domenica 10 maggio 2009

Leone Ginzburg
Leone, allora e oggi. Un ritratto di Leone Ginsburg

Non può passare inosservato il centenario della nascita di Leone Ginzburg, venuto alla luce a Odessa il 4 aprile del 1909 e prematuramente scomparso a Roma, nel febbraio del 1944, nel carcere di Regina Coeli, dov’era detenuto dai nazifascisti e dove morì a causa delle terribili torture da loro impartitegli. La sua esistenza, tanto intensa quanto breve, non più di trentacinque anni di vita, rappresenta il crocevia delle aspirazioni di quanti, ebrei e non, intendevano il Novecento non solo come il secolo di una generica e ambivalente «modernità» bensì come l’epoca che portava in sé i caratteri di una emancipazione umana, sia culturale che materiale, nel medesimo tempo possibile ma anche e soprattutto definitiva. 'Se non ora, quando?', sembravano chiedersi uomini della sua tempra, già allora cittadini di una Europa che partiva dall’Atlantico per raggiungere gli Urali. La riflessione di Ginzburg, peraltro, era debitrice di due esperienze esistenziali, per più aspetti dirimenti nella sua traiettoria morale: la nascita in Russia e, dopo l’espatrio in Italia nel 1910, quand’era ancora in fasce, la maturazione culturale e civile in un paese posto sotto il tallone di Mussolini e del fascismo; laddove, detto per inciso, entrambe le parti, duce e movimento politico, costituivano non solo la radice di una insopportabile dittatura ma anche e soprattutto di un brutale regime, fondato sul consenso diffuso, ancorché passivo, di molti italiani. Le idee che il giovane Leone e gli intellettuali e politici (molto spesso le due funzioni si sommavano nelle stesse persone) antifascisti della sua sofferta generazione andavano maturando, nascevano dalla consapevolezza, condivisa con altre eminenti figure della cultura d’opposizione, come Antonio Gramsci, i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini e Piero Gobetti (tutti esuli o imprigionati e quindi destinati a morire, se non già morti, per mano assassina), che il fascismo non fosse un fenomeno transitorio e congiunturale bensì una delle espressioni, ancorché patologica nella sua enfatica manifestazione, di una sotterranea vocazione che era propria al paese. Questo tanto più nei momenti di crisi, quando le fragilità già evidenziatesi nel processo di unificazione nazionale, durante gli anni del Risorgimento, riemergevano prepotentemente, in tutta la loro dirompenza, trasformandosi in una disposizione d’animo, sospesa tra il cinismo e l’ineluttabilità, ad abbandonarsi ad esperienze autoritarie. Non a caso Gobetti aveva parlato del fascismo come di una « autobiografia della nazione». Lungi dal volere declinare ciò nei termini di una antropologia negativa, altrimenti ispirabile ad una tanto perentoria quanto elitaria condanna della società nostrana in toto, Leone Ginzburg, del pari a coetanei e sodali che si erano raccolti intorno alla Casa editrice Einaudi, nata nel novembre del 1933, si adoperò quindi per cogliere i caratteri non transitori di quel fenomeno chiamato per l’appunto fascismo, che in quegli anni si stava affermando in tutta l’Europa, avendo però ad epicentro Roma. Non è un caso, peraltro, se il motto dell’Einaudi era ed è rimasto spiritus durissima coquit, ossia lo spirito digerisce tutto. Fu quindi una generazione di “dura cervice”, che annoverava al suo interno figure come quella del futuro musicologo Massimo Mila, del filosofo e politologo Norberto Bobbio, di uno scrittore del tenore di Cesare Pavese, del sindacalista e politico Vittorio Foa, del filologo e letterato Carlo Dionisotti, del politico e dirigente d’impresa Giorgio Agosti e dello stesso editore Giulio Einaudi, a chiedersi quale fosse il segno dello spirito dei tempi. A capitanare l’intero gruppo, da Mila definito come una «confraternita», raccoltosi nella quasi sua totalità intorno al liceo Massimo D’Azeglio di Torino, era Augusto Monti, che fino al 1934 aveva occupato, proprio in quella scuola, fucina di futuri quadri dell’antifascismo, gli insegnamenti di lingua e letteratura latina e italiana, nella sezione B, passata poi alla storia come un piccolo allevamento di intelligenze antimussoliniane. La formazione di Ginzburg, non diversamente dai suoi compagni di studi, seguì quindi l’orientamento laico e risorgimentale che Monti, tributario del magistero di Benedetto Croce, seppe offrire loro. Il viatico antifascista fu offerto dalle letture montiane del Breviario di estetica, redatto nel 1912 dal filosofo partenopeo, e adottato come strumento di azione culturale dal gruppo torinese. Leone, in questa congerie (il presagio di una catastrofe prossima ventura, la guerra, andava intanto sinistramente maturando, percependo d’essa il fatto che costituisse lo sbocco inevitabile della pulsioni regressive dei fascismi europei) espresse la sua lucida precocità. Sulla scia del dettato crociano Ginzburg, in un primo tempo, evitò l’impegno politico diretto preferendo invece l’adesione a quanto il filosofo andava professando, ovvero l’«aperta cospirazione della cultura». Pesava nella scelta di questo percorso, con tutta probabilità, anche la condizione di apolide nella quale ancora si trovava (otterrà la cittadinanza solo l’8 ottobre 1931), pur essendo considerato, dai suoi pari, come un intellettuale «russo-piemontese», a volere dire che in lui si coniugavano radici lontane e un radicamento pervicace nella realtà locale. In cuor suo, tutto ciò si traduceva nella passione per la storia e la letteratura italiane e per gli studi di «slavistica», proiettati verso la lontana terra d’origine. Agli anni del liceo seguirono così quelli dell’Università, a fare dal 1927, sempre a Torino, dove poi si laureò in lettere, con la fine del 1931, ottenendo poco dopo la libera docenza in letteratura russa. La frequentazione in Francia, degli ambienti dei fuoriusciti antifascisti accese in lui la volontà di gettarsi nella lotta politica. Tornato a Torino, dove la polizia fascista aveva colpito duramente e con efficacia il nucleo locale di Giustizia e Libertà, il movimento che cercava di dare anima e corpo ad una opposizione di nuova specie al regime, si adoperò con altri per ricostruire le file dell’organizzazione. Il suo diniego a prestare il giuramento di fedeltà al fascismo, imposto a tutta la docenza universitaria, comportò infine l’estromissione dall’Accademia, nel 1934, alla quale fece seguire, per parte sua, l’insegnamento presso l’Istituto magistrale Berti. È di quell’anno, per l’esattezza l’11 marzo, il “fattaccio” di Ponte Tresa, al confine italo-svizzero, quando due giovani ebrei torinesi, Mario Levi e Sion Segre Amar, vennero fermati dalla polizia di frontiera che trovò sulla loro macchina una ingente quantità di materiale clandestino di contenuto antifascista. Il cerchio si strinse così anche su Ginzburg che il 13 marzo venne arrestato insieme ad altre sessanta persone. Il regime, quasi a volere dare un anticipo a quanto sarebbe successo con le leggi razziali del 1938, colse la palla al volo: l’agenzia Stefani, incaricata di fornire alla stampa e al pubblico le versioni ufficiali dei fatti, in sintonia con i voleri del fascismo, mise da subito in evidenza la matrice “giudaica” della “cospirazione”. A seguito di ciò Ginzburg, insieme a Segre Amar, fu condannato dal Tribunale speciale a quattro anni di detenzione. Uscito dal carcere nel 1936, si poté dedicare solamente alle collaborazioni editoriali, isolato com’era in ragione della sua condizione di vigilato speciale. Il 12 febbraio 1938 sposò quindi Natalia Levi, sorella di Mario. Dopo di che, con l’entrata in vigore delle leggi razziali, fu privato della cittadinanza italiana. I primi anni della guerra lo videro costretto a fare i conti con il cappio che andava stringendosi intorno al collo di tutti gli ebrei italiani. Confinato negli Abruzzi come «internato civile di guerra» vi rimase anche dopo il 25 luglio 1943, alla caduta del regime di Mussolini, in quanto apolide. Liberato in agosto, si attivò subito nell’intensa attività politica che animava i circoli antifascisti, dividendosi tra Milano, Torino e Roma. Mentre sul piano professionale continuò a lavorare per l’Einaudi, sul versante politico si riconobbe nel ricostituito Partito d’Azione, condividendo la militanza con Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Manlio Rossi Doria, Riccardo Lombardi, Carlo Muscetta, Riccardo Bauer, Carlo Ludovico Ragghianti, Enzo Enriques Agnoletti e tanti altri ancora. In questo breve elenco c’era già quasi tutto il nucleo fondatore della futura Repubblica italiana. Per Leone Ginzburg i tempi si fecero però sempre più duri. Nella Roma occupata dai tedeschi diresse l’«Italia libera», giornale clandestino degli azionisti. Si muoveva usando un nome di comodo, Leonida Granturco, sapendo di essere nel mirino nazifascista, sia come oppositore politico che come ebreo. Il 20 novembre 1943, dopo l’arresto di alcuni suoi compagni di militanza, venne quindi catturato dalla polizia fascista e tradotto a Regina Coeli. Gli fu fatale il fatto che quasi dieci anni prima avesse già soggiornato in quel carcere poiché la sua vera identità venne ben presto scoperta. Trasferito nella sezione controllata dai tedeschi, iniziò per lui il terribile periodo delle torture. Dopo alcune settimane di tormenti, oramai stremato, fu mandato all’infermeria del carcere dove, nella notte tra il 4 e il 5 febbraio del 1944 morì. Leone Ginzburg fu e rimane figura di difficile definizione poiché, ponendosi al crocevia di due mondi, quello d’origine odessita e quello di acquisizione torinese, assommava all’acribia del letterato e del filologo la passione per la ricerca. A questa indole, che mai gli venne meno, e che coltivò anche a contatto con alcuni membri della vivace comunità israelitica di Torino, dai quali trasse motivi di autonoma riflessione su una ebraicità che però mai visse come elemento di alterità rispetto al suo essere italiano di acquisizione, si sommò ben presto la radice antifascista. Questa era ben lontana dall’esaurirsi in una banale precettistica avversa al regime, indagando piuttosto sulla necessità di originare una “Italia nuova” che avrebbe dovuto fare i conti non solo con la notte mussoliniana ma anche con le gravi carenze, se non gli inauditi cedimenti, che avevano caratterizzato l’azione delle élite liberali, aprendo la porta alle camicie nere. In questo Leone Ginzburg recuperava la lezione del giovane Piero Gobetti, ispirandosi ad un rigore che era prima di tutto morale e civile. Così lo ricorda, tra i tanti pensieri, Norberto Bobbio quando della sua figura umana dice che: "Leone, il grande mediatore: mi mise in pace con me stesso, con gli altri, con le cose che non comprendevo, cui recalcitravo. Mi iniziò al «lungo viaggio», che si sarebbe concluso nel «sangue d’Europa», e che abbiamo terminato, dolorosamente, senza di lui".Torino ricorderà, nei mesi a venire, in più occasioni e circostanze, questo suo conterraneo d’acquisizione che tanto ha dato al Paese come alla stessa città. Per informazioni si può consultare il sito www.comitatopassatopresente.it. Claudio Vercelli http://www.moked.it/

Nessun commento: