venerdì 16 maggio 2008

Rehovot - Istituto Weizmann
I CANTORI D’ISRAELE

Sono arrivati numerosi da Israele per festeggiare il sessantesimo anniversario della costituzione dello Stato ebraico.
Gli scrittori israeliani hanno accolto l’invito degli organizzatori della Fiera del Libro di Torino testimoniando con la loro presenza la vitalità e la straordinaria ricchezza di una letteratura che può essere autobiografica, collettiva o militante, in ogni caso capace di offrire al lettore una pluralità di voci e chiavi di lettura molto differenti l’una dall’altra.
Scrittori e scrittrici, alcuni sabra cioè nati in Israele spesso da genitori sfuggiti alla Shoah, altri giunti nella Terra promessa dalla Russia, dalla Polonia, dal Marocco, ognuno di loro ha condiviso con un pubblico numeroso accorso ad ascoltarli, la propria esperienza sia di narratore, sia di cittadino di un paese che dopo sessant’anni deve ancora lottare per vedere riconosciuto il proprio diritto ad esistere.
Quanto più l’immagine di Israele ci arriva attraverso i canali dell’informazione canonica, televisione e quotidiani, appiattita su stereotipi, pervasa di pregiudizi, priva di specificità umane, ancor più la conoscenza della sua letteratura assurge ad un ruolo di primaria importanza.
Gli incontri si sono susseguiti senza sosta e le tematiche e i filoni affrontati hanno spaziato dall’identità ebraica, al ruolo della letteratura, dalla ricchezza della lingua al ruolo delle donne nella letteratura ebraica e nella vita, dalla complessa realtà politica e sociale, alla difficoltà di confrontarsi ogni giorno con la minaccia del terrorismo e con la memoria della Shoah.
Gli stili linguistici e le tecniche narrative sono le più disparate: dai romanzi surreali di Etgar Keret e di Orly Castel Bloom a quelli di ambientazione sefardita di Sami Michael, per arrivare alla tragedia del terrorismo narrata nell’ultimo romanzo di Shifra Horn.
Se la guerra domina la narrativa di Ron Leshem nel suo romanzo d’esordio, “Tredici soldati” pubblicato in Italia da Rizzoli, Meir Shalev ci racconta una bellissima storia d’amore nel suo libro “Il ragazzo e la colomba”, un romanzo che commuove profondamente.
Lo stesso Erri De Luca afferma che leggere l’ultimo libro dello scrittore israeliano è stato come “gustare una gioia con l’intelligenza del cuore”. La lingua per Shalev è molto importante: in ebraico si può usare una frase della Bibbia oppure lo slang dei giovani ed essere perfettamente compresi.
Le donne della sua famiglia, forti, basse e muscolose come lui, erano narratrici eccezionali che hanno molto influenzato la sua narrativa e hanno passato il testimone da una generazione all’altra.
Per Orly Castel Bloom autrice di “Parti umane” e di “Dolly City”, pubblicati da e/o, il rapporto con la realtà è mutevole. La scrittura è un modo per evadere dalla realtà complessa che la circonda, anche se recentemente ha scelto di scrivere in modo più realistico, di avere approccio diretto e immediato con la quotidianità.
Quando suo figlio è nato quindici anni fa era sicura che non sarebbe mai andato a fare il militare perché in Israele ci sarebbe stata la pace; ora che mancano solo tre anni a quell’appuntamento non è più sicura di nulla. “Vivere in un paese dai confini incerti, minacciato dall’Iran – dice Orly Castel Bool - ti rende consapevole che Israele è davvero il laboratorio dell’ignoto e uno scrittore spesso scrive per non diventare pazzo”.
La pensa così anche Shifra Horn autrice di romanzi appartenenti al realismo magico e di “Inno alla gioia”, pubblicati da Fazi, un libro nel quale il tema del terrorismo entra in maniera prepotente. Per Shifra è più facile scrivere della realtà che la circonda perché vive per sei mesi all’anno in Nuova Zelanda e da là prendendo un certo distacco dagli accadimenti politici può scrivere più facilmente senza lasciarsi prendere da alcun tipo di propaganda, nonostante il conflitto e la difficile convivenza fra israeliani e palestinesi.
Una delle meraviglie della letteratura israeliana è di essere una patria per tutti, dove non vi sono confini e ognuno si sente a casa. Ne è convinta Savyon Liebrecht, scrittrice israeliana fortemente segnata dal trauma dello sterminio nazista in quanto figlia di sopravissuti.
Appartiene alla generazione successiva, a quella dei figli che ha conosciuto il silenzio dei genitori e che vive il rapporto con la lingua in maniera diversa da come l’hanno vissuta sia gli scrittori degli anni cinquanta - come Smilansky o Agnon, il Dante della letteratura israeliana - sia quelli degli anni sessanta che scoprono il dramma del conflitto arabo israeliano, come Amos Oz. Per Savyon Liebrecht la lingua utilizzata è quella della scuola, della vita quotidiana che non esclude lo slang dei giovani. Grande esperta dei segreti dell’animo umano, è una scrittrice dotata di grande pudore e la sua cifra narrativa è pacata e sofferta al tempo stesso.
Oltre alla Shoah i temi che affronta, non in maniera diretta però, sono quelli legati alla memoria: è attraverso operazioni simboliche che si confronta con il tema della rielaborazione del passato e dell’oblio.
Il problema dell’identità è molto presente nella vita e nell’opera di Sami Michael uno fra i più prestigiosi scrittori israeliani, nato a Bagdad nel 1926 e arrivato in Israele subito dopo la guerra di Indipendenza. I suoi romanzi, “Una tromba nello uadi” e “Victoria”, pubblicati dalla casa editrice Giuntina, riecheggiano le origini arabe e la sua dualità culturale e linguistica. Nei primi anni che ha vissuto in Israele si è occupato di idrologia e ha abitato in un quartiere arabo di Haifa che ha costituito lo sfondo per il suo primo romanzo pubblicato in italiano. L’ebraico che ha imparato arrivando in Israele si è infiltrato poco a poco nella sua pelle attraverso l’ascolto dei figli fino a quando una notte ha preso un pezzo di carta, una penna e ha scritto la sua prima frase in ebraico. Il libro che è scaturito si intitola “Uguali più uguali” e parla delle differenze esistenti nella società israeliana.
La capacità di identificarsi così bene nei personaggi femminili trae origine dalla sua infanzia. Cresciuto in una famiglia allargata si è accorto subito di una divisione netta fra uomini e donne, le quali erano costrette a stare in disparte, considerate una sorta di cittadine di serie B. Il nonno, temendo per la sua virilità, gli impone di non giocare con le bambine e allora Sami si rende conto immediatamente che le bimbe sono non solo più belle e intelligenti, ma anche più furbe e raccontano storie interessanti; così ogni qualvolta gli è possibile contravviene all’ordine del nonno, giocando di nascosto con loro.
Per Sami Michael il razzismo più grande non è fra due popoli bensì fra uomo e donna.
“La scrittura per me è un sogno perché quando scrivo creo un mondo che mi appartiene” dice lo scrittore israeliano – un mondo che gli consente di avvicinarsi all’altro e di affievolire la paura dell’arabo presentandolo come una persona intelligente e colta non meno degli ebrei.
Dopo Sami Michael che ha compiuto 83 anni, è la volta di due giovani scrittori.
Il primo, Ron Leshem, è nato nel 1976 a Ramat Gan ed è autore di un romanzo forte, persino potente edito da Rizzoli, intitolato “Tredici soldati” che narra la storia di un gruppo di ventenni che a Beaufort, antica fortezza crociata ai confini con il Libano, si trovano a fronteggiare i colpi di mortaio di un nemico implacabile quanto invisibile proprio alcune settimane prima del ritiro. E’ quindi la guerra con le sue implicazioni politiche e sociali il tema dominante della sua narrativa.
Leshem ama molto scrivere, soprattutto di persone che non conosce, diverse da sé, di luoghi che non ha mai visitato ma dei quali è curioso. “Quello che cerco di fare – dice Ron Leshem – è distaccarmi da me stesso e svuotarmi completamente da tutto ciò che conosco per riempirmi di memorie diverse, svegliandomi come un'altra persona”.
Nel suo romanzo d’esordio lo scrittore ha cercato di scrivere una storia contro la guerra facendo passare questo messaggio attraverso un personaggio che inizialmente era a favore della guerra e solo alla fine crolla il muro del diniego.
“Ho voluto però anche evidenziare l’aspetto sociale di Israele” – continua Leshem – “e chiedermi, chi stiamo mandando a morire? Oggi il 35% dei giovani non svolge il servizio militare e in prima linea, a differenza degli anni passati, ci sono soprattutto i poveri e i nuovi immigrati che tentano in questo modo di salire i gradini della scala sociale”.
I contrasti fra le classi sociali, il ruolo dell’esercito nell’attuale società israeliana, la guerra del Libano sono le tematiche salienti che il lettore ritrova in un romanzo di forte impatto emotivo dove le voci discordanti e contraddittorie dei protagonisti trovano nel desiderio condiviso di difendere il loro paese una straordinaria armonia.
Di registro diverso è la narrativa di Etgar Keret, autore di racconti brevi e surreali come “Pizzeria Kamikaze” o l’ultimo “Abramkadabram”, pubblicati dalla casa editrice e/o.
I suoi racconti a volte pungenti, a volte ironici raccontano la vita in Israele per chi come lui è cresciuto fra high tech, musica, guerre, Intifade, kamikaze e tanta insicurezza.
Nei suoi racconti non manca il gusto della provocazione, un sarcasmo un po’ amaro, le ansie e la fatica del vivere quotidiano.
Keret scrive le storie che “vorrebbe leggere” e poiché è anche un lettore impaziente i suoi racconti sono brevi e immediati. Scrivo – dice Keret – per perdere il controllo, la scrittura per me è come saltare da una scogliera e le mie storie sono come un’eruzione vulcanica, un’esplosione che, inevitabilmente, non può durare a lungo”.
Ma per Keret la scrittura è anche un tentativo di dialogo, di mettersi in contatto con persone che forse non si conosceranno mai ed è la prova che esiste qualcuno con cui comunicare. Kafka è lo scrittore che più lo ha influenzato: “Per me leggere le storie di Kafka è come ricevere uno schiaffo in viso, però al termine riesco a vedere le cose in modo più autentico e vivido”.
Da alcuni mesi è uscito in Italia il suo film Meduse premiato a Cannes, un film che si situa a metà fra la fiaba urbana e il sogno. Fare cinema per Keret è affascinante perché è un’attività che porta a collaborare con gente diversa, mentre la scrittura è qualcosa di solitario. Se dovesse scegliere comunque non avrebbe dubbi: continuerebbe ad essere uno scrittore!
La letteratura - conclude Keret - non può risolvere i problemi ma può offrire conforto. “Non scrivo per cambiare il mondo, bensì per dare una speranza alle persone e per aiutarli a cambiare la situazione complessa e difficile in cui vivono.”
Con la loro presenza i “cantori d’Israele” hanno mostrato che la letteratura israeliana ha molte voci, a volte discordanti ma mai monotone e, se nel passato lo Stato ebraico aspirava ad essere una società omogenea e uniforme, ora sono le differenze e le culture multiformi ad essere celebrate.

La cultura è il più grande tesoro di ogni società, di ogni popolo. Ma non è soltanto una ricchezza nazionale di valore incalcolabile. È anche una ricchezza che si moltiplica, cresce e si trasforma costantemente grazie alla partecipazione ad essa di tutti. La posizione che un popolo occupa nel consesso mondiale, il ruolo che vi esplica dipendono essenzialmente dal valore della sua cultura e dalla sua capacità di irradiazione, oltre che dal modo in cui viene protetta e tutelata.
Concludiamo questo viaggio nel mondo dei libri con una frase di David Grossman che racchiude in se l’essenza e il ruolo della letteratura:
“Gli scrittori sono oggi i nuovi profeti d’Israele secondo l’accezione autentica del termine: messaggeri, araldi e anche portavoce dell’ebraico della diaspora che costituiva un legame interculturale, un ponte tra il mondo musulmano e quello cristiano. Questa lingua è tornata oggi a diffondere ampiamente il suo messaggio.
La letteratura e l’arte sono strumenti di dialogo e di pace”.
Giorgia Greco
Torino, 9 maggio 2008

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