e ho gioito nel sapere che non sono stati tempi troppo duri per te e che forse hai trovato la strada che più ti piace.
Cinque lunghi anni sono passati da quando sei partito. In questo tempo mi sono domandata più volte come ho potuto mandarti lontano, specialmente io che avevo per te quell’affetto morboso che forse è stato la causa della tua partenza. Prima che lasciassi la tua casa, incerta se acconsentire, mi affidai un po’ alla fatalità che guida spesso i miei atti, pregai il Signore che ti guidasse, mi affidai alla sua volontà. E’ stato un bene o un male? Vorrei saperlo da te. In questi anni hai occupato un posto recondito nel mio cuore, ti ho pensato sempre con vivo desiderio di averti vicino, di seguirti nel cammino della tua adolescenza, e il rimorso di non aver fatto per te il mio dovere di madre mi ha amareggiato sempre, ed ha fatto di me con il mio carattere già triste e scontroso, un essere senza energia, senza volontà, con la paura di sbagliare ad ogni mossa!
Non parlavo quasi mai di te, non facevo né progetti né intuizioni, non dicevo mai ‘come sarà diventato?’ A che scopo? Per me tutto si era fermato al giorno dell’ultima lettera. Non vi era da dir nulla, da far nulla, questa terribile guerra era come un baluardo fra noi, mentre [nulla] si poteva saper di vero. Soltanto pregavo il Signore che ti guardasse perché Lui solo era in potere di farlo. Sembra che il filo della corrispondenza, che si era spezzato, si riallacci di nuovo per giungere alla definitiva unione.
Voglio dirti anche io con povere parole come sono trascorsi per noi questi anni. So che sei ansioso di sapere e vorrei dirti tutto a voce, avendoti vicino. Purtroppo questo ultimo anno è stato per noi quasi terribile, ma voglio raccontarti con ordine. Le ultime notizie ti mancano dal giugno del ’40. Fino all’agosto del ’43 posso dire che siano stati anni buoni, nulla ci è mancato materialmente né moralmente. La vita è trascorsa calma, tranquilla, una vita di lavoro, che mi ha tenuto sempre occupata tra casa e negozio. Quel lavoro, rimedio sovrano, che fa dimenticare ed attutisce qualunque pena. In questi anni abbiamo avuto parentesi di riposo, durante l’estate qualche viaggetto, villeggiature. Per due inverni ho accompagnato Rosetta a sciare in Abruzzo.
Il nostro lavoro ci ha dato abbastanza soddisfazioni. La vita politica ci lasciava indifferenti, nessuno ci ha mai dato noia. I nostri parenti vivevano tranquilli, i tuoi zii e le zie trascorrevano la vita di pacifico lavoro.
Nel settembre del 1941 sono nati Gianfranco a zio Ettore e Gianna a zio Riccardo. I nonni vivevano tranquilli presso di noi. Tutto questo, come per incanto, è cessato l’8 settembre 1943. Non vorrei darti un dolore così grande, ma ti considero un uomo, la vita ci riserva il bene e il male, per questo bisogna essere forti. Due giorni dopo che i nazisti occuparono Roma, e precisamente l’11 settembre, la tua povera nonna fu colpita da un nuovo attacco di paralisi, come già ebbe nel ’39, ricordi? Dopo 8 giorni il Signore l’ha ripresa con sé, se ne è andata serenamente, senza soffrire, senza accorgersi di morire, con il volto sereno, atteggiato ad una grande pace. Il Signore è stato benevolo con lei, le ha risparmiato i grandi dolori che avrebbe dovuto soffrire.
E’ sembrato che con la sua scomparsa fosse volato l’angelo benefico che proteggeva la nostra famiglia. Ma il destino non è stato cattivo soltanto con noi. Centinaia di nostri correligionari piangono oggi tanti loro cari lontani.
Subito si manifestò la ferocia nazista per tutti. Dopo 15 giorni si delineò apertamente per noi. Furono richiesti alla Comunità Israelitica 50 chili d’oro da consegnarsi in poche ore, pena uomini in ostaggio. Con grandi sacrifici furono contentati. Qualche giorno dopo trasportarono via la ricca antica biblioteca dell’Università Israelitica. Tutti gli ebrei vivevano in ansia, la minaccia era sospesa sul capo di tutti. Credevamo peraltro in un saccheggio di negozi, rapine nelle case di oro, argento, biancheria. Quasi nessuno pensava all’atrocità che doveva avvenire. Qualche pessimista si era allontanato dalla propria casa [si veda il volume Roma, 16 ottobre 1943 Anatomia di una deportazione, a cura di S.H. Antonucci, C. Procaccia, G. Rigano, G. Spizzichino, Milano, Guerini, 2006, pp. 23-24].
Fu il 16 ottobre che si compì quell’azione così selvaggiamente inumana che non ha riscontro nella memoria degli ebrei italiani. Nelle prime ore del mattino vennero prese a viva forza dai nazisti, nelle loro case, famiglie intere, vecchi, malati, bambini, Purtroppo fu così anche per zio Riccardo, zia Rita e la piccola Gianna [si veda il Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion, ed. Mursia, pp. 179, 241, 243]. Di mattina alle sei furono portati via dalla loro casa e non abbiamo saputo più nulla, puoi immaginare il nostro dolore! La stessa sorte subì zio Prospero, la moglie e i due figli [Libro della memoria, p. 546]. Gli altri tuoi zii e zie e famiglie furono per allora tutti salvi.
Riguardo a noi accadde un miracolo! Se oggi possiamo scrivere, parlare con te, devi ringraziare il Signore, che non ha voluto subissimo la stessa sorte. Pensa che dopo averci preso di mattina alle sette, riuscimmo a fuggire aiutati dalla folla. Forse la tua povera nonna era morta per salvarci a tutti e quattro. Certo, con lei così sofferente, non saremmo potuti fuggire. A noi alle volte sembra un sogno! Papà in una prossima sua ti racconterà i particolari della nostra fuga. Abbiamo trascorso otto mesi, dall’ottobre ai primi di giugno, nascosti, senza lavorare, abbiamo cambiato alloggio più volte, case di amici e soprattutto suore ci hanno accolto. Il Vaticano ha aperto le porte dei suoi conventi a noi e a tutti i perseguitati; molti sono stati benigni con noi. Abbiamo trascorso giorni calmi ed anche giorni agitati. I primi mesi sembrava che dopo l’atto così inumano nessuno ci desse noia, anzi erano tornati molti anche nelle proprie case. Fu ai primi di febbraio ’44 che ricominciò la persecuzione più spietata e questa volta da parte dei fascisti, di spie, di persone conoscenti. Zia Tosca e zio Gino furono presi e fatti partire per un campo di concentramento di Modena, dove hanno scritto due volte, poi più nulla [furono nel campo di Fossoli. Per Gino Tagliacozzo, deceduto in prigionia dopo il giugno 1944, si veda il Libro della memoria, p. 577. Tosca sopravvisse, fu lasciata dai tedeschi in ritirata il 21 aprile 1945 a Theresienstadt, dove il 9 maggio giunsero le truppe russe liberatrici]. Gli ultimi di marzo nel medesimo modo arrestarono zio Amedeo [Libro della memoria, p. 544] zio Angelo [nel Libro della memoria risulta catturato il 16 ottobre 1943] e Benedetto, il figlio di zia Eleonora [Giuseppe Benedetto Fiano, figlio di Eleonora, che era la sorella di Giovanni Sermoneta, arrestato il 3 maggio 1944, un mese prima della liberazione e morto a Mauthausen il 26 febbraio 1945, Libro della memoria, p. 267].
La vita degli ultimi tempi era diventata impossibile. Da per tutto si vedeva l’insidia. Nessuno e specialmente gli uomini non uscivano più. I quattro ragazzi di zia Tosca, tre dei quali erano in collegio [al Collegio Nazareno] sono ora con noi, cioè Umberto con zio Ettore, Fausto con zia Bianca, Sergio [Sergio Tagliacozzo è stato presidente della Comunità di Roma] con la zia Amedea, il piccolo Armando con noi. Per fortuna questi mesi di terrore sono finiti. Ci siamo ritrovati salvi ed in buona salute, ma con il dolore vivo per il pensiero dei cari lontani che chissà se rivedremo più. Ora ci stiamo riorganizzando, abbiamo aperto negozio già da tre mesi, fra qualche giorno torneremo a casa, che era stata occupata da sfollati. Tutto apparentemente tornerà come prima, ma tutto è diverso da prima. Sebbene ora godiamo perfetta libertà ed abbiamo ripreso il nostro lavoro, ci sentiamo qui quasi estranei. Sentiamo che questa non è la nostra patria. Sentiamo che dobbiamo formarla laggiù dove sei tu, dove dovrebbero andare gli ebrei di tutto il mondo. Noi ci sentiamo diversi. Vediamo tra questa gente, tra questi italiani, tante di quelle spie che hanno contribuito alla rovina dei nostri in quel fatale periodo. Non sappiamo più distinguere i buoni dai cattivi. E poi come sarà il futuro di questa povera Italia, e per noi? Ora il nostro desiderio sarebbe venire da te.
Il mio in particolare è di avere una piccolissima casa con un pezzetto di terreno, vivere tranquilla con la mia famiglia unita. Vorrei condurre una vita modestissima di lavoro. Sarà possibile? Credo di no, perché nella vita tutto ciò che si desidera non viene mai raggiunto, neanche le cose più semplici. Tuo padre è entusiasta di venire costì, grazie a Dio non ha perduto il suo bell’ottimismo, e tre mesi di lavoro nell’orto di un convento [intitolato al Cardinale Angelo Mai, in via dei Serpenti, notizia data da Rosetta], dove si era rifugiato negli ultimi tempi, hanno fatto di lui un perfetto agricoltore. Rosetta verrebbe volentieri con noi. Vedi dunque che saremmo pronti a partire anche subito, tutto dipende da te, se vedi per te un avvenire in Palestina, se a te piace star lì, se non hai la nostalgia della tua casa di qui, delle tue abitudini di ragazzo del paese dove sei nato, noi ti raggiungiamo volentieri. Al contrario, ti dico: torna. Anche qui, sorpassando idee, pregiudizi, si può vivere tranquillamente di commercio, professioni, ecc. Noi faremo tutto quello che tu vorrai. Devi dirci: o torno o venite. Per noi è uguale. Tu stai lì e sei vissuto qui, puoi sapere dove sarà l’avvenire migliore. L’importante è riunirci. Se approvi la nostra venuta in Palestina, pensa subito a facilitare i certificati per la nostra partenza. Tutto questo anche per zio Ettore, zia Marina, Gianfranco e Anna. Ora smetto, mi sono dilungata troppo e ti ho dato troppo brutte notizie. Speriamo di riunirci al più presto e che i cari lontani ritornino. Ti bacio e abbraccio tanto, grazie per la tua bella lettera a cui speriamo ne seguiranno altre,
Mamma


PS: Riceviamo ora la tua del 15.8.44. Stai tranquillo per noi, stiamo benissimo, non ci manca nulla, prendi pure la strada che preferisci, continua a studiare e non ti preoccupare per noi. Saluti, mamma
Santa benedizione e baci, papà, e buon anno.-- I Sermoneta partirono per la Palestina con la grande aliah dall’Italia del marzo 1945, raggiungendo Joseph Baruch. Tornarono con lui in Italia alla fine del 1946. Facemmo entrambi i viaggi insieme. Baruch fece privatamente gli studi liceali, conseguendo la maturità, quindi si laureò brillantemente in filosofia all’Università di Roma, e tornò in Eretz Israel con la moglie Maia Jenni Minerbi. E’ morto nel 1992. La moglie e i figli vivono In Israele, dove pure vive uno dei figli di Rosa, Michele, rabbino in yeshivah a Bené Beraq, la cittadina dove la mia famiglia abitò insieme con i Sermoneta.
da "Il Tempo e l'idea" Hazman Veharaion





4 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto interessante!

Chicca Scarabello ha detto...

...grazie al materiale fornitomi. Grazie

Avv. Amedeo Di Segni ha detto...

Ho letto con estremo interesse la lettera perché, per me ha un valore storico e familiare: sono Amedeo Di Segni, oggi avvocato in Roma, nipote dell'omonimo citato nella lettera e figlio di Ettore Di Segni.
Brutti tempi quelli ma a consolare la solidarietà di tanti che hanno saputo essere vicini.

P.S.
Sarebbe simpatico su questo blog poter postare fotografie, rivedere quella di nonno Amedeo, di zia Fernanda e di mamma e papà che non ci sono più.

Chicca Scarabello ha detto...

Gentile avvocato Di Segni, sarà un gran piacere per me postare le foto che lei mi invierà accompagnate da un suo commento. Come però avrà letto, durante l'estate non aggiorno il blog, quindi rimandiamo per l'autunno. Mi scriva pure a questo indirizzo. viaggisraele@yahoo.it.

Chicca Scarabello