sabato 14 febbraio 2009


Karma Kosher I giovani israeliani tra guerra, pace, politica e rock’n’roll”

di Anna Momigliano Marsilio, 2009, 172 p., € 13,00.
Cos’è il Karma Kosher? Come sintetizza Stefano Jesurum nella sua prefazione “è il bizzarro fenomeno che decenni dopo i figli dei fiori conquista frotte di giovani e giovanissimi, ex soldati, maschi e femmine, religiosi e no. Librerie dell’occulto, incensi e candele, new age, massaggi, arti marziali, bar esoterici, yoga e filosofia buddista. Per chi non l’avesse capito si chiama scappare a gambe levate dalla realtà” (p. 8).E’ un fenomeno profondo, in alcuni momenti sotterraneo, quasi carsico, in altri più consistente, ma che non rappresenta un dato momentaneo.Sottolinea Stefano Jesurum nella sua prefazione che Il pregio del libro di Anna Momigliano è quello di puntare l’attenzione e su una generazione israeliana che nessuno vede o che nessuno individua come un termometro, sensibile e significativo, dello stato d’animo di un Paese. E’ quella generazione che si affaccia alla vita pubblica negli anni di Oslo intorno al 1993, che crede nella possibilità della pace e che improvvisamente la mattina del 4 novembre si risveglia e si ritrova proiettata in un presente che assomiglia troppo a un passato verso cui non avrebbe mai voluto tornare e che, soprattutto, considera una disgrazia.Cominciamo dalla fine. Chi è questa generazione? E’ presto detto è la generazione che nel 2006 rientra in Libano e si trova a ritornare sui passi dei propri padri - quella generazione che con difficoltà è uscita dell’incubo del Libano 1982 (quell’incubo che Ari Folman ha messo a tema nei disegni e nel montaggio di Valzer con Bashir) – e, contemporaneamente, a confrontarsi con la generazione dei fratelli maggiori o dei cugini che dal Libano aveva pensato di uscire definitivamente nell’estate 1999.Questa generazione ha il senso del tempo sprecato, della inutilità del proprio agire. Intendiamoci. Non è una generazione che va via. Ancora alcune cose danno il senso dell’appartenenza, di sentirsi parte di una comunità e per quanto possa apparire paradossale agli occhi di coloro che da lontano guardano la società israeliana il momento della scelta per l’esercito risulta ancora un a parte strutturale. Ma questo poi non consente di valutare e di vivere il proprio futuro. E così una parte rilevante, minoritaria, terminati i tre anni, va via, scappa per un tempo medio-lungo, verso Goa, si perde verso Oriente, nel tentativo in parte di ritrovarsi e in parte di smarrirsi o di dimenticare.Un fenomeno che si ripercuote nel tempo lungo. Perché se il fenomeno del rifiuto e della renitenza non agisce alla chiamata alle armi, si diffonde, pur rimanendo un dato di minoranza, tra i riservisti. Molte cose motivano sia la fuga verso Goa che il crescente fenomeno dei “refuznikim”.Il Libano è solo una parte del ragionamento. Accanto cresce il timore di non essere più in qualche storia, ma anche il fatto di non riconoscersi più né nella dimensione eroizzata del proprio presente, né nella dimensione etica di cui è carica la forza letteraria dei tre “tenori” della letteratura (Oz, Yehoshua, Grossman). E’ così che la tendenza è quella di riconoscersi nella letteratura minimalista di Gabi Nitzan o di Etgar Keret.Il segnale più evidente sta nel lento rinchiudersi dentro la bolla di Tel Aviv. E’ l’ottobre 2000. Nel giro di 40 km si consuma la crisi politica complessiva di Israele: da una parte il linciaggio dei due soldati israeliani a Ramallah (una scena che ricorda da vicino la violenza che Giovanni Verga descrive nella novella La libertà e che Wolfgang Sofsky ha descritto nel suo saggio L’arma della profanazione, ora ricompreso nella sua raccolta Il paradiso delle crudeltà, Einaudi, 2001, pp. 105-108), dall’altra una città, Tel Aviv, che si rinchiude sempre più nella sua bolla.“La sensazione generale che si respira in quel periodo – scrive Anna Momigliano – è ben descritta da una copertina di ‘Achbar Ha-Ir’: un ragazzo dal look trasandato e dall’aria abbastanza rilassata, l’icona del telavivi sotto i trenta, se ne sta comodamente sdraiato sul divano del suo salotto a leggere un libro, lo stereo nelle orecchie e una tazza di tè sul tavolo, mentre un gatto gioca tranquillo sul tappeto e mentre dalla televisione una giornalista spiega come utilizzare una maschera antigas” (pp. 100-101).Poi di nuovo la scena del Libano 2006 riporta tutti in una dimensione di realtà conflittuale e anche cupa. Ci sono strani segnali in quella guerra: spettatori che dalle due parti si parlano attraverso la rete e dove ognuno descrive all’altro ciò che sta accadendo, i cannoneggiamenti che subisce (in Libano Sud) e i missili che riceve in testa (in Galilea, intorno a Tz’fat, per esempio). Ma l’improvvisa rottura di questo muro non apre margini oltre un dialogo che è solo nello scambio di parole, ma non nell’ascolto. La sensazione è quella di una solitudine sempre più profonda che non lascia intravedere un futuro possibile o almeno perseguibile. E in questa condizione quella che talora può apparire una dismissione dalla realtà si traduce anche nella condizione di vivere l’angoscia di una realtà che risulta non governabile. Una condizione che da lontano può apparire ribelle e di dismissione, ma che poi nel gorgo della quotidianità produce ansie, paure, richiesta di una politica forte. Tutti gli ingredienti di una politica che non cede.E’ una conclusione amara quella che indica Anna Momigliano, ma vale la pena di discuterla e di prenderla sul serio. E che da martedì sera scorso non è una fotografia astratta della condizione umana di un Paese. Anche per questo vale la pena leggere questo viaggio, apparentemente leggero, in realtà molto interno, alle storie umane e emozionali di una generazione ancora in cerca di sé stessa. David Bidussa http://www.moked.it/unione_informa/

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