giovedì 8 settembre 2011


Ho inciampato e non mi sono fatta male

“Io sono…”, dètta Miriam dalla cattedra ai suoi allievi. L’insegnante vuole conoscere la classe. Ma quella spinta a incoraggiare gli altri, diventa un urlo silenzioso per se stessa: “Io sono ebrea”.“Essere ebrea” rimane per Miriam come una vocazione latente, sotto traccia, per tutta la giovinezza. Fino all’ “inciampo” che la scuote, rendendola “testimone di seconda generazione”.Ho inciampato e non mi sono fatta male, un’opera prima di sorprendente vitalità letteraria, è la storia dell’autrice, Miriam Rebhun, ed è la storia di tanti.Della sua famiglia, di chi della sua famiglia ha conosciuto e di chi non ha conosciuto. Presenze importanti -quelle di mamma, nonno, zie zii, e assenze sofferte: Miriam non ha conosciuto suo padre, non ha conosciuto i suoi nonni paterni. Volti, caratteri, affetti, richiamati a nuova vita dalla scrittura affettuosa e ironica della figlia, della nipote, della moglie, della madre, dell’amica, ma solo aridi documenti e qualche sbiadita fotografia per l’orfana.Tre sono le città importanti della vita di Miriam: “Haifa, Napoli, Berlino”.A Haifa, nel 1948, si consuma la tragedia della fine del giovane padre berlinese,fuggito nella “terra promessa” per sottrarsi alle persecuzioni razziali della Germania nazista, approdato a Napoli con la Brigata ebraica, sposo di Luciana,madre di Miriam. Napoli è la vita di Miriam, nata dopo la guerra, nata quando la Shoah si è già consumata, la vita dell’infanzia, della giovinezza,della formazione, in una famiglia numerosa e “larga”, nel cortile di via Piedigrotta,sui banchi di scuola del “riscatto” del liceo. Negli ambiti rievocati, spiccano figure di rilievo. Molte. In ciascuna, Miriam, fine interprete della fisionomia,rintraccia motivi di positiva considerazione. Un po’ come fa nella vita.Guarda sempre il lato che è in luce, tralasciando l’ombra. Questa disposizione la rende allegra, spiritosa, “festaiola”, al centro di una cerchia di affetti, di amici, da ragazza come da donna. L’ha anche spinta a pensare che avrebbe potuto avere molto, conquistandolo, quando aveva poco, confidando in se stessa, studiando, lavorando, vivendo.La Napoli di Miriam è una città doppia. Vissuta nella laica vita di tutti i giorni e goduta nell’intimità della piccola comunità ebraica. Senza contraddizioni.Miriam sa appianare, Miriam ricerca in tutto l’armonia. Si può dire che sa conciliare gli opposti. Li sa far coesistere. Nei fatti quotidiani, come nelle scelte importanti. Sposa un cattolico e rimane ebrea. Battezza le sue figlie, che frequentano la comunità ebraica. Ama ciò che è misto, ciò che si mescola. Ne ravvisa la ricchezza. Un anticonformismo notevole, in cui cominciano ad aprirsi piccole falle. La consapevolezza di viaggiare su binari scostati l’ha sempre raggiunta, lasciandole vaghe inquietudini, presto rientrate. Il caso e la necessità la fanno però imbattere, con progressiva insistenza, in quella parte di sé rimasta in ombra. Riemerge dal passato Haifa, e s’affaccia come novità Berlino. Berlino, la città di suo padre, Berlino, la città dei suoi nonni. Berlino che custodisce i segreti della sua parte in ombra. Ed è a Berlino che Miriam si rivolge, convinta che a Berlino si scoperchino le tombe.Un lungo cammino di curiosità fatica dolore, sostenuto da studio, ricerca, intraprendente bussare a molte porte, ha come sbocco la riparazione della Memoria. Verso i congiunti “sommersi”, verso se stessa, un po’ più riunita,anche nell’adempimento del compito raccomandato dal rituale ebraico: “Lo racconterai ai tuoi figli”. Nella veste ormai compiuta di “testimone di seconda generazione”.Rosella Picech, Sullam n.77
Miriam Rebhun, Ho inciampato e non mi sono fatta male, L’ancora del Mediterraneo, 2011,

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