Tra poche settimane l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si riunirà in congresso; tra gli argomenti più importanti c’è una possibile riforma dello statuto che ridefinisce Consiglio e Giunta, ripensa i rapporti con il rabbinato, riforma la legge elettorale nelle comunità di Roma e Milano. Al momento si discute soprattutto sul primo punto, per via della consueta diatriba tra le «grandi» e le «piccole» comunità. Vorrei a questo proposito sottolineare tre aspetti.Primo. Parlare di comunità grandi e piccole come se fossero un monolite rischia di essere fuorviante. Mentre a Roma e Milano la competizione elettorale sempre più politicizzata acuisce divisioni e contrasti, e rende così difficile l’elaborazione di un obiettivo comune, nelle realtà più piccole i problemi sono spesso assai specifici e dunque difficilmente condivisibili con altre realtà.Secondo. I soldi garantiti dall’otto per mille non sono un patrimonio degli ebrei italiani. Sono una spia del rapporto tra la nostra minoranza e la società circostante: non a caso i dati delle dichiarazioni dei redditi forniscono un quadro interessante e complesso. In molte aree di Italia prive di comunità ebraioche vi sono numeri significativi di persone che scelgono l’UCEI, mentre, per esempio, a Roma la quota è sensibilmente più bassa. Il primo problema per un leader ebreo è di ampliare complessivamente il gettito dell’otto per mille, ovvero di migliorare il rapporto tra ebrei e società. Solo in un secondo momento ha senso discutere della ripartizione.Terzo. Uno degli argomenti «contro» le piccole comunità è che queste siano ormai piene di monumenti e prive di ebrei. In alcuni casi purtroppo è vero. Ma siamo sicuri che sia questa la prospettiva da assumere? Un ebraismo italiano senza piccole comunità potrebbe ancora definirsi «italiano»? I rapporti tra istituzioni ebraiche e istituzioni civili non sarebbero compromessi da una riduzione del numero delle comunità, poniamo, del cinquanta per cento? In un discorso di sistema – che dovrebbe valere anche sul piano della comunicazione, del peso politico, della diffusione di idee e valori – l’interazione tra comunità grandi e piccole è fondamentale, e in questa direzione sembrerebbe andare la proposta di riforma. Una divisione di campanile è deleteria, tanto più che anche Roma e Milano, purtroppo, non sono poi così grandi.Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
mercoledì 22 settembre 2010
kibbutz Baram
Qualche domanda aspettando il Congresso
Tra poche settimane l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si riunirà in congresso; tra gli argomenti più importanti c’è una possibile riforma dello statuto che ridefinisce Consiglio e Giunta, ripensa i rapporti con il rabbinato, riforma la legge elettorale nelle comunità di Roma e Milano. Al momento si discute soprattutto sul primo punto, per via della consueta diatriba tra le «grandi» e le «piccole» comunità. Vorrei a questo proposito sottolineare tre aspetti.Primo. Parlare di comunità grandi e piccole come se fossero un monolite rischia di essere fuorviante. Mentre a Roma e Milano la competizione elettorale sempre più politicizzata acuisce divisioni e contrasti, e rende così difficile l’elaborazione di un obiettivo comune, nelle realtà più piccole i problemi sono spesso assai specifici e dunque difficilmente condivisibili con altre realtà.Secondo. I soldi garantiti dall’otto per mille non sono un patrimonio degli ebrei italiani. Sono una spia del rapporto tra la nostra minoranza e la società circostante: non a caso i dati delle dichiarazioni dei redditi forniscono un quadro interessante e complesso. In molte aree di Italia prive di comunità ebraioche vi sono numeri significativi di persone che scelgono l’UCEI, mentre, per esempio, a Roma la quota è sensibilmente più bassa. Il primo problema per un leader ebreo è di ampliare complessivamente il gettito dell’otto per mille, ovvero di migliorare il rapporto tra ebrei e società. Solo in un secondo momento ha senso discutere della ripartizione.Terzo. Uno degli argomenti «contro» le piccole comunità è che queste siano ormai piene di monumenti e prive di ebrei. In alcuni casi purtroppo è vero. Ma siamo sicuri che sia questa la prospettiva da assumere? Un ebraismo italiano senza piccole comunità potrebbe ancora definirsi «italiano»? I rapporti tra istituzioni ebraiche e istituzioni civili non sarebbero compromessi da una riduzione del numero delle comunità, poniamo, del cinquanta per cento? In un discorso di sistema – che dovrebbe valere anche sul piano della comunicazione, del peso politico, della diffusione di idee e valori – l’interazione tra comunità grandi e piccole è fondamentale, e in questa direzione sembrerebbe andare la proposta di riforma. Una divisione di campanile è deleteria, tanto più che anche Roma e Milano, purtroppo, non sono poi così grandi.Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
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