mercoledì 13 gennaio 2010


Israeliani e palestinesi insieme Una pace sull'acqua del Giordano

Rapporto sul Good Water Neighbors: il progetto intende costruire rapporti di buon vicinato fra le due comunità, unite dal fiume che attraversa Libano, Siria, Giordania, Israele e i territori palestinesi. Verrà creato un parco naturale che diventerà una zona franca liberamente accessibile
Tel Aviv, 12 gennaio 2010 - Il fiume Giordano è un protagonista silenzioso della crisi mediorientale e lungo le sue rive israeliani, palestinesi e giordani dialogano per ripartirsi equamente l’unica risorsa idrica che può garantire la sopravvivenza di nazioni che non hanno buoni rapporti di vicinato.Il Giordano ed i suoi affluenti formano un singolare bacino idrico transfrontaliero che attraversa Libano, Siria, Giordania, Israele ed i territori dell’Autorità Palestinese. Nessuno di questi paesi può utilizzare le acque del Giordano o dei suoi affluenti a prescindere dagli altri paesi rivieraschi cosicché, per l’approvvigionamento idrico, tutti dipendono da tutti.Se si fa eccezione per il Libano e la Turchia, nella Regione Medio Orientale la siccità è un problema all’ordine del giorno e la human security è ben più di una questione militare: essa dipende innanzitutto dall’approvvigionamento idrico che, in regime di penuria, esige soluzioni concertate a livello politico, sociale, giuridico, tecnologico ed ambientale.Il fiume Giordano nasce dalla confluenza dei torrenti siriani Banias, Hasbani e Dan, entra in Israele, forma il lago di Tiberiade (noto anche come lago Kinneret o mare di Galilea), ne esce per ricevere l’affluente giordano Yarmuk, sfocia nel Mar Morto. Gli interventi dei paesi rivieraschi sugli affluenti e sul bacino di Kinneret, sia attraverso i canali di deviazione delle acque che attraverso gli scarichi, civili, agricoli e industriali, nonché la presenza di sorgenti salate e termali sulla riva occidentale del lago di Tiberiade, creano un allarme costante sia per l’abbassamento del livello delle acque (in passato il fiume scaricava nel Mar Morto circa 1.200 milioni di metri cubi di acqua che oggi si sono ridotti ad appena 100-200 milioni di metri cubi) sia in termini di degrado qualitativo (crescente tasso di salinità ed inquinamento).La scarsità d’acqua ha sempre costituito in quest’area un catalizzatore determinante nella definizione dei confini e degli strumenti giuridici di cooperazione fra le comunità locali.Dopo la fine dell’impero ottomano, che comprendeva l’intero bacino del Giordano sotto un’unica sovranità, a partire dal 1918 la questione idrica ha costituito uno degli elementi determinanti del negoziato franco – britannico per la definizione dei confini del territorio palestinese (allora protettorato britannico) sia rispetto alla Siria - sotto protettorato francese (l’accordo approvato dalla società delle Nazioni nel 1923 prevedeva che il Lago di Tiberiade restasse in territorio palestinese e che il confine con la Siria corresse dieci metri più in là del bordo del lago, pur riconoscendo ai siriani i diritti di pesca e di navigazione sul lago, nonché a est del fiume Giordano. Dal confine internazionale così stabilito si discostò di poco la linea dell’armistizio concordata nel 1949 fra il neonato stato di Israele e la Siria) – che rispetto alla Transgiordania (benché nel 1922 entrambi i territori fossero sotto protettorato Britannico l’alto commissario britannico per la Palestina chiarì a W. Churchill che il confine fra i due territori correva nel mezzo del fiume Giordano). Nel 1953 Eisenhower inviò Eric Johnston come mediatore per la definizione di un accordo sulla ripartizione dell’utilizzo delle risorse idriche del bacino del Giordano fra Siria, Libano, Giordania ed Israele. Il piano di distribuzione, definito nel 1955, ripartiva, sulla base del principio di equità, circa il 60% delle risorse idriche del suddetto bacino fra Siria,. Libano e Giordania (consentendo a quest’ultima di costruire una diga a Maqarin sull’affluente Yarmuk) e riconosceva ad Israele l’utilizzo del restante 40%. Benché avversato dalla Lega Araba, il piano Johnston fu in effetti attuato da Israele e Giordania e sebbene non sia divenuto oggetto di una convenzione internazionale ha costituito de facto il punto di partenza di un dialogo e di una cooperazione fattiva che, sul tema dell’approvvigionamento idrico, è continuata fra i due paesi anche durante il successivo conflitto arabo israeliano ed ha facilitato il perfezionamento del trattato di pace che venne siglato fra Israele e Giordania il 26 ottobre 1994 (una specifica previsione del Trattato di pace – l’art. 6 - recepisce il principio di equa distribuzione delle risorse idriche fra i due paesi).Anche la Dichiarazione dei Principi firmata dopo la Prima Intifada, nel 1993, da Rabin e Arafat alla Casa Bianca davanti al presidente Clinton ha introdotto il principio di cooperazione fra israeliani e palestinesi per la gestione delle risorse idriche. Nel 1995, con la firma della seconda parte degli accordi di Oslo e la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese, venne altresì costituito un Joint Water Committee permanente con rappresentanti dello stato di Israele e della Autorità Nazionale Palestinese (c.d. JWC). Gli accordi contengono l’esplicito riconoscimento da parte di Israele dei water rights palestinesi nella West Bank. Il Joint Water Committee israeliano-palestinese è l’unica istituzione di cooperazione sopravvissuta dopo il collasso degli accordi di Oslo ed ha continuato ad operare, attraverso gli anni della Seconda Intifada, fino ad oggi.La storia del Giordano e del suo bacino mostra che proprio l’acqua di questo fiume ha costituito nel corso del secolo scorso un’occasione di cooperazione piuttosto che di conflitto fra le nazioni rivierasche.Questa intuizione è alla base dei numerosi progetti di cooperazione promossi da una importante organizzazione non governativa mediorientale. Ho conosciuto il suo presidente, Gidon, la sera dell’ultimo dell’anno, nel corso di una festa cosmopolita che si è tenuta sul suo terrazzo, fra i tetti di Tel Aviv. Mi ha spiegato che funzionari israeliani, palestinesi e giordani lavorano insieme per individuare le comunità locali che, proprio perché collocate sulle opposte rive del fiume, sono legate da una comune dipendenza dall’unica risorsa idrica. L’idea è che questa dipendenza possa costituire la base per sviluppare il dialogo e la cooperazione trasfrontaliera sulla gestione sostenibile dell’acqua. Il progetto pilota si chiama Good Water Neighbors (GWN) e intende costruire “sull’acqua” dei buoni rapporti di vicinato. L’anno scorso docenti e studenti della scuola di Architettura ed Urbanistica della Yale University si sono riuniti a Tel Aviv e ad Amman con i loro colleghi giordani, palestinesi ed israeliani al fine di elaborare – nel corso di una charrette durata sei giorni - il progetto di un Parco naturale transfrontaliero che dovrebbe sorgere dieci chilometri a sud dell’estrema punta meridionale del mare di Galilea, alla confluenza del fiume Yarmuk con il Giordano. Il parco dovrebbe includere la dismessa centrale idroelettrica di Rotenberg, che diventerà un centro visite e di osservazione per il birdwatching, e i tre ponti storici che attraversano il fiume: quello romano, costruito duemila anni fa, il ponte ferroviario ottomano ed il ponte britannico, costruito durante il protettorato per il transito dei veicoli. Nessun essere umano, treno o veicolo ha più attraversato quei ponti dal conflitto arabo israeliano del 1948. Sessant’anni dopo, l’università, un’organizzazione non governativa ed un gruppo di amministratori locali hanno concepito il progetto di creare un parco naturale che dovrebbe servire non solo a preservare le rive del Giordano ma anche a creare una zona franca, liberamente accessibile ed in grado di attirare una quota sempre maggiore di quei sessanta milioni di turisti che dall’Europa e dal Nord America ogni anno si spostano verso mete ecoturistiche, così da generare anche una fonte di reddito per le comunità delle opposte rive del fiume.Nella terra di Giuda scorre un fiume che oggi come un tempo reca una promessa e riapre il cuore verso il limpido cielo di Sion. Chiara Alvisi (Professore dell’Università di Bologna)

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