lunedì 21 settembre 2009

Denise Nemirovski

Mantova Letteratura – Amos Oz e Denise Nemirovsky

Era uno degli eventi più attesi del festival, l’incontro con Denise Epstein, e non ha certo deluso le aspettative di quanti, alcune centinaia di persone, hanno affollato il cortile del Palazzo di San Sebastiano venerdì pomeriggio. La Epstein, ricordando la figura della madre, Irene Nemirovsky, scrittrice di origine ucraina deportata ad Auschwitz e morta di tifo nel 1942, non è riuscita a nascondere l’emozione davanti al caloroso e numeroso pubblico mantovano. “Grazie, grazie di cuore” ha mormorato con voce tremante. Emozioni che si sono intensificate quando ha ricordato lo straziante momento della separazione, avvenuto per mano di due gendarmi francesi: “Mi perdonerete se non ho la forza di ripetervi le parole che mi disse prima che fosse portata via”. Poi, con voce più decisa, difende la madre dalle accuse di antisemitismo (a causa di alcune descrizioni non proprio lusinghiere di alcuni personaggi del mondo ebraico francese) che le sono state rivolte da alcuni critici letterari: “era fiera delle proprie origini ebraiche, come testimoniano alcuni suoi scritti e lettere che ho ritrovato”. Un rapporto comunque molto controverso quello della Nemirovsky e di sua figlia Denise con l’ebraismo: “Nella nostra famiglia avevamo un approccio laico nei confronti della religione. Fu solo quando mi fu cucita sugli abiti una stella gialla che mi resi conto di essere diversa dagli altri”. Ancora oggi la Epstein, pur definendosi orgogliosa delle proprie radici, vive questo rapporto con un certo distacco: “È più una relazione di buon vicinato, per così dire. Faccio fatica ad accettare l’ebraismo in toto”. Su una cosa è però sicura: “È necessario ridare la vita a tutte le vittime di questa tragedia affinché non vengano dimenticate e la produzione letteraria è sicuramente un modo efficace per farlo”. È con questo convincimento che Denise, cinque anni fa, ha deciso di pubblicare, grazie alla casa editrice Denoel, il diario scritto dalla madre, un prezioso e inquietante spaccato sulla Francia negli anni dell’invasione nazista. Un’opera incompiuta, la Nemirovsky riuscì a scrivere solo due dei cinque tomi che aveva originariamente previsto, a cui è stato dato il nome di “Suite Francaise”. Una straordinaria testimonianza rimasta per anni chiusa in una valigia, affidatale dal padre con la promessa, da parte di Denise, di custodire gelosamente le memorie della madre. Adesso, grazie al grande successo ottenuto da “Suite Francaise” la valigia è diventata un “feticcio da museo”, come constata con un po’ di amarezza Denise, ma almeno simboleggia la riscoperta di una scrittrice che era stata quasi completamente dimenticata.Fra le varie iniziative organizzate in occasione del Festival della Letteratura, una delle più stimolanti è “Pagine Nascoste”, una cinque giorni di documentari che racconta, facendo emergere talvolta alcuni aspetti meno conosciuti, la vita di alcuni personaggi del mondo della cultura. A testimonianza del grande interesse che circonda la sua figura, è stato proiettato (e replicato in una seconda serata) “The nature of dreams”, un intenso ritratto, in anteprima nazionale, di Amos Oz, probabilmente lo scrittore israeliano più famoso al mondo (sicuramente quello che vende più copie). Il documentario, che ripercorre la vita dell’intellettuale, dalla primissima infanzia fino al forte coinvolgimento politico nelle elezioni del febbraio scorso, diventa un’occasione per raccontare la storia e l’evoluzione della società israeliana attraverso le parole e i ricordi di una delle sue migliori espressioni. Oz, figlio di ebrei dell’Europa Orientale, parla del sentimento ambivalente che molti israeliani provano nei confronti del Vecchio Continente. Da una parte la grande attrazione verso la sua cultura, dall’altra la repulsione verso un continente che non è stato certamente tenero nei confronti degli ebrei. “Ancora oggi, eppure sono passati quasi sessantacinque anni, provo un certo fastidio nel sentire qualcuno parlare in tedesco” riassume efficacemente il “problema emotivo” provato da molti israeliani nei confronti del Vecchio Continente ed in particolare della Germania. Nel documentario, attraverso la vicenda personale di Oz, che all’età di quindici anni abbandonò Gerusalemme per il kibbutz di Hulda, si affronta il tema, molto complesso, delle diverse anime che hanno permesso che il sogno dalla nascita dello Stato di Israele, da qui il titolo del film, diventasse realtà. “Israele è la fusione di diversi sogni, quello di fondare uno stato marxista e quello di ricreare l’ambiente dello shtetl, oppure ancora l’idea che dovesse diventare un paese raffinato sulla falsariga di quelli mitteleuropei e la diversa opinione in proposito che avevano i sabra”. La società israeliana, secondo Oz, deve però necessariamente proiettarsi nel futuro (“Odio parlare troppo del passato”) facendo un’analisi seria su cosa è rimasto ai giorni nostri di questi sogni, quali sono ancora vivi, quali sono diventati incubi e quali ancora sono stati dimenticati. È una riflessione amara quella di Oz sulla questione della cosiddetta “israelianità”, che lo porta a usare espressioni molto forti come quella di “campo profughi allestito frettolosamente” o di “paese che odora di vernice fresca” (Chi vive nella casa in cui è nato o dove sono nati i suoi genitori?). Una precarietà dell’esistenza che è un sentimento comune alla quasi totalità degli israeliani e che è accresciuta dal doloroso proseguo del conflitto con i palestinesi. “La soluzione la conoscono tutti”, afferma Oz, “ ed è sicuramente dolorosa come un’amputazione, ma è l’unica possibilità: due popoli e due Stati”.Adam Smulevich http://www.moked.it/

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