lunedì 8 febbraio 2010


"Lo Stato ebraico è ancora lontano dall’Europa"

I 27 restano divisi sul rapporto con Israele
CORRISPONDENTE DA BRUXELLES Tutto è cominciato proprio con Israele. E’ successo il 13 giugno 1980, quando i nove capi di Stato e governo dell’allora Comunità economica europea firmarono la Dichiarazione di Venezia, in buona sostanza il primo atto di ciò che in casa Ue oggi si chiama Pesc, politica estera e della sicurezza comune. Fu un passaggio storico e premonitore, perché a Gerusalemme il testo fu giudicato difficile da digerire, in particolare per la sottolineatura del diritto di tutti, palestinesi inclusi, di avere una Patria. Era l’inizio di una stagione di rapporti bilaterali mai semplice e segnata da alti e bassi. Alti, quando gli israeliani sono stati associati all’Unione nel 2000 con una serie di intese di libero scambio. Bassi, quando nel gennaio scorso un ulteriore ampliamento delle relazioni è stato congelato per colpa dell’attacco a Gaza. Berlusconi rilancia il dibattito sull’adesione di Israele, argomento sfiorato in molte occasioni dagli esponenti dei governi succedutisi negli ultimi anni a Gerusalemme, nel momento in cui gli sforzi per la normalizzazione delle relazioni in Medio Oriente sono uno dei dossier principali europei. L’adesione «non è in agenda, anche perché da parte israeliana non è mai giunta una richiesta di entrare a fare parte della famiglia europea», dice Lutz Gullner, portavoce dell’Alto rappresentante della politica estera della Ue Catherine Ashton. «E’ una questione che va considerata anche se i tempi non potranno essere che lunghi», commenta una fonte della Commissione Ue. E’ il massimo che si può ottenere dai tecnici, in questa fase, oltre alla compilazione di una sorta di «Who’s Who» degli amici e dei nemici di Israele. Tedeschi e austriaci pronti a spalancare la porta per ragioni storiche. Cechi favorevoli, come gli olandesi. Francesi, belgi e spagnoli indecisi. Perplessi gli scandinavi. Qui si ricordano le controverse parole del ministro degli Esteri svedese Bildt, senza esitazioni nel mettere il premier Netanyahu e il gruppo estremista palestinese Hamas sullo stesso livello. Gli inglesi sono in mezzo al guado, divisi fra la fedeltà all’alleato americano e i doveri di amicizia con i popoli arabi, sopratutto quelli che investono massicciamente nella City. Potrebbe essere un intoppo, considerato che a tenere il bandolo della matassa è Catherine Ashton, e l’esponente laburista vuol essere cauta. Una missione in Israele è annunciata a breve, senza che però sia stato annunciato se si recherà a Gaza. La questione è controversa. Nelle scorse settimane gli israeliani hanno impedito l’accesso alla Striscia a due ministri europei. Lady Pesc ha condannato il comportamento e niente più, provocando un fastidio sul fronte diplomatico dei belgi respinti. Più decisi gli spagnoli, guida di turno dell’Ue. Il capo della delegazione Ue in Israele, Pedro Serrano, ha detto che la risoluzione del conflitto fra arabi e israeliani rimane «un obiettivo centrale e strategico per l’Unione». A suo avviso, «una ripresa dei negoziati fra le parti, ormai assente da un anno, è della massima importanza». L’obiettivo, ha concluso, deve essere negoziato sulla base del principio «due popoli, due Stati». Ne va dei legami commerciali, visto che l’Ue è il principale partner di Israele. L’accordo euromediterraneo stabilisce condizioni di libero scambio, funziona, produce reddito e qualche ulteriore litigio. Ad esempio sui prodotti dei territori occupati venduti con l’etichetta «made in Israel». I tecnici della Commissione sono costretti a controllare l’ottimo Cabernet Sauvignon prodotto sulle alture del Golan che Gerusalemme vende spesso come nazionale. Le regole non permettono che il vino, o altri generi confezionati nei territori, siano considerati israeliani. «Succede spesso - racconta una esperto di diplomazia commerciale -. E non è solo una questione di etichetta»http://www.lastampa.it/

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