Rassegna stampa
Un film già visto, un copione consunto, attori che recitano una partitura scontata. Come definire il quadro del confronto in Medio Oriente se non per la sua maniacale, ossessiva reiterazione dei medesimi cliché? Nel corso di una intensa settimana un turbinio di fatti e fattacci ha rilanciato le tensioni che, peraltro, covavano sotto le ceneri. A titolo di riepilogo si legga il repertorio fattone da Giuseppe Mammarella su il Messaggero. La visita di Joe Biden si è trasformata in un vero e proprio incidente diplomatico quando, con un tempismo un po’ sospetto, il ministro degli interni Eli Yishai ha annunciato l’intenzione – ai più peraltro nota – di proseguire nella costruzione di 1600 appartamenti in un’area di Gerusalemme orientale, ovvero nella parte della municipalità divenuta israeliana dopo il 1967. Non di meno, ai rilievi sulla scarsa opportunità politica di affermare una volontà che è letta come contraria al moribondo «processo di pace» è seguita la palese seccatura americana, che nei giorni scorsi ha dominato un po’ tutte le pagine dei giornali, tra telefonate infuriate della Clinton a Netanyahu, dichiarazioni di ambasciatori («la crisi più grave degli ultimi anni»), scetticismi giornalistici, sarcasmi televisivi (la rete Fox, di proprietà di Rupert Murdoch, grande nemico del Presidente americano, ha sparato a “palle incatenate” contro l’onta che Washington avrebbe così subito) e analisi di grande o piccolo tenore da parte di “esperti”, più o meno tali, chiamati al capezzale del nuovo conflitto verbale. Probabilmente la vicenda si stempererà da sé, come già è avvenuto in altri casi, non troppo diversi. Barack Obama, dopo avere incassato l’indisponibilità del premier israeliano ad un significativo passo indietro, ha gettato acqua sul fuoco, avendo lasciato decantare i livori del momento, come sottolineano Giampiero Gramaglia su il Fatto Quotidiano e Anna Guaita su il Messaggero. Vale tuttavia la pena di sottolineare come solo una lettura ingenua dei rapporti tra Washington e Gerusalemme possa autorizzare a ritenere che questi siano sempre stati informati alla linearità e alla reciprocità. Chi ne conosce l’andamento sa che le tensioni e i dissapori sono stati spesso la nota dominante, pure in un quadro di sostegno strategico che già la presidenza Nixon, con la crisi del Kippur del 1973, era andata consolidando, mantenuta e rinvigorita poi dai successori. Ai pronunciamenti dei giorni scorsi si sono infine aggiunti i rilievi autorevoli di Giorgio Napolitano. Il Capo dello Stato, in visita a Damasco, ha sottolineato le sue perplessità sulla crescita degli insediamenti ebraici nella parte orientale della capitale rispetto ai destini futuri di un accordo tra le parti in conflitto in Cisgiordania. Così le cronache di Marzio Breda per il Corriere della Sera, Dino Pesole su il Sole 24 Ore, Paolo Passarini per la Stampa e Marcella Ciarlanelli su l’Unità. Nel mentre la querelle sulle metrature cubiche di Gerusalemme teneva accesi i riflettori dell’informazione Hamas, ineffabile e puntualissima nel recitare la sua plumbea parte di soggetto del disordine mediorientale, proclamava la «giornata della rabbia» (difficile pensare che possa invitare ad una mobilitazione che non sia quella basata su un qualche risentimento) nel corso della quale si succedevano incidenti di strada e scontri di piazza. Tanto è bastato, in un quadro ancora una volta contrassegnato da una triste prevedibilità, perché ci fosse chi parlava apertamente di inizio della «terza intifada». Dopo di che, a compimento delle tensioni, nella giornata di ieri è avvenuto il lancio di un paio razzi da Gaza, rivendicato dalle brigate Ansar al-Sunna, delle quali ci parlano Camille Eid su il Avvenire, Aldo Baqis per la Stampa, Alberto Stabile su la Repubblica e Guido Olimpo per il Corriere della Sera, che denunciano l’infiltrazione salafita che minaccia la stessa presenza di Hamas. Su quest’ultima vicenda, che ha causato un morto, significativamente non un cittadino israeliano bensì un lavoratore straniero, si soffermano molte testate tra le quali Luca Geronico per il Giornale, Fabrizio Battistini su il Corriere della Sera, Ugo Traballi su il Sole 24 Ore e ancora Alberto Stabile per la Repubblica. Evento, quest’ultimo, che si è consumato nel mentre l’incaricata per la politica estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, compiva il suo tour “pastorale” in Israele e nei Territori. Che la primazia del movimento radicale sia insidiata da gruppi e gruppuscoli di osservanza ancora più estremista, non è una novità e si può stare certi che nei prossimi tempi il contrasto tra questi soggetti occuperà non poco delle cronache da Gaza. Di una vicenda parallela, la volontà di Ankara di espellere i lavoratori armeni non in regola, alimentata dal diniego alla dichiarazione del Congresso americano (e del Parlamento svedese), che definisce «genocidio» l’assassinio di un milione e mezzo di loro connazionali in Anatolia, durante la Prima Guerra Mondiale da parte delle autorità turche, ci dà conto Luigi De Biase su il Giornale, insieme ad un commento sulla medesima testata di R.A. Segre. che riconduce al conflitto tra islamismo e laicità la partita politica così in corso. Tra corsi e ricorsi della storia parrebbe, un secolo dopo, di essere ancora alla casella di partenza. La politica in Medio Oriente è spesso qualcosa di simile ad un gioco dell’oca, dove se si finisce nella casella sbagliata si torna ai nastri di partenza. L’importante, a tale riguardo, è giocarsi il proprio ruolo non come degli ingenui pennuti, se non si intende rimanere letteralmente spennati. Vince chi è più abile, non chi fa la faccia più brutta (o più buona). Claudio Vercelli, http://www.moked.it/ (cliccando sui titoli si aprono articoli)

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