lunedì 11 gennaio 2010



La narrativa ebraico-americana. Perché ha senso raccontare sempre la stessa storia

Non è una novità che gli ebrei raccontino sempre la stessa storia. Chiunque abbia partecipato alle celebrazioni per Simchat Torah sa che quando la congregazione finalmente arriva all'ultima frase della Torah, prende un profondo respiro, gira su se stessa un paio di volte, beve un bicchierino, e poi, senza indugio, rinizia la lettura dal principio. Così non ci vuole la critica per notare che la narrativa ebraico-americana è, nello stesso modo, fondamentalmente ripetitiva. Sin da quando gli ebrei americani hanno iniziato a scrivere romanzi, nella metà del XIX secolo, hanno ripetuto quasi ossessivamente le stesse trame. Con la pubblicazione del mio libro American Jewish Fiction: A JPS Guide ho voluto offrire ai lettori un senso del perché gli scrittori hanno fatto così. Decidendo quali libri trattare e quali invece escludere, ho cercato non soltanto di rappresentare la varietà all'interno di questo canone, ma anche evidenziare le sue storie chiave, quelle che ritornano di generazione in generazione. Perché gli ebrei americani continuano a scrivere e a leggere le stesse storie? In alcuni casi, la risposta è chiara. In un certo senso l'esperienza ebraico-americana inizia su un molo d'Europa e di conseguenza moltissimi romanzi raccontano storie d'immigrazione. Charles Reznikoff, per esempio, in By the Waters of Manhattan (1930) dedica metà delle pagine al Paese natio, mentre Call it Sleep (1935) di Henry Roth inizia con il protagonista che sbarca da una nave. Maestri come Sholom Aleichem e Franz Kafka scrissero storie sul loro arrivo in America (l'ultimo senza mai mettere piede sul nuovo continente); più tardi, in inglese e yiddish, gli scrittori descrissero il destino dei rifugiati e dei profughi, come fece I.J. Singer in Di mishpokhe Karnovski (1943). Il discorso sulla dislocazione è stato così centrale nell'esperienza ebraica che un critico di fama come Irving Howe dichiarò che nel momento in cui gli ebrei avrebbero perso la memoria delle personali e famigliari storie d'immigrazione, non sarebbero stati più capaci di produrre opere letterarie di rilievo. Howe si sbagliava - così come tutti gli studiosi di letteratura ebraico-americana hanno dimostrato - per almeno due ragioni. Primo, l'immigrazione non è mai finita e giovani immigrati come Gary Shteyngart e Anya Ulinich hanno recentemente ridato vita al genere raccontando con sarcasmo l'incontro post-sovietico con gli Stati Uniti. Secondo, l'immigrazione è soltanto uno dei temi intorno ai quali gli ebrei girano in continuazione. Ancora più regolarmente rivisitata è la trama, eufemisticamente definita, dell'amore interculturale. Tutti ricordano l'Alexander Portonoy di Philip Roth e la sua passione per le bionde non ebree: dal Nathan Mayer di Differences (1867) in poi, gli scrittori hanno consumato litri di inchiostro sulla questione dell'uomo ebreo che frequenta donne non ebree, dentro e fuori dal letto. Gli scrittori maschi non sono stati gli unici a raccontare le relazioni tra ebrei e non ebrei: iniziando con Other Things being Equal di Emma Wolf, la stessa storia d'amore è stata raccontata quasi lo stesso numero di volte con i generi rovesciati. E' chiaro perché questo tema ritorna ancora e ancora: come ha fatto notare Leslie Fielder in Love and Death in the American Novel (1960), storie d'amore tra due individui provenienti da contesti diversi servono come veicolo per meditare sui gruppi che quegli individui rappresentano. Quale maniera migliore per mettere in vita sulla pagina il rapporto d'amore tra gli Ebrei e l'America che investirlo con i dettagli di un corteggiamento sessuale? Centrale, questo aspetto della narrativa ebraico americana ha radici che risalgono, nei testi ebraici, a Giuseppe e la moglie di Putifarre o a Sansone e Dalila.. Altri temi ricorrenti nella fiction ebraico americana sono la Shoah e la sua memoria, Israele e il sionismo, la Kabbalah e il misticismo e l'eredità degli ebrei impegnati politicamente a sinistra. Questi soggetti ritornano nella narrativa perché sono presenti in tutti gli altri forum nei quali gli ebrei si riuniscono per discutere di identità, tradizione e credenze: nelle scuole, nelle sinagoghe, sui giornali e sulle riviste. Storie che si concentrano su questi elementi della storia e della vita ebraica forniscono significati per gli ebrei di oggi e proiettano una visione di autenticità ebraica in un mondo che fa fatica a definire l'ebraicità. E' soltanto una questione di gusti se un autore sceglie un soldato dell'esercito israeliano, un mistico, un radicale o un sopravvissuto come il suo ebreo ideale. Con rare eccezioni, gli autori della fiction ebraico americana sono ritornati a queste storie con insistenza nel corso delle loro carriere. Ancor di più, però, l'aspetto più intrigante di questa letteratura, considerata nel suo insieme, è la sua spinta costante a ri-immaginare l'esperienza ebraica, a riformularla continuamente nei suoi termini più contemporanei. Non mi spingo a dire della narrativa ebraico americana quello che Ben Bag Bag dice della Torah nel Pirkei Avot - non è proprio vero che c'è tutto dentro - ma le storie che i suoi autori raccontano sono così pienamente rilevanti per le nostre vite che vale la pena tornarci e ritornarci, ancora e ancora. Josh Lambert, The Forward http://www.moked.it/

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