mercoledì 28 gennaio 2009

Sono stato un numero. Alberto Sed racconta


Roberto Riccardi Giuntina Euro 15,00
Per quante testimonianze sui campi di sterminio si possano leggere ogni nuovo racconto è un mondo a sé, un frammento di storia prezioso e irripetibile nella sua drammaticità.
E ogni volta la mente lacerata da quei ricordi dolorosi che i sopravvissuti trovano la forza di condividere con noi - attraverso il racconto orale oppure tramite le pagine di un libro – si pone la medesima domanda. Dov’era Dio? Dov’era l’uomo?Chissà quante volte se lo sarà chiesto Alberto Sed, ebreo romano deportato ad Auschwitz insieme alla madre e alle sorelle…eppure la sua testimonianza, dopo lunghi anni di silenzio, scritta da Roberto Riccardi – giornalista e tenente colonnello dell’Arma – è priva di odio nei confronti dei suoi aguzzini.
L’incapacità di comprendere il male inflitto e lo sconcerto dinanzi alle atrocità perpetrate dai nazisti rivelano un animo limpido e buono che si apre con gioia alla gratitudine verso coloro che, in un modo o in un altro, si sono prodigati per salvargli la vita.“Quale parola può descrivere ciò che l’uomo ha saputo fare all’uomo”?Alberto Sed ci è riuscito con la sua testimonianza scarna e diretta dove nessuna parola può essere adeguata a descrivere l’inferno dei campi di sterminio, ma rappresenta quel filo che si tende fra noi e i sopravvissuti.
L’infanzia per Alberto Sed termina bruscamente con la morte del padre e il successivo ingresso nel Collegio ebraico Pitigliani dove insieme alla sorella Angelica continuerà gli studi: un periodo della sua vita che ricorderà “fra i più felici” una volta arrivato ad Auschwitz, ma destinato a finire con l’avvento delle leggi razziali.I successivi mesi di difficoltà economiche e di sotterfugi per nascondersi hanno come drammatico epilogo l’arresto e la deportazione , il 16 maggio 1944, con l’unica colpa di essere ebreo.Alberto giunge ad Auschwitz con la mamma e le sorelle: “….per la mamma e la piccola Emma, otto anni, il destino si compì il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz. Appena scese dal treno erano finite nella fila di destra, quella della morte…”. Angelica e Fatina vengono destinate al lavoro e alle sofferenze della vita nel campo di sterminio. Solo la piccola Fatina di 13 anni riesce a sopravvivere perché la dolce e affettuosa Angelica, chiamata dai suoi cari “mani d’oro” per il talento nel ricamo, muore un mese prima della liberazione, sbranata dai cani delle SS che in una domenica di noia avevano fatto una scommessa sulla bestia più feroce.
A 15 anni Alberto è costretto ad imparare le dure leggi della sopravvivenza nel campo. Con l’aiuto di Tasca, un militare di Frascati, apprende i segreti per sfuggire alle selezioni, per procurarsi cibo, per tenersi alla larga dalle SS nei giorni di domenica quando”…le SS non hanno niente da fare…per divertirsi ti aizzano i cani contro”.Con i suoi occhi di ragazzo vede l’orrore quando un prete greco è ucciso barbaramente per aver indossato la veste talare nel giorno dedicato al Signore e conosce la disperazione più profonda quando una SS costringe un suo compagno a lanciare in aria un bimbo di pochi mesi per colpirlo “come fosse al poligono di tiro”.
Un episodio talmente sconvolgente per il giovane Alberto che avrà ripercussioni anche nella sua vita di uomo libero: da quel giorno non riuscirà più a prendere un bimbo in braccio.
“ Posso dargli la mano. In braccio no: mi assale la paura che qualcuno mi gridi di lanciarlo in alto….”Alberto è tenace e vuole vivere: il suo fisico robusto lo aiuta a sopportare il lavoro massacrante di trasportare massi, scavare canali per l’acqua potabile, spingere carrelli di legna verso i crematori. Per un pezzo di pane in più accetta di fare il pugile per il divertimento dei nazisti e conia il termine “gladiatori del lager”.Dopo Birkenau e il lavoro nella miniera presso Furstengrube, per Alberto si apre “l’ultimo degli orrori della Shoà: le marce della morte.
Prima di arrivare al campo di Dora, nel cuore della Germania, molti compagni di sventura moriranno e lo stesso Alberto non è convinto di “rientrare appieno” fra i vivi: ha ormai perso la voglia di combattere e un dolore lancinante allo stomaco gli fa agognare le camere a gas per porre fine alle sue sofferenze.Il destino però ha deciso diversamente: un medico ebreo francese lo opera di appendicite, senza anestesia, e poi lo nasconde sotto il letto consentendogli in tal modo di sfuggire alla selezione nazista.Ed è con il cuore gonfio di gratitudine per questo giovane medico che ha rischiato la vita per salvarlo che, dopo alcuni giorni, Alberto viene mandato in una fabbrica nei pressi della cittadina di Nordhausen dove, durante un bombardamento alleato, un ufficiale italiano della Marina lo nasconde, insieme ad altri prigionieri, sotto l’elica di un aereo.
Ancora una volta Alberto si salva.
Prima di tornare a Roma è proprio nel campo di Dora che il giovane Sed scopre la solidarietà umana che sembrava scomparsa nell’inferno di Auschwitz, nel volto di Giovanni Serini e nella frase “…Non ti lascio qui a morire, figliolo!” c’è tutto l’amore e la generosità di un essere umano nei confronti di un ragazzo ferito, denutrito, incapace di muoversi e di mangiare.Un’amicizia che, nata in un luogo disumano, rimarrà salda per tutta la vita.Alberto Sed oggi non è più il numero A-5491, ha tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti e al produttore televisivo che vuole realizzare un documentario e insiste affinchè torni nel lager per “una grande rivincita” mostra con orgoglio una foto scattata alle sue nozze d’oro con la moglie, le figlie e i mariti, i nipoti e i pronipoti e con impeto risponde: “Questa, solo questa è la mia rivincita”.La testimonianza di Alberto Sed, raccontata con rara sensibilità e delicatezza da Roberto Riccardi, non è che una microscopica goccia in quel mare di sofferenze umane che è stata la Shoah.Milioni di gocce non possono sostituire del tutto il mare di pregiudizi e ignoranza che ancora alberga nella nostra società, ma è dalla lettura e dall’ascolto di questi racconti che diventiamo testimoni di domani perché la “Memoria non muoia con noi” Giorgia Greco

1 commento:

Unknown ha detto...

Cara Giorgia, grazie per le belle cose che mi hai scritto. Se posso rubarti le parole, denotano "una rara sensibilità e delicatezza".

Roberto Riccardi