giovedì 19 febbraio 2009

C’era una volta una famiglia


di Lizzie Doron Traduzione di Shulim Vogelmann Giuntina Euro 12,00
La fiamma che brilla a memoria perenne di coloro che l’indicibile tragedia della Shoah ha spazzato via è l’immagine suggestiva che accoglie il lettore dell’ultimo libro di Lizzie Doron, “C’era una volta una famiglia”.Autrice di libri apprezzati dal pubblico e dalla critica, Doron ha fatto il suo esordio nel panorama letterario italiano con un’opera insolita e originale sulla Shoah, “Perché non sei venuta prima della guerra?” dove, utilizzando una cifra linguistica scarna ma efficace, racconta la vita di Helena che, sopravvissuta allo sterminio nazista, si è trasferita in Israele dopo la guerra e lì nel nuovo paese ha cresciuto la figlia Elisabeth.Partendo dunque da quel primo romanzo, quasi in un naturale proseguimento della narrazione, Doron ritorna sul tema della Shoah e ripercorre attraverso ricordi nitidi come ritratti d’autore la vita degli abitanti del quartiere in cui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza e dei loro figli, suoi coetanei, di coloro cioè che “una volta erano una grande famiglia”.Nell’autunno del 1990 dopo il funerale della madre, Lizzie Doron torna nella casa in cui ha vissuto e poi abbandonato in gioventù dopo un litigio con Helena, per celebrare la shivà, la settimana di lutto durante la quale, secondo la tradizione ebraica, non si esce di casa e si ricevono gli amici per le preghiere.Il racconto che si declina in quei sette giorni è un percorso a ritroso nel tempo che consente a Lizzie di “ricostruire” la vita della madre - che le ha sempre taciuto il suo passato - attraverso le parole e le testimonianze delle persone care che l’hanno conosciuta e che ora le rendono omaggio.Anche loro sono sopravvissuti della Shoah, di quel mondo “di là”, magistralmente descritto nel libro precedente, sono giunti in Israele con un bagaglio di sofferenze e traumi indicibili e in quel nuovo Paese si sono ricostruiti una famiglia, mettendo al mondo dei bambini e amandoli con la forza della disperazione e con un sentimento di protezione estremo che farà dire ad uno dei giovani compagni di Lizzie: “Che palle, le mamme della Shoah”.Accanto alla generazione che ha vissuto quel dramma e ne porta ancora le cicatrici come Sonia e Genia, “veterane della shivà”, Chava che vende fiori per sostentare la famiglia, Durka “la mamma più pazza di tutto il quartiere”, Tzila che racconta le atrocità patite nel campo di sterminio durante il pranzo con Lizzie e la nipotina Chaiele, si delineano le storie drammatiche dei compagni con i quali l’autrice ha giocato, si è divertita ed è cresciuta diventando a sua volta moglie e madre; giovani vite spezzate dalla guerra dello Yom Kippur come Dov, arruolatosi volontario in un’unità di élite e morto “durante gli scontri sullo stretto di Suez”, Uri ucciso sulle alture del Golan, Asher caduto in una grave depressione dopo la guerra, Gadi Elad, lo studente il cui sogno era “fare il veterinario nel kibbutz”.E nel ricordo di quei ragazzi perduti affiora l’assurda e tragica realtà di un paese nel quale, ancora oggi, i genitori seppelliscono i propri figli.Al termine del libro, che è anche la fine della shivà, il rapporto fra l’autrice e la madre non si compone del tutto perché molti nodi restano ancora da sciogliere ma si fa strada la consapevolezza che nei silenzi spesso dolorosi per le seconde generazioni, c’era il desiderio di proteggere e difendere i propri figli dagli orrori accaduti nel “mondo di là”.“Nel mondo ci sono persone buone, persone cattive e persone che sono state ad Auschwitz” – dirà Helena a sua figlia.
E’ per commemorare i sopravvissuti come Helena, i sei milioni di ebrei sterminati nella Shoah, i soldati uccisi dall’odio, dall’intolleranza nelle guerre che lo Stato d’Israele ha combattuto per difendere il proprio diritto ad esistere che consiglio la lettura dell’ultimo romanzo di Lizzie Doron, un’autrice capace di scavare nell’anima, come pochi altri, con grande sapienza narrativa e sensibilità stilistica.Leggere “C’era una volta una famiglia” è una mitzvah, per non dimenticare la voce di chi non ha più voce. Giorgia Greco

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