sabato 9 gennaio 2010


Gerusalemme

Medio Oriente, una pace infinita

Nelle pagine del Jerusalem Post di dieci anni fa, all’esordio del nuovo millennio, le speranze volavano alte
Lunedí 04.01.2010 Di David Horovitz , Da Jerusalem Post
Nelle pagine del Jerusalem Post di dieci anni fa, all’esordio del nuovo millennio, le speranze volavano alte. Tony Blair, allora primo ministro britannico, firmava uno editoriale speciale per il nuovo millennio che aveva inviato simultaneamente all’israeliano Jerusalem Post, al giornale palestinese Al-Quds e a un imprecisato quotidiano siriano. Intitolato “Guardare il lato positivo delle cose”, l’editoriale asseriva che “grazie al coraggio del primo ministro Ehud Barak, del presidente Yasser Arafat e del presidente (siriano) Hafez Assad, una pace complessiva e durevole è oggi una prospettiva concreta”. Blair prometteva inoltre il sostegno britannico, europeo e internazionale alla causa della pace in Medio Oriente. In un articolo a fianco, il suo ambasciatore in Israele Francis Cornish sottolineava quanto Blair ammirasse la “determinazione di Barak di cogliere l’occasione”.Determinato davvero. Il secondo giorno del nuovo millennio, Barak volava a Shepherdstown, West Virginia, per allettanti colloqui col ministro degli esteri di Assad, Farouk Shara. Il titolo a caratteri cubitali del Jerusalem Post del 3 gennaio prometteva “Clinton giocherà un ruolo attivo nei negoziati”, e citava il segretario di stato Usa Madeleine Albright che prometteva di “rimboccarsi le maniche” per un accordo israelo-siriano. “La cosa più importante – si infervorava la Albright – è che le parti stesse sono pronte a rimboccarsi le maniche”.Beh, un decennio più tardi, quei mondiali titani dell’anno 2000 risultano un bel po’ ridimensionati, quando non tagliati fuori del tutto. Blair è stato spodestato dal suo stesso partito di governo laburista per una varietà di colpe, vere o presunte, ma soprattutto per il crimine, in una Gran Bretagna ostinatamente cieca, d’aver introiettato la minaccia posto all’occidente dal fondamentalismo islamista, e per aver cercato di contrastare tale minaccia. Non amato in patria, da molti addirittura vituperato, e recentemente bocciato come presidente della Unione Europea, Blair ha lavorato indefessamente come inviato di pace del Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia) cercando di costruire dal basso verso l’alto uno Stato per un pubblico palestinese che, quando ha avuto opportunità di eleggere una dirigenza dedita all’edificazione di uno stato, ha optato piuttosto per un gruppo fedele a malefici “valori” religiosi che garantiscono la perpetuazione delle loro sofferenze.Anche Bill Clinton se n’è andato dai vertici del potere e, sebbene tuttora incomparabilmente facondo e carismatico, è oggi fortemente limitato. Fino all’anno scorso poteva per lo meno di scherzare sui pro e contro dell’essere un ex presidente: il vantaggio di poter dire tutto quel che si vuole, contro il fatto che nessuno ti dà più molto ascolto. Oggi non può più nemmeno dire quello che vuole perché sua moglie, la signora segretario di stato, dovrebbe poi fare i conti con le ricadute.Ehud Barak è ancora in gioco, naturalmente, sebbene non più come primo ministro. Rispettato come ministro della difesa ma mal sopportato come leader dei laburisti, ha ben poche chance di tornare alla massima carica: persino in un paese come Israele che, come può testimoniare Binyamin Netanyahu, è unico nel perdonare chi ha fallito nel primo incarico come premier.Arafat se n’è andato del tutto, con gran sollievo – diremmo – di tutti quanti. Ed anche Assad, in qualche infernale palazzo presidenziale, sta senza dubbio somministrando al suo Creatore lezioni smodatamente lunghe sulla nobilissima storia della Siria.Nel frattempo quella “concreta prospettiva di pace” appare più distante che mai, e ben pochi leader mondiali sarebbero oggi tanto ingenui da esortarsi a “guardare il lato positivo delle cose”. Quel che è cambiato in meglio, tuttavia, è che gli inevitabili contorni della nostra tanto a lungo sospirata normalità in Medio Oriente sono diventati più chiari agli occhi della maggior parte degli israeliani. Abbiamo ancora tanti partiti politici quante sono le nostre università, i nostri ospedali e i nostri stadi sportivi, ma una terrificante quantità di questi partiti sostengono essenzialmente la stessa visione di Israele. […]Il fatto è che, generalmente parlando, circa due terzi del nostro parlamento, presumibilmente in rappresentanza di due terzi del nostro elettorato, vorrebbe realizzare quella vana speranza espressa da Blair dieci anni fa. Israele vorrebbe un accordo con la Siria e col resto del mondo arabo ma se, e soltanto se, ciò significa una pace duratura, senza esporre Israele ad accresciuti rischi per la sua sicurezza. Vorremmo che al regime iraniano, che persegue implacabilmente la distruzione di Israele, venisse impedito di dotarsi di armi nucleari e, meglio ancora, che venga rimosso del tutto dal potere ad opera della sua popolazione oppressa e tradita. All’interno, vorremmo preservare quello status quo pressoché miracoloso che in qualche modo coniuga il moderno stato di Israele con il tradizionale codice religioso che per intere generazioni ha sorretto l’esistenza stessa del nostro popolo.E con molta maggiore chiarezza di un decennio fa, riconosciamo che vogliamo essere uno Stato ebraico e democratico, che ha bisogno di separarsi dai palestinesi. Non vogliamo essere costretti a tornare sulle linee pre-’67, quelle su cui fummo attaccati senza sosta nei precedenti diciannove anni e che ci rendevano così insostenibilmente vulnerabili. Ma sappiamo anche, per lo meno la maggior parte di noi, che non possiamo allargare il governo sovrano d’Israele fin dentro la Giudea e la Samaria (Cisgiordania), per quanto legittimi possano essere le nostre rivendicazioni storiche. I nostri obiettivi sono diventati più chiari, e la nostra leadership ben più unita attorno ad essi. Ma ciò non rende il loro conseguimento più lineare.La dipartita di Arafat non ha aperto la strada a vistosi progressi. Né l’ha fatto la sostituzione di Assad col figlio inaspettatamente cocciuto. E l’Iran ha impiegato tutto lo scorso decennio a radicalizzare e destabilizzare l’intera regione, e non solo.Oggi, poi, proteggere la relativa sicurezza di cui godiamo è diventato ancora più complicato: i nostri nemici impongono lo scontro su teatri civili dove la natura delle battaglie che ne conseguono mette a dura prova la nostra moralità. Ed anche se ci battiamo per disarmare i nostri aggressori nel corso di guerre che con tutta evidenza scoppiano a causa delle loro aggressioni, veniamo rappresentanti in modo distorto e giudicati in modo scorretto; e intanto quel sostegno internazionale che era stato promesso va sfumando sempre più.Eppure, pur acuendosi la delegittimazione di Israele, le ambizioni rapaci e sanguinarie degli islamisti mettono in crisi in modo sempre più perentorio la fasulla affermazione secondo cui vi sarebbe Israele alla radice di tutti gli attriti del Medio Oriente e del rancore islamico. Nel 2001 l’America ha visto nell’11 settembre quella dichiarazione di guerra fondamentalista e quella formidabile sfida alle libertà occidentali che in effetti era, in modo così evidente. Viceversa la Gran Bretagna nel 2005 si è rifiutata di credere che le bombe del 7 luglio sui mezzi di trasporto pubblici di Londra rappresentassero la stessa cosa su scala ridotta. E molte altre nazioni nel mondo cercano ancora allo stesso modo di ignorare la minaccia islamista al loro interno e di eludere ciò che è manifesto, cercando di gettare la colpa su qualcun altro, a cominciare da Israele.Ma prima a poi, anche quelli come gli inglesi – molti dei cui accademici e sindacalisti e chierici e politici e insegnanti e giornalisti sembrano considerare l’estremismo islamista una comprensibile reazione al fatto stesso che Israele esiste – non potranno più tenere gli occhi chiusi. Non potranno più eludere a chiacchiere il fatto evidente che giovani fanatici assassini come Umar Farouk Abdulmutallab, già presidente della Società Islamica all’University College di Londra, non diventano i potenziali stragisti del giorno di Natale sul volo 523 delle Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit per via del fatto che il processo di pace in arabo-israeliano è incompiuto.Prima o poi, abbiamo detto? Sarebbe meglio prima che poi. […]Guardare semplicemente al lato positivo delle cose non basta. Ciò che dobbiamo fare, tutti noi che riconosciamo la vera natura delle sfide che Israele e il resto del mondo libero si troveranno ad affrontare nei prossimi anni, è adoperarci per far avanzare autentici sforzi di riconciliazione. E faremmo bene, ciascuno nel proprio campo, a lavorare duramente per svelare la minaccia posta da coloro per i quali riconciliazione è una parolaccia: e impedire che prevalgano. Il che significa un’azione concertata e unificata – nella sfera legale ed economica, nella diplomazia convenzionale e pubblica, nelle aree della difesa e della sicurezza – senza permettersi il logorante lusso di meschine liti e rivalità. Non c’è imperativo più vitale, in questo nuovo e cruciale inizio di decennio.

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