lunedì 11 gennaio 2010





Haganah guard sitting in the Arab sector of Hafia. April 1948


Rassegna stampa

La rassegna stampa odierna parte da una notizia di ieri: le autorità israeliane sono intenzionate a tutelare la lingua ebraica, parlata e scritta, cercando di rafforzarne la conoscenza e, confidiamo, la diffusione. Il problema, va da sé, non riguarda la sola Israele né gli ebrei ma demanda ad una dimensione ben più ampia, dove il teatro di confronto tra idiomi differenti riverbera un più generale conflitto, quello tra egemonie culturali distinte. La lingua è il vettore non solo della conoscenza e lo strumento principe della comunicazione ma l’abitacolo culturale dentro il quale cresciamo e maturiamo, costituendo, e condividendo, con i nostri pari, una idea del mondo e di noi stessi. Dentro la lingua sta il pensiero e il pensare. Non è un caso, allora, se la “costruzione” dell’ebraico moderno – lingua, al contempo, pontiere e cantiere: pontiere tra ebraismi distinti e cantiere aperto a ulteriori evoluzioni – sia un esempio di quello che la cultura anglosassone chiama «national building», ovvero l’insieme dei processi, molto spesso lunghi non meno che complessi, con i quali si arriva alla costituzione di una identità nazionale. Israele non sarebbe ciò che conosciamo se l’opera di Eliezer Ben Yehuda, e dei suoi epigoni, non avesse avuto felice e fattivo corso nel volgere di circa trent’anni. Ma essa, per sua stessa natura, rimane aperta agli apporti del mutamento sociale (che si riflette da subito, con una sorta di inesorabilità, sulle strutture vive di una lingua). Poiché la generazione di un idioma ha accompagnato la creazione di un collettività, ossia non il preesistente popolo d’Israele bensì il sopravveniente popolo israeliano, che era ovviamente tutto di là dall’esserci quando si iniziò a mettere mano alla matassa della sua costituzione. Ben venga, allora, l’idea di promuovere (più ancora che di tutelare) il proprio idioma poiché qualsiasi premessa allo scambio e alla condivisione tra popoli diversi presuppone una identità forte e, al contempo, aperta. È tale ciò che si basa non su una serie di principi ideologici cristallizzati (come avviene nel fondamentalismo) bensì sulla capacità di fare coesistere memoria della tradizione e processo di evoluzione. L’ebraico moderno, che ha affrancato l’idioma dalla sua più stretta declinazione liturgica, ha questa effervescente potenzialità. Il lettore può trovare lo stimolo a queste riflessioni in un “francobollo” comparso sull’Avvenire di giovedì 7 gennaio così come, sempre sulla rassegna di ieri, compare un articolo di Osvaldo Balducci, pubblicato su Liberal, dove prendendo spunto dall’anniversario della nascita di Ludwik Lejzer Zamenof, polacco di origine ebraica, inventore dell’esperanto, vengono dette diverse cose interessanti. Posto questo in esordio, la rassegna stampa di oggi non ci riserva particolari sorprese. Se l’attesa visita alla Comunità di Roma di Papa Benedetto XVI, la settimana entrante, sarà senz’altro oggetto di molti commenti, a quasi vent’anni da quella fatta dal suo predecessore, e se la stampa inizia a scaldare i muscoli in sua previsione, come nel caso odierno di Francesca Nunberg sul Messaggero e di Fabio Isman - quest’ultimo ci offre una breve storia del Tempio maggiore - allo stato attuale delle cose dobbiamo accontentarci di un repertorio non particolarmente effervescente di notizie. Continuano a tenere banco le convulsioni dell’Iran, sulle quali si sofferma l’Espresso con una intervista di Valeria Palermi allo scrittore Kader Abdolah, il quale fa un ritratto piuttosto impietoso dell’attuale situazione a Teheran. Il tema del terrorismo occupa le pagine dei quotidiani di inizio anno. Si parla perlopiù delle misure tecniche per prevenirlo ma il brivido che corre, tra le tante parole che si alternano negli innumerevoli articoli, è l’impronunciabile timore che qualcosa alla quale abbiamo già assistito, una tragedia delle proporzione dell’11 settembre, possa concretamente ripetersi. Non saremmo capaci, in tutta onestà, di farvi adeguatamente fronte poiché molte delle frecce al nostro arco già le abbiamo esaurite nei dieci anni trascorsi, quando la precedente Amministrazione americana intraprese una serie di iniziative militare per affrontare di petto il fenomeno. Pensare di poterlo sradicare una volta per sempre è, purtroppo, una illusione, ancorché più che legittima. Le attività di prevenzione, come quelle raccontate oggi da Nicole Neveh, quando scrive su l’Avvenire nel merito delle misure di sicurezza assunte da Gerusalemme contro ulteriori aggressioni da parte di Hezbollah e Hamas, o da il Foglio riguardo al “muro del Cairo” contro la Gaza fondamentalista, sono imprescindibili ma non sufficienti. Inoltre, ai tragici eventi si sommano, in una sorta di prevedibile ancorché sgradevole psicosi da emulazione, sia le fobie collettive che le pagliacciate individuali, come quelle raccontate da il Giornale riguardo alle intemperanze di un passeggero di un volo americano. Nei desk degli analisti si ragiona invece su quale sia la politica di efficace contenimento che può essere realizzata. L’andamento, assai poco confortante, del conflitto in Afghanistan, insieme alle difficoltà in cui versa il Pakistan – l’asse Afgpak, come certuni l’hanno definito - inducono a pensare che i rischi siano molti. Non di meno, troppo spesso ci dimentichiamo che altri fronti sono aperti, a partire dall’Indonesia, dallo Yemen (ora assurto ad improvvisa “notorietà”), dalla Somalia e, sia pure in misura diversa, da buona parte dei paesi islamici, dove le élite al potere sono duramente contestate attraverso il ricorso, molto spesso, alla lotta armata. Un nuovo capitolo di questa storia ci è raccontato dagli articoli sulle violenze contro la minoranza cristiana copta in Egitto, delle quali si occupa Cecilia Zecchinelli per il Corriere della Sera, con una intervista, sempre sulla medesima testata a padre Giuseppe Scattolin e un articolo di inquadramento di Armando Torno. Anche il Foglio si sofferma su quelle che chiama, con efficace e amara ironia, «le nuove piaghe d’Egitto», con un articolo di cronaca e l’analisi di Carlo Panella. Dovrebbe essere oramai evidente che alla base di tutto ciò si pongono due problemi di fondo, in sé ineludibili: il primo è quello che un tempo si chiamava «questione sociale», ovvero il modo in cui le popolazioni di quei paesi sono coinvolte nella redistribuzione delle ricchezze prodotte. Poiché laddove c’è violenza civile, molto spesso, sussistono disparità e ineguaglianze intollerabili tra i medesimi civili. Da questo punto di vista, il fallimento delle classi dirigenti locali lo si registra propriamente sul metro della incapacità di riuscire a garantire una dignitosa esistenza ai propri connazionali. Non ci si illuda, insomma: se si trascura la cura della comunità una parte di questa si rivolterà contro. Non è il caso di disquisire sulla manipolazione che i vari fondamentalismi fanno del disagio sociale. (Né di abbandonarsi a facili è gratuiti sociologismi.) Va da sé che le cose stiano anche in questi termini, ovvero derivino dall’uso politico della sofferenza altrui. Ma non basta partire da tale premessa per pensare di avere colto il nesso legittimante delle violenze e del terrorismo islamista, che prolifera laddove non c’è speranza per il futuro, coniugandosi al cinismo depresso dei kamikaze con la carta di credito. Uccidere, per molti di costoro, ha la potenza di un afrodisiaco dello spirito. E poiché nessuno nasce cattivo ma molti lo diventano c’è da chiedersi per davvero quale sia la strategia più efficace per spezzare un circuito perverso, necrofilo, che se lasciato a sé rischia di riprodursi all’infinito. Il secondo ordine di considerazioni ha a che fare con un non meno complesso insieme di problemi, riconducibili alla compatibilità tra Islam e democrazia. Non si tratta di una mera questione politica, poiché la democrazia non è solo un insieme di regole da rispettare ma un abito mentale che richiede d’essere indossato ogni giorno, nessuno escluso. E la si pratica solo se si è convinti della intrinseca preferibilità della medesima rispetto ad altri criteri di gestione del conflitto tra interessi. Fino a che punto i paesi nei quali prevale o dominano le culture musulmane la democrazia può avere uno spazio? Difficile trovare un equilibrio tra il bisogno di risposte e il timore di nuovi, futuri drammi.Claudio Vercelli, http://www.moked.it/

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