mercoledì 24 febbraio 2010


Il modello israeliano supera il test della recessione globale

È un piccolo miracolo economico. Israele è emersa per prima da una recessione breve - solo due trimestri di contrazione - ha adottato per prima una rapida exit strategy e oggi corre rapidamente a un ritmo del 4,4% annualizzato. Il suo principale problema ora è - o forse sarebbe meglio dire è tornato a essere - l'inflazione: è oggi al 3,8%, mentre il livello desiderato dalla banca centrale è compreso tra l'uno e il tre per cento.La ripresa è ancora fragile: è tutta legata a un boom delle esportazioni - cresciute del 33% annualizzato negli ultimi tre mesi del 2009 - che a sua volta dipende dalla tenuta della domanda europea, il vecchio continente è il principale partner commerciale del paese. Gli investimenti si sono presi una pausa di riflessione, a fine 2009, dopo un rimbalzo in primavera e in estate, mentre la domanda al consumo ha leggermente rallentato.Il paese sembra però in una situazione migliore di tante altre economie, anche ricche, e in ogni caso il rapido recupero dell'economia ha sorpreso molti. L'intero 2009 si è chiuso con una crescita zero, e il paese sembra riuscire a far leva sulla capacità di raccogliere la sfida della tormentata sicurezza nazionale per ottenere risultati notevoli in altri campi.La veloce ripresa è infatti il risultato di un lungo processo di trasformazione dell'economia, che oggi permette a Israele di proporsi come un modello economico a sé, come quello anglosassone, quello europeo, o quelli dei paesi emergenti. Il tema è piuttosto discusso tra gli economisti, che sottolineano come il paese abbia sostanzialmente seguito, forse inconsapevolmente, il modello Singapore-Cina: «La politica del governo di Israele, oltre ad accogliere gli immigrati offrendo loro corsi di ebraico, alloggi temporanei e altri aiuti, ha facilitato la nascita e l'espansione di iniziative imprenditoriali ad alta tecnologia, soprattutto attraverso un venture fund», spiegano William Baumol, Robert Litan e Carl Schramm in «Good Capitalism, Bad capitalism». Nel piccolo paese mediorientale, gli investimenti in venture capital, pro capite, sono quindi oggi 2,5 volte quelli degli Stati Uniti, e 30 volte quelli dell'Europa.Il sistema incentiva a tal punto l'imprenditorialità che anche gli immigrati russi, arrivati in Israele dopo 70 anni di economia pianificata, sono riusciti a far risuscitare i loro animal spirits. Un sistema di università di alto livello, e la possibilità di usare a scopi civili le tecnologie militari, hanno poi completato l'opera.Israele è però andata anche oltre la Cina. Di fronte alla crisi del 2001-03, il governo è riuscito a fare quello che non tutte le élites politiche riescono a compiere: ha ridimensionato la sua presa sull'economia laddove era opportuno "lasciar andare" le cose, perché si era raggiunta la soglia critica oltre la quale il governo può fare poco (o male). L'artefice della svolta è stato Bibi, cioè Benjamin Netanyahu, notissimo per le sue posizioni in politica estera, un po' meno - come ha recentemente spiegato Irwin Stelzer dell'Hudson Institute - come ministro delle Finanze. In questo ruolo, con l'aiuto di Stanley Fisher alla banca centrale e di Daniel Doron dell'Israel Center for Social & Economic Progress, Bibi ha ridimensionato i sussidi e liberalizzato il settore finanziario: le start-up israeliane, oltre all'aiuto pubblico, ricevono con facilità anche finanziamenti privati.Israele, che da qualche mese è uscita dagli indici finanziari dei paesi emergenti ed è approdata nel novero delle economie ricche, sta così costruendo un modello unico che mette insieme il ruolo dello stato nel mantenere alta la capacità di innovazione del paese e un buon livello di libertà economica, in un sistema politico democratico, anche se privo di una costituzione e non sempre sufficientemente stabile, soprattutto di fronte alle sfide di politica estera. Anche se il sistema non è ancora del tutto a punto, vale allora la pena di seguirlo con attenzione. Senza pregiudizi.22 Febbraio 2010

Nessun commento: