martedì 16 febbraio 2010



Ezio Mauro

Il coraggio di essere “contro”Intervista a Ezio Mauro

Israele, i palestinesi, il nuovo razzismo. L’intollerabile atteggiamento dell’Italia verso l’Iran, in nome del business. L’importanza di essere intellettualmente onesti per praticare un giornalismo dei fatti. Parla Ezio Mauro, direttore de La Repubblica.La Harvard Kennedy School e la Nieman Foundation for Journalism hanno consegnato nell’ottobre scorso ad Ezio Mauro, direttore da più di 14 anni (1996) del quotidiano La Repubblica, un encomio per il ruolo svolto dal quotidiano “in un momento di grave pericolo per la libertà di stampa in Italia”. Il riconoscimento è venuto dopo un serrato confronto di quasi otto mesi con il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Da più parti è stato detto che Ezio Mauro aveva trasformato il giornale in una sorta di partito, altri si sono spinti a indicarlo come segretario ideale del Partito Democratico. Il direttore ha liquidato questi argomenti: “Abbiamo un forte rapporto con i lettori, confermato dai brillanti dati di vendita. E poi sarebbe davvero uno strano partito questo, fatto di carta, inchiostro, qualche idea e un po’ di buone ragioni”. A Mauro abbiamo chiesto come la pensa in fatto di media e informazione sul Medioriente e del perché così spesso il quotidiano che dirige venga “percepito” poco equidistante sulla questione.Perché i giornalisti in generale, e La Repubblica in particolare, sono considerati spesso faziosi quando affrontano temi che toccano Israele e questione palestinese?Gli approcci fideistici non sono mai un buon metodo. Credo di stare con Israele ma questo non vuole dire non riconoscere i diritti dei palestinesi. Il nostro lavoro è stato sempre quello di affermare insieme i due diritti, che non sono divisibili in termini morali e politici. Il fatto che attraverso La Repubblica una certa parte della società italiana, e perfino della politica, abbia sentito di dover riconoscere il diritto di Israele di vivere in sicurezza mi sembra un risultato importantissimo. Tutti i leader politici, da Itzchak Rabin a Benjamin Netanyahu, hanno chiesto un’assunzione di responsabilità verso il destino di Israele: lì, in Israele, ci sono un Parlamento, delle istituzioni, un’affinità di valori di fondo che rendono la democrazia un fatto naturale. Chiunque appartenga a una sinistra, riformista, democratica, occidentale non può non riconoscere che è l’unica democrazia in quel pezzo di mondo e che deve battersi per il suo diritto all’esistenza. Ma allo stesso tempo deve affermare il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato. Ogni sforzo è utile se favorisce il processo di pace in Medio Oriente ma è davvero sbagliato invece ritenere che gli affari, il business, ci consentano di poter sottovalutare il pericolo iraniano. Trovo intollerabile che il governo italiano a volte si scusi di mantenere un rapporto con Paesi al limite dell’impresentabile, i cui leader minacciano la sicurezza di Israele o mettono in discussione la sua esistenza, per via dei forti rapporti commerciali. Non è accettabile questa furbizia velleitaria, la nostra identità democratica deve fornire punti fermi e dare in ogni caso una scala di valori dentro cui muoversi. Agli scambi commerciali e alle opportunità di business bisogna anteporre la coscienza di ciò che siamo, come Paese, in questo pezzo di mondo: se ricordiamo che questa è terra di diritti e di democrazia dovremmo ritenere insopportabili parole di odio, come quelle del presidente iraniano Ahmadinejad. È possibile per un giornalista mantenere equidistanza sul tema Israele-palestinesi?Anche per i veterani, per i giornalisti più avanti di età che sono stati molte volte in quei posti, che sono carichi di esperienza storica, c’è un’esperienza maturata sul campo che considero fondamentale per poter dare un giudizio. Sentono il peso del divenire, analizzano i fatti, i processi di cambiamento e poi giudicano. Sarebbe diverso se ci fosse una soluzione comoda, magari più cinica, ma non c’è, si tratta di mettere insieme le ragioni degli uni e degli altri: la pace passerà solo attraverso questo principio e alla fine si torna sempre su questo punto, dobbiamo farcene carico in termini intellettualmente onesti. Certo, la cosa non significa usare il bilancino, ognuno ragiona con la sua testa, non esiste l’equidistanza perfetta. Chi ha conosciuto Arafat, chi ha visto le spinte verso la pace di Rabin o oggi le mosse di Netanyahu è giusto le descriva. Se intravvede le intenzioni di un leader in una certa direzione o qualcuno lo delude per i suoi tentennamenti, magari a un passo da accordi storici, è giusto che esprima una posizione netta. Allo stesso modo sentire il peso di certi soprusi che i palestinesi sono costretti a subire non significa non denunciare come errori le loro azioni di terrorismo verso Israele per le gravi conseguenze che comportano. Ritengo assolutamente legittimo poter valutare via via l’operato di un governo a seconda delle circostanze, al di là delle scelte di fondo. Faccio un esempio: il giudizio su Bush e la sua politica è stato radicalmente diverso da quello espresso su Obama ma questo non c’entra col fatto che io abbia sempre pensato di avere un destino comune con gli Usa. Personalmente spero, quando avrò finito di dirigere La Repubblica, di poter vivere qualche anno in America.Non è preoccupato da forme di razzismo che sembrano aumentare ogni giorno di più in Italia?Sì, molto. Nell’intera faccenda di Rosarno, ad esempio, è emersa per la prima volta la figura razzista dell’uomo bianco che gira di notte col fucile sul sedile, per sparare a un nero come a un gatto, a un barattolo, un po’ come accadeva negli Stati del sud degli States negli anni Cinquanta. Nel caso di Rosarno, i giornali di destra hanno convenuto che questa volta avevano ragione i “negri”, come li chiamano loro, ma lo hanno fatto senza essere consapevoli di avere evocato questa figura dell’uomo bianco come antitesi di altre identità umane. E allora io dico: stiamo attenti ai passaggi sotterranei del linguaggio e del pensiero. Quando certi giornali scrivono “non si spara al negro” lo dicono da uomo bianco a uomo bianco, quando affermano che i negri minacciano i diritti dell’uomo bianco stanno tirando fuori una figura, una categoria che l’Italia non aveva ancora conosciuto. Chiudersi dentro identità sempre più piccole porta a questo, un passo più là c’è la questione della razza. È mai stato in Israele? Sì, con mia moglie - dopo aver letto e studiato la letteratura, che amo molto, le vicende storiche, la questione religiosa - e una preziosa compagna di viaggio, Angela Polacco. Ci ha aiutato a capire le pieghe della realtà israeliana e dei processi storici e politici. Ho nostalgia di Gerusalemme, dei suoi colori.Ha amici ebrei?Sono molto amico di Gad Lerner e Claudia Fellus, consigliere della Comunità ebraica di Roma. Ma la persona cui sono più legato è Amos Luzzatto, che mi viene spesso a trovare. Ho sempre ammirato il suo rapporto con i giovani, così come ho avuto modo di parlare spesso con Rav Elio Toaff. A proposito di Luzzatto, fu proprio lui un giorno a dirmi una cosa importante, quando Gianfranco Fini stava preparando il viaggio in Israele: “Fini non può andare a regolare i suoi conti con Israele e la sua storia senza farlo prima con la Comunità ebraica italiana. Bisogna che questo passaggio avvenga e subito. C’è un unico pezzo di terra, un unico luogo in Italia dove può avvenire, ed è il tuo giornale, La Repubblica. Hai voglia di farlo?”.Gli dissi subito sì. Allora non conoscevo Fini, quando venne qui volli incontrarlo da solo: “Deve sapere questo, sono antifascista e sono di Dronero, in provincia di Cuneo. Nella mia terra la Resistenza si è fatta davvero. Caro Fini, ci tengo lo sappia, questo è il segno del nostro incontro, che deve avvenire nella schiettezza e nella coscienza della nostra diversità”. ”Non c’è problema”, mi rispose Fini e quella è stata la premessa di un buon rapporto tra noi, tra diversi, tra un direttore di giornale e un’autorità istituzionale.Quel dibattito è stato un evento storico, la stanza era piena, c’era una forte tensione positiva, la volontà di tutti di produrre qualcosa di utile. Per la prima volta Fini disse che “il fascismo è un male assoluto”, condannò pubblicamente le Leggi Razziali del 1938. Fu un gesto importante, più importante ancora è che, anni dopo, lo abbia ripetuto ai giovani del suo partito. In quella circostanza ho apprezzato l’intelligenza di Amos, con la sua iniziativa aveva reso impossibile eludere il confronto con la Comunità ebraica italiana e la sua memoria storica. Sono contento di essere stato testimone di quell’evento, di essere stato lì, al posto e nel momento giusto.di Giorgio Secchi http://www.mosaico-cem.it/

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