Quanto più la Shoah si allontana nel tempo e i pochi sopravvissuti, bambini o adolescenti durante la persecuzione nazista, diminuiscono ogni anno, tanto più diventa rilevante e imprescindibile il ruolo della letteratura per tramandare la memoria di quell’orribile crimine e tenere vivo il ricordo di coloro che non sono tornati per “raccontare”.In occasione della Giornata della memoria abbiamo scelto per i nostri lettori alcuni testi di saggistica e narrativa fra le ultime novità proposte dalle case editrici italiane.Leggere per non dimenticare
Nato nel 1923 a Berlino da padre ebreo e madre tedesca, Gad Beck ha raccolto le sue memorie sotto il titolo Dietro il vetro sottile pubblicate da Einaudi. Come sopravvivere dopo che Hitler, nel 1923, mise al bando gli omosessuali e Himmler progettò la pulizia sessuale della razza ariana. Beck si impegnò nella resistenza clandestina, fu tradito da una spia, arrestato e torturato. Tornò libero solo con l’arrivo dell’Armata Rossa e nel 1947, andò a vivere in Palestina per tornare a Berlino nel 1979. “Dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz” scriveva Adorno. Una verità da cui sgorga La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Edizioni Salomone Belforte & C., testo originale ebraico a fronte con prefazione di Gianfranco Fini). Si tratta di un’antologia di poeti appartenenti a varie generazioni: chi, come Yitzak Katzenelson e David Vogel, morì nel lager; chi, durante la seconda guerra mondiale già si trovava nella Palestina mandataria. Il titolo del libro è un verso di “Mezzanotte” di Shin Shalom: “La notte tace. Io invece rimango nella strada lunga e vuota e grido.Anna Frank, Primo Levi sono i nomi che vengono alla mente nel leggere questo straordinario romanzo autobiografico di Zdena Berger, Raccontami un altro mattino (Baldini Castaldi Dalai) Con una prosa semplice ma molto incisiva l’autrice riesce a far partecipe il lettore di un orrore intollerabile. Ma fortunatamente trionferanno la volontà di non soccombere, la speranza di un futuro possibile che non viene mai meno, la capacità di ritrovare il coraggio nel più piccolo dei gesti. Uscito per la prima volta in America nel 1961, il libro ebbe un grande successo, benché in seguito fu per lungo tempo dimenticato. Ripubblicato ora in America e per la prima volta in Italia, è un testo che lascia un’emozione indimenticabile, una pietra miliare in ricordo di quanti sono morti nella Shoah, un monito per far comprendere ai giovani il significato di parole come persecuzione, fame e morte, ma anche per far scoprire l’importanza dell’amicizia e della solidarietà.
Pubblicato da Tropea a cura di Laurel Holliday, ex insegnante universitaria e psicoterapeuta, Ragazzi in guerra e nell’Olocausto è la prima sconvolgente raccolta di diari tenuti da bambini e ragazzi di ogni parte d’Europa durante la Seconda guerra mondiale. Dai ghetti della Lituania, della Polonia, della Lettonia e dell’Ungheria ai campi di concentramento di Terezìn, Stutthof e Janowska, dalle strade bombardate di Londra alla prigione nazista di Copenaghen, queste pagine sconosciute al grande pubblico e conservate in poche copie superstiti, raccontano che cosa significhi per un adolescente vivere ogni giorno con la consapevolezza che può essere l’ultimo. Eppure in situazioni tanto drammatiche la scrittura diventa testimone di una irriducibile voglia di vivere.Il diario per questi ragazzi diventa un sostegno, un amico cui confessare le proprie paure ma al tempo stesso una forma di resistenza alla follia dei tempi. Un modo per salvaguardare la propria umanità e quella degli altri.La Shoah è il luogo e il tempo dove anche le parole e non solo le vite vengono sfigurate, assumono un volto nuovo. Gli ebrei caricati sui treni merci erano stucken, “pezzi”. Giornalista e regista, Leoncarlo Settimelli, in Le parole dei lager. Dizionario ragionato della Shoah e dei campi di concentramento (Castelvecchi), spiega queste parole e questi nomi, in un modo piano e comprensibile al grande pubblico, da Antisemitismo a Zyklon B passando per kapò, Impiccagioni e Tifo petecchiale. Corredato di repertori e bibliografia, costituisce un utile strumento per conoscere e capire.L’infanzia a Budapest, il divorzio dei genitori, il rapporto coi nonni e la matrigna, l’esperienza dei lager e il ritorno in Ungheria, il partito comunista e l’era Kàdàr, il premio Nobel e la depressione. Dossier K di Imre Kertész è un romanzo autobiografico in forma di dialogo, il cui ritmo si snoda su domande capitali e pone il lettore nella condizione di muovere intelligenza ed emozioni. Ironico e penetrante, l’autore si mette a nudo e traveste da intervista il suo testamento letterario, filosofico ed esistenziale.Tami Shem Tov è un’autrice israeliana che dedica i suoi libri all’adolescenza. In Italia è stato pubblicato dalla casa editrice Piemme Ci vediamo a casa, subito dopo la guerra, un libro che prende avvio da una storia vera e avvalendosi di una documentazione tangibile costruisce un romanzo che è uno scambio di attese, paure e sogni. Tutto dentro lo sterminio. La protagonista è una bambina e attraverso i suoi occhi e le parole, i disegni che il padre le manda diventano il meccanismo di sopravvivenza trasfigurando l’orrore della Shoah in qualcosa di diverso, quasi irreale.Come gli scrittori sopravvissuti hanno raccontato l’esperienza dei lager, la costruzione letteraria della memoria concentrazionaria. E’ il tema del saggio di Carlo De Matteis Dire l’indicibile edito da Sellerio. Dalla “specie umana” di Robert Antelme alla “notte” di Elie Wiesel, dal racconto “come necessità e liberazione” (Primo Levi) al “dovere d’essere ebreo” (Jean Améry), dalla memoria dialogica di Ruth Kluger alla “necropoli” di Pahor, alle voci di donne (Edith Bruck, Zdena Berger, Charlotte Delbo), alla deportazione come “avventura adolescenziale” (Imre Kertész).E’ una vicenda ispirata a una storia vera Daniel Stein, traduttore di Ludmila Ulitskaya, pubblicato da Bompiani a cura di Elena Kostioukvitch. L’autrice che è nata nel 1943 nella regione degli Urali, direttrice artistica del teatro Ebraico oltre che membro del parlamento culturale europeo ci regala con questo libro un intreccio di esistenze: dalla vecchia comunista finita in un ospizio israeliano all’ex dissidente diventato fanatico ultrareligioso a Hebron, alla monaca tormentata, al medico salvatore di ebrei, a Daniel Stein, chissà, forse uno dei trentasei giusti. Gli ebrei lituani, da un’occupazione all’altra, dall’Unione Sovietica alla Germania nazista e ritorno all’Urss. Sullo sfondo di un clima profondamente antisemita, a cominciare dalla stessa Lituania, Igor Argamante, un russo-polacco naturalizzatosi italiano durante la guerra, rievoca quell’epoca nel libro intitolato Gerico 1941 (Bollati Boringhieri). L’autore che vive a Trieste nelle sue storie di ghetto e dintorni, a Wilno barricata come Gerico, ci regala un ritratto nitido, impavido dell’animo umano: tra debolezze, meschinità, ambizioni, tradimenti e fedeltà.Chi sopravviveva dopo lunghi giorni trascorsi, in condizioni disumane, insieme ad altre decine di deportati, nei vagoni dei treni che da varie località d’Europa conducevano gli ebrei alla loro ultima destinazione si trovava dinanzi, al termine del viaggio, la rampa.La “rampa degli ebrei” era quel punto della terra dove i treni merci si fermavano e vomitavano il loro carico umano, destinato per la gran parte alle camere a gas e ai forni crematori. Se c’è un luogo che assomiglia all’inferno è proprio quello. Anna Segre, psicoterapeuta e Gloria Pavoncello, sociologa, hanno intitolato così, Judenrampe (Elliot), il saggio che contiene una raccolta di testimonianze preziose di ebrei catturati in Italia e a Rodi, in Ungheria, Croazia, Libia giunti in quell’inferno e tornati. Ognuno racconta con parole proprie l’orrore indicibile, mentre le curatrici con estrema sensibilità veicolano le emozioni più profonde fra una parola e l’altra.Con l’arrivo degli anglo-americani da ovest e dell’Armata Rossa da est, nei mesi che vanno dall’aprile 1944 alla primavera del 1945, molti dei settecentomila detenuti ancora presenti nei campi di concentramento, già stremati da mesi di privazioni e violenze, sono costretti ad un nuovo supplizio: le cosiddette “marce della morte”. Per ordine di Himmler, capo supremo delle SS, nessun detenuto sarebbe dovuto cadere vivo nelle mani del nemico.
I prigionieri erano costretti a camminare per chilometri in condizioni disumane per raggiungere i campi di raccolta e chi non riusciva a rimanere allineato in fila con gli altri oppure chi aveva ancora la forza di tentare la fuga veniva trucidato dalle guardie.Nel saggio Le marce della morte edito da Rizzoli, Daniel Blatman, docente di storia degli Ebrei dell’Europa orientale e Storia dell’Olocausto presso l’Avraham Harman Institute of Contemporary Jewry dell’Università ebraica di Gerusalemme, supera l’approccio assunto nei dibattiti processuali del dopoguerra, che si concentrano sull’aspetto amministrativo e burocratico e quello di molta storiografia degli anni ’60 e ’90, che considera la fase dell’evacuazione solo come “l’ultimo atto omicida di matrice ideologica nel contesto della soluzione finale”. Per la prima volta le marce della morte non sono più considerate come epilogo della vita dei campi di concentramento, ma come momento centrale della storia del genocidio nazista, avviato nel 1941 e conclusosi con la fine della guerra. Con una scrittura scorrevole, lo storico israeliano indaga l’identità e le motivazioni di carnefici, vittime, liberatori oltre che dei civili tedeschi che spesso negli ultimi mesi di guerra in una quotidianità carica di forte drammaticità si trasformarono in occasionali carnefici. Giorgia Greco
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