lunedì 6 aprile 2009

Daniel Libeskind

Le mie architetture sono un inno alla vita Intervista a Daniel Libeskind

È uno dei più grandi architetti contemporanei. Ha firmato il Jewish Museum di Berlino e San Francisco e il suo progetto per l’Expo 2015, Citylife, cambierà il volto di Milano. Ma soprattutto è stato il suo progetto a vincere il concorso per la ricostruzione del World Trade Center di New York, al posto del buco lasciato dalle due Torri Gemelle. Star indiscussa del panorama architettonico attuale, maestro superpremiato e in corsa per il Pritzker Prize (una sorta di premio Nobel per l’architettura), dopo aver appena ricevuto il Building Type Awards 2009, Daniel Libeskind, cittadino israeliano, è un uomo sorridente e affabile, che non dimostra per nulla i suoi 62 anni passati. Capelli a spazzola, una vivacità contagiosa, dietro le spesse lenti degli occhiali si avverte uno sguardo pieno di calore umano. Niente a che vedere con il solito sussiego delle archi-star. Libeskind da sempre aiuta i giovani senza mezzi a studiare architettura così come, un tempo, giovane, talentuoso musicista, suonava gratis la fisarmonica e il piano per gli immigrati polacchi. Nato a Lodz, in Polonia, nel 1946, da genitori sopravvissuti ai lager nazisti, emigra a sei anni, insieme alla famiglia, negli Stati Uniti e poi in Israele. Oggi Libeskind è un vero cittadino del mondo; da New York a Milano, da Denver a Gerusalemme le sue architetture avveniristiche riescono a dialogare con la storia del passato utilizzando linguaggi contemporanei del tutto inediti. Come è cambiato il suo ebraismo nel corso degli anni? Come si rapporta alla tradizione e alla cultura ebraiche? Mi sono sempre sentito profondamente ebreo. La tradizione ebraica per me non è solo astrazione, ma anche qualcosa da vivere tutti i giorni. Secondo me la componente più importante nell’essere ebrei è la capacità di reazione al mondo; un mondo in continuo sviluppo, che sta cambiando, in cui Israele è sotto pressione e l’antisemitismo risorge ovunque. Ecco, per me l’atmosfera di oggi non è poi così diversa da quella della mia infanzia, vissuta nel clima antisemita della Polonia comunista. Combattere per l’identità ebraica, combattere per una società aperta e libera, ha sempre fatto parte della sensibilità del popolo d’Israele. L’ebraismo è molto più che una religione; è una sensibilità appunto, e in questo senso, in Polonia, più crescevo, più avvertivo il pericolo che stava correndo l’identità ebraica in una società che spingeva verso l’assimilazione totale.Quindi, secondo lei, da allora niente è mutato?No. Il panorama è lo stesso, abbiamo battaglie diverse da combattere, ma quella per l’identità non è cambiata. Quando venni in Israele, negli anni Cinquanta, c’era la guerra; in Polonia dove crebbi, si diceva che Israele stesse perdendo e che stava per essere conquistato dagli arabi. La Polonia non aveva relazioni con Israele, non lo riconosceva. Certo, oggi quel riconoscimento c’è stato, ma ci sono altri nemici. Sono i nemici delle democrazie occidentali e degli ebrei in quanto rappresentanti di una società moderna, illuminista, occidentale. Credo che l’ebraismo abbia contribuito a edificare quei valori che sono profondamente inscritti in ogni democrazia, americana o europea che sia. I valori ebraici oggi, come migliaia di anni fa, sono sempre forti e attuali. Il testo biblico è più immediato, più accurato della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo dell’Onu. Osservo con tristezza che anche se il mondo è cambiato, la storia ebraica si ripete: i nemici mutano il loro nome ma non cambia il loro pregiudizio. Il mondo non impara le lezioni della storia; quando ero piccolo, in Polonia, l’Olocausto non veniva neanche menzionato. Oggi, la festa di Pesach è alle porte. E che tu sia religioso, laico, ortodosso, conservatore, hassid piuttosto che socialdemocratico o liberale, l’identità ebraica riguarda sempre la libertà, un valore profondamente inscritto nell’anima ebraica. Ho sempre pensato che la storia di Pesach fosse un messaggio per l’umanità: noi non siamo più schiavi, ma ci sono altri popoli schiavi nel mondo, schiavi di idoli, della religione, della discriminazione etnica, di gente senza scrupoli. Il punto di vista etico è molto importante nella tradizione ebraica. E anche per me. E’ questo che rende l’ebraismo così unico: essere ebreo vuol dire tentare di affrancarsi dalla propria schiavitù interiore o almeno lavorarci intorno, e cercare di avere una mentalità aperta.Lei come si definisce: religioso o laico?Cosa intendiamo per essere religiosi? Una spiritualità diffusa? Il rispetto delle tradizioni? Certo, non sarei quello che sono se non fossi nato ebreo, se non fossi legato alle Scritture, se non facessi parte del popolo di Israele e della comunità ebraica. Ripeto: penso che l’ebraismo sia molto di più che una religione. Il Museo Ebraico di Berlino: che significato ha quest’opera per lei, come figlio della Shoà e figlio di sopravvissuti? Un significato di riscatto. Non si può cambiare la storia, non puoi portare indietro milioni di morti, ma puoi dare una nuova speranza. La Germania e l’Europa sono cambiate, è vero. Ma la storia non riguarda solo il passato, ci parla a volte anche del presente. Non è soltanto una favola dal cattivo o lieto fine, la sua trama si evolve e siamo noi a tesserla. C’è qualche episodio, nella sua vita pubblica o privata, che l’abbia segnata come ebreo?Sì. Quando mi trasferii a Berlino con la mia famiglia non c’era niente di simile a un museo ebraico. Io invece credevo fermamente nella necessità di costruirne uno proprio lì, in quella città-simbolo. Gli ebrei non sono una minoranza etnica, non sono un dipartimento della storia; sono stati coinvolti in duemila anni di vicende europee e tedesche. Ma all’epoca mi scontrai con l’indifferenza generale e presi una decisione: non mi sarei mosso da Berlino finché il museo ebraico non fosse stato costruito. Quando lo dicevo, chi mi sentiva scoppiava a ridere credendo a una battuta. Faccio ancora fatica a dimenticare quell’ostilità nei confronti del mio progetto: un anno dopo l’intero Parlamento di Berlino decise di cancellarlo: “Non abbiamo bisogno di nessun museo ebraico ma di infrastrutture, strade...”. Il voto fu unanime. Ma oggi quel museo esiste e l’ho fatto io. Si figuri che quando avvenne l’inaugurazione del Jewish Museum di Berlino e le porte aprirono i battenti al pubblico, era la mattina dell’11 settembre 2001. Pensi alla coincidenza! Quel giorno, nel mio studio, avevo detto ai miei collaboratori che questa era la prima volta in vita mia in cui potevo non pensare più alla Storia. Adesso c’era un museo e il mio compito era stato finalmente assolto. Avevo appena finito di dirlo che alle 14.30, ora di Berlino, assistemmo in tv al crollo delle Torri Gemelle. In quel momento capii che non puoi mai dire di non dover più pensare alla Storia.Dopo il Wohl Center di Ramat Gan, ha altri progetti architettonici in Israele? Stiamo lavorando a Tel Aviv e a Gerusalemme. Ho appena incontrato il nuovo sindaco di Gerusalemme, una persona incredibile. Tra le sue prerogative c’è lo sviluppo della capitale di Israele.Come vede il dopo elezioni in Israele?Un balagan, una situazione complicata; resa ancora più critica da un sistema elettorale che è orribile... I problemi interni sono tanti, ma io ho fiducia; Israele è una società dinamica. Malgrado l’instabilità apparente credo che alla fine in Israele ci sia una profonda stabilità. Del resto quale altro Stato nella storia moderna è entrato in guerra coi suoi vicini perché si sono rifiutati di riconoscerlo? E questo innumerevoli volte e per più di mezzo secolo? E il processo di pace?La pace appartiene alle nuove generazioni. Possiamo già vedere in atto grandi cambiamenti, le opportunità non spariscono anche se oggi le persone sono sempre più depresse, sfiduciate rispetto al futuro, credono che tutto stia collassando. Ma io non smetto di essere positivo, vedo i giovani israeliani e penso che il cambiamento ci sarà.Lei è d’accordo con la soluzione “due popoli due Stati”?Tutti ci stiamo sperando, anche se sono passati anni dalla Prima Intifada e quest’idea si sta dimostrando sempre più astratta. È tempo di decisioni coraggiose da entrambe le parti. Sono preoccupato dalla virata a destra della società israeliana. L’odio contro il proprio vicino non porta da nessuna parte. La strada per il futuro è vivere insieme. Un percorso difficile, perchè le due parti devono imparare a rispettarsi.Tutti i suoi lavori racchiudono un forte valore simbolico. Quale può essere la chiave per interpretare le sue costruzioni per l’Expo di Milano?L’identità ebraica ruota intorno alla vita; per l’ebraismo tutte le cose sono vive e io ho voluto inserire proprio questo concetto anche nel mio lavoro milanese. Già a partire dal nome del progetto, Citylife, si capisce che parliamo di dare vita alla città e ai suoi cittadini, creando un ambiente sostenibile, bello e in relazione con la natura. Credo che questo sia il profondo significato ebraico del mio lavoro di architetto.Lei ama molto Leonardo da Vinci, tanto da averlo usato come fonte d’ispirazione sia nel progetto del Museo d’arte Contemporanea di Milano sia nella torre curva di Citylife.Sì, è così. Leonardo è molto importante, pensava che l’uomo fosse misura di tutte le cose. Leonardo ci aiuta a comprendere cos’è l’uomo e come si proporziona alla realtà. Il suo pensiero, e in generale tutta la concezione rinascimentale, sono un passo molto importante per capire che non siamo soli, che non viviamo il mondo solo per dominarlo.Come cambierà Milano con l’Expo?L’Expo porterà Milano nel mondo e il mondo a Milano. Sarà un importante meccanismo per rinnovarla facendola diventare la metropoli che non è mai stata.
Lavì Abeni e Fiona Diwan http://www.mosaico-cem.it/ 31/03/09,

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