martedì 1 luglio 2008

Kibbutz Gazit -aerea dedicata alla Shoa

Israele: dialogo impossibile?

Nell’ambito della rassegna culturale La Milanesiana, la manifestazione che ogni anno propone al pubblico incontri con esponenti del mondo della cultura, registi, scrittori, cantanti e che quest’anno ha visto fra gli altri la partecipazione della cantante israeliana Noa oltre che del Premio Nobel per la Letteratura Gao Xingjian, si inserisce l’evento “Aperitivi con l’autore” .
Domenica 29 giugno presso la Sala Buzzati del Corriere della Sera erano presenti insieme al regista Amos Gitai, al critico Enrico Ghezzi, allo storico Simon Levis Sullam, allo scrittore Ernesto Ferrero che dal 1998 dirige la Fiera del Libro di Torino, due grossi calibri della letteratura ebraica ed israeliana: Amos Oz ed Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace nel 1986.
La domanda che è stata il filo conduttore dell’incontro “Israele: dialogo impossibile”? ha impegnato gli intervenuti in un dibattito interessante e costruttivo nel quale ognuno ha portato le proprie esperienze di vita e di studioso.
Amos Oz ed Elie Wiesel incarnano due destini del popolo ebraico: il sogno della Terra promessa e l’incubo della persecuzione.
Entrambi all’età di 16 anni hanno visto la loro vita modificarsi drasticamente: Wiesel con la deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz nel quale perderà i genitori e una sorella, una tragica esperienza che sarà raccontata nelle pagine strazianti di La notte, un libro tradotto in trenta lingue; Oz, uno pseudonimo che significa forza, coraggio, lascerà la sua famiglia a Gerusalemme per andare a vivere nel kibbutz Hulda, laboratorio dell’utopia del nuovo Stato d’Israele.
Per Elie Wiesel il dialogo è possibile perché tutto quanto riguarda la storia ebraica dimostra che ciò che è impossibile può trasformarsi in “possibile”.
Storicamente gli ebrei avrebbero dovuto cessare di esistere secoli addietro: tante le persecuzioni e le possibilità di assimilazione per conversione forzata, tanti problemi e tanti esili e tuttavia “siamo ancora qui, siamo l’unico popolo dell’antichità che è sopravvissuto all’antichità stessa”. “Quando il dialogo fallisce – continua Wiesel – prende il sopravvento la violenza e noi dobbiamo opporci e difendere le parole contro i pugni”.
I coniugi Wiesel organizzano regolarmente una conferenza con il re di Giordania a Petra e in un recente incontro hanno avuto come ospiti il premier israeliano Olmert e il palestinese Abbas. Di fronte alla commozione del pubblico nel vedere l’abbraccio fra i due leader, Wiesel ribadisce che la pace è possibile perché questo incontro è preludio di un nuovo inizio e gli ebrei sono il popolo dei nuovi inizi.
Amos Oz, alfiere del pacifismo israeliano, è ottimista perché ritiene che la maggioranza degli arabi palestinesi e degli ebrei israeliani sia pronta ad accettare il compromesso della spartizione che del resto è l’unica soluzione, seppur dolorosa, per due Stati.
Non ci sono alternative per lo scrittore israeliano perché sia i palestinesi che sono circa 4 milioni sia gli israeliani che ormai contano quasi 7 milioni di abitanti, non hanno un altro posto dove andare.
Non possono essere un’unica famiglia felice sia perché non sono una famiglia sia perché non sono felici; potranno soltanto essere vicini di casa.
I problemi da affrontare sono numerosi: i confini, la sicurezza, Gerusalemme, gli insediamenti. L’unico nodo che non può essere risolto con un compromesso, secondo lo scrittore, è la disputa sui luoghi sacri. “Per me – continua Oz – è giusto lasciare che la gente possa pregare, che vi sia libero accesso ai luoghi sacri e poi sarà il Messia quando verrà a dirci a chi appartengono quei luoghi”.
Per il regista Amos Gitai che è a Milano per presentare il suo ultimo film “Disengagement” , gli israeliani non si possono permettere di essere pessimisti perché quando si vive il conflitto dall’interno l’ottimismo e cioè l’idea di un dialogo possibile, non è solo un’analisi ma un desiderio che conduce alla volontà di reagire. Come cineasta – continua Gitai - il mio compito è porre dei quesiti, provocare delle domande perché solo in tal modo si può influire sulla realtà e indurre le persone a riflettere su tutti gli aspetti del conflitto.
Ernesto Ferrero non si sofferma sulle polemiche che hanno accompagnato la Fiera del Libro di Torino etichettandole come “polemiche di persone in cerca di visibilità”. Ciò che invece lo ha colpito è la difficoltà di dialogo fra la società israeliana democratica e tollerante e le società arabe vicine dove non è possibile alcun dibattito. Lo sdegnato rifiuto opposto dagli scrittori arabi all’invito a partecipare al Salone del Libro è tanto più incomprensibile in quanto non proviene dall’”uomo della strada” che reputa Israele il “male assoluto” ma da intellettuali che sono ritenuti “moderati” e illuminati.
Per Ferrero è molto grave constatare che questi scrittori anziché costruire ponti (che è poi “il loro mestiere”) erigono muri ancora più alti. Lo scrittore italiano non vede fra l’altro molte possibilità di dialogo neppure quando verranno costituiti due Stati perché ribadisce: “Stiamo ancora aspettando una società araba moderata: l’islam moderato o non esiste o se esiste non ha il coraggio di parlare”.
Simon Levis Sullam oltre al suo punto di vista di storico, più pessimista rispetto a chi lo ha preceduto, ritiene di estrema importanza il dibattito sul Medio Oriente avviato in Israele dai nuovi storici quali Benny Morris o Zeev Sternhell.
“Qualsiasi accordo di pace non può esimersi dall’indagare le lacerazioni sul passato oltre alla questione delle origini dello Stato d’Israele”.
Come ebreo diasporico insiste sul ruolo non solo delle leadership mediorientali ma anche della Diaspora. Il rapporto tra esilio e nazionalismo è un punto nel quale ebrei ed arabi possono incontrarsi perché la pace parte anche dal riconoscimento delle differenze reciproche. Il contatto nell’esilio con altre culture può consentire ai soggetti coinvolti nella regione e nel conflitto stesso di recuperare le radici della loro esperienza, in quanto le identità si costruiscono attraverso un intreccio di esperienze storiche e culturali e non nella contrapposizione.
Da ultimo Elie Wiesel riprende un tema di grande attualità: la posizione dell’Iran e del suo presidente. Senza mezzi termini Wiesel afferma che Ahmadinejad non è pazzo ma “intende dire esattamente ciò che dice”.
“La storia mi ha insegnato che le minacce dei nemici sono molto più vere che non le promesse degli amici”. Ahmadinejad è il primo negazionista dell’Olocausto a livello mondiale. Ha ripetuto più volte che l’Olocausto non è mai accaduto ma accadrà. Infatti si sta armando con armi nucleari e il primo obiettivo è Tel Aviv.
Dinanzi a questa minaccia concreta Wiesel sta organizzando una campagna presso i capi di Stato che incontra e presso la gente comune affinché questo individuo venga dichiarato “persona non grata” in tutto il mondo e non venga accettato da alcuna società civile. “E’ una persona – ribadisce il Premio Nobel per la Pace – che non è degna di un dialogo”.
……”Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte, mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visti i corpi trasformarsi in volume di fumo sotto un cielo muto, mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere, mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai” (Elie Wiesel – La notte)
Giorgia Greco Milano, 29 giugno 2008

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